Barbarie capitalista - Da Nizza al Bangladesh, dagli USA alla Turchia

Aggiornamenti sulla situazione turca

Gli articoli, di seguito pubblicati, sugli aventi drammatici che hanno interessato la Turchia, sono stati redatti “a caldo”, subito dopo, cioè, la strage di Istanbul e il colpo di stato di luglio, ma, nella sostanza, quanto è avvenuto (e sta avvenendo) dopo di allora conferma le ipotesi analitiche elaborate di getto. Di nuovo, benché non rivendicato, un attentato di probabile matrice islamista (cioè Isis) ha provocato decine di morti in una regione abitata in prevalenza da curdi, mentre prosegue l'ondata repressiva messa in atto dal “sultano” Erdogan contro gli oppositori del suo regime, accusati di aver preso parte – o appoggiato – al fallito “pronunciamento” del 15 luglio. Essi sono additati come gli esecutori materiali di un piano concepito e diretto dall'imam, nonché uomo d'affari, Gulen fino a qualche anno fa strettamente legato al premier turco e poi autoesiliatosi negli Stati Uniti per sfuggire alle grinfie del suo ex compagno di merende, con il quale era entrato in forte contrasto. Proprio la richiesta di estradizione dagli USA dell'imam ha creato tensione tra i due paesi interessati, tanto che il “sultano” ha imputato l'amministrazione americana di adottare un'indulgenza eccessiva, se non di appoggiare sotto banco il suo attuale nemico numero uno. Lo stesso genere di lamentele, per così dire, benché un po' meno forti, sono state rivolte all'Unione Europea, colpevole, agli occhi del presidente turco, di aver avuto quanto meno un atteggiamento attendista, se non di simpatia, rispetto ai golpisti, ventilando la possibilità di far saltare l'accordo sui migranti-profughi di poco tempo fa. Che le accuse di Ankara abbiano un qualche fondamento non è affatto da escludere, certo è che Erdogan sta cercando di sfruttare ogni carta possibile, compreso il bluff, per spostare a proprio favore i rapporti di forza in una regione chiave, in cui si confrontano o, meglio, si scontrano, anche per interposta persona, imperialismi grandi e piccoli, che, naturalmente, non indietreggiano di fronte a nulla pur di imporre i propri interessi economici, politici, militari, disegnando una trama di ricatti geo-strategici, doppiogiochismi , ribaltamenti di scena come forse nemmeno le più fantasiose “spy stories” riescono a raccontare. Dall'abbattimento di un caccia russo ai “baci e abbracci” tra Erdogan e Putin, dalla compiacenza smaccata verso i “foreign fighters” dell'Isis e il “califfatto” in generale al bombardamento delle sue posizioni al di là del confine siriano, cogliendo per altro l'occasione per sferrare un attacco pesante alle milizie curde dell'YPG, fino a ieri sostenute dai raid aerei dei bombardieri USA e oggi (24 agosto) invitate – dal vicepresidente americano Biden, in visita ad Ankara – a farsi più in là, a sospendere ogni azione di guerra contro il Daesh. Tra parentesi, l'appoggio non secondario degli Stati Uniti ai curdi si può configurare anche come una forma di pressione nei confronti di Ankara – che da sempre considera la prospettiva di uno stato curdo incuneato nell'area una catastrofe – per contenere la sua “disinvoltura” politico-diplomatica e le sue smanie imperialistiche regionali.

Ma evidentemente una parte della borghesia turca non gradisce l'attivismo del “sultano”, il suo personalismo (e della sua famiglia), lo spazio sempre più largo concesso al bigottismo in chiave islamista, la riduzione – relativa – del peso politico dell'esercito a favore della polizia, blandita e colmata di privilegi (prima di tutto economici) per farne una sorta di Guardia pretoriana a difesa del regime, come in effetti è avvenuto. E' questa “guardia pretoriana” a condurre l'azione repressiva di cui si parla più su, repressione che, secondo il più classico dei copioni, si connota per brutalità e determinazione. Sono note le foto dei militari golpisti denudati, legati e ammassati come bestie nei centri di detenzione, le notizie relative ai linciaggi verso semplici soldati colpevoli solo di indossare una divisa: premesse, per così dire, delle epurazioni che il regime sta effettuando in tutti i settori dell'amministrazione pubblica. Esercito, magistratura, università, scuola: sono decine di migliaia – si dice 35.000 – le persone arrestate, tanto che il governo farà uscire di prigione 38.000 detenuti “comuni” per far posto ai golpisti (veri o presunti); senza contare le altre migliaia di statali (a vario titolo) licenziati perché sospettati di scarsa fedeltà al regime. La vastità dell'operazione è tale da far ipotizzare che Erdogan abbia colto la palla al balzo per effettuare una “manovra finanziaria” sotto mentite spoglie, tagliando posti di lavoro, il che ha il vantaggio supplementare di intimidire i lavoratori statali, in primo luogo, ma anche la classe lavoratrice in generale. Questa, infatti, non deve aspettarsi niente di buono dalla stretta autoritaria in atto, che rafforza gli strumenti repressivi di una borghesia mai stata tenera con la classe operaia – intesa in senso lato – che non si è mai fatta scrupolo di massacrare i lavoratori nelle piazze e non se ne farà, se il proletariato dovesse scendere sul terreno della lotta per la difesa delle proprie condizioni di vita intaccate dalla crisi.

Anche in Turchia, va da sé, la crisi costituisce lo sfondo su cui si snodano gli eventi di questi mesi.

L'economia turca negli ultimi quindici anni ha “beneficiato” di un boom economico che contrasta con il quadro economico depresso della “metropoli” capitalista, inducendo molti – anche nella cosiddetta sinistra – a credere, a torto, che la crisi non abbia carattere strutturale (cioè che non intacca le basi stesse dell'economia mondiale) e che, in ogni caso, possa essere superata con accorte politiche statali. In realtà, è ovviamente, il “boom” è l'altra faccia della crisi: i numerosi capitali accorsi in Turchia in cerca di saggi del profitto soddisfacenti hanno approfittato – replicando uno schema collaudato ormai da decenni – di condizioni particolarmente favorevoli, tra cui salari che non superano, quando va bene, i quattrocento euro, il che, anche tenendo conto del costo della vita locale, non consente certo agli operai di nuotare nell'oro.

Ma anche l'economia turca non sfugge alle leggi dell'accumulazione capitalista e poiché le occasioni di investimento produttivo (di plusvalore) hanno in questa fase storica un limite molto ravvicinato, ecco l'entrata in scena in pompa magna della solita speculazione finanziaria, della droga del credito del credito facile o, se si preferisce, del debito spensierato:

il debito delle famiglie vale più del 50% del reddito disponibile delle stesse. Nel complesso, i prestiti erogati dalle banche, in gran parte inesigibili, perlopiù diretti verso investimenti improduttivi, rappresentano adesso il 60% del Pil.

L. Pandolfi, Gli effetti economici della crisi turca, il manifesto, 20 luglio 2016

E' un quadro che da almeno un quarto di secolo si è visto altre volte, così come s'è visto chi ha pagato e continua a pagare duramente l'euforia (altrui) finanziaria indotta dalla droga speculativa. Certo, “l'economia zombi” – come diceva un tale non sospetto di simpatie comuniste – è una delle componenti principali del consenso che il “sultano” finora riscuote in ampi settori della cosiddetta società civile e anche in certi strati proletari, ma qualora la magia dovesse bruscamente finire, allora è possibile aspettarsi che gli altri allucinogeni – la religione, il nazionalismo – non bastino più per intontire le coscienze proletarie e che queste si mettano in movimento.

L'estrema debolezza del controveleno alla multiforme ideologia borghesia, dell'acceleratore delle iniziative della classe, del polo magnetico delle migliori energie proletarie, cioè dell'organizzazione comunista, deve spingere le potenziali, disperse forze rivoluzionarie – quasi sempre singole individualità o sparuti gruppi spesso in via di orientamento – a cercare fattivamente una strada per dare finalmente vita allo strumento indispensabile della liberazione proletaria, il partito internazionale della rivoluzione comunista. La strada è irta di ostacoli, tortuosa, estremamente accidentata, lo sappiamo bene, ma non ce ne sono altre.

CB
Mercoledì, September 7, 2016

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.