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Home ›Dalla strage di Istanbul a quella di Dacca: la matrice è sempre quella
La svolta di Erdogan
Allo stato attuale delle cose, con le conoscenze che sono a nostra disposizione, ad organizzare la strage potrebbero essere stati quelli dell'IS come vendetta contro Erdogan per aver cambiato politica nei loro confronti. Erdogan infatti, si è accorto di essersi alienato praticamente tutti con la sua politica aggressiva e stupida sia sul terreno del perseguimento dei suoi interessi politici personali che di quelli imperialistici turchi nella zona. Per questo ha ritenuto di prendere le distanze dal jihadismo, peraltro in ritirata e in gravi difficoltà, che ha aiutato sino a ieri sia in termini di finanziamenti e armamenti che di agibilità del territorio turco. Abbandonata la strada della collusione con il jihadismo, ridimensionate le sua aspirazioni ad abbattere il regime di Bashar el Assad in Siria, sta ricucendo i rapporti con i vecchi alleati, pesantemente messi in crisi negli ultimi due anni. Con la Russia sta lavorando sul terreno diplomatico (ha scritto una lettera di scuse a Putin per l'abbattimento del caccia russo Sukoj) e su quello economico strategico per la costruzione del Turkish Stream che, dopo la crisi con Mosca, rischiava di rimanere sulla carta. Non va dimenticato che uno degli obiettivi dell'aspirante sultano è quello di potenziare il ruolo di hub energetico della Turchia nel Mediterraneo, ponendola al centro degli smistamenti di petrolio e gas tra la parte asiatica della Russia e le necessità di approvvigionamento dell'Europa. Ha ripreso i contatti con lo Stato di Israele per rimettere in piedi la vecchia alleanza militare e, quindi, riallacciare anche i fili di un rapporto controverso con gli USA, rappresentato dalla decisione americana di togliere l'embargo all'Iran, suo acerrimo nemico, e di compensare la decisione di costruire con la Russia la strategica pipe line che andrebbe a sostituire il fallimento del South Stream. In aggiunta, il governo di Erdogan sta acconsentendo, su richiesta americana, di concedere libero transito alle truppe curde, in territorio turco, per combattere le truppe del Califfo nero. La strage di Istanbul potrebbe essere, dunque, il disperato tentativo dello IS o di sue filiazioni locali, di mostrare di essere ancora forte e in grado di colpire chiunque in qualunque momento, quando invece sta attraversando una grave crisi di esistenza e viene abbandonato anche dall'ultimo degli alleati, fatta eccezione per qualche Emirato e per il solito Qatar. Ovviamente siamo nel campo delle ipotesi, ragioniamo a "botta calda" ed è tutto da verificare. Come è da verificare lo stato della lotta di classe in Turchia, il ritorno del nazionalismo curdo del PKK, e della sua scheggia “impazzita” il Tak (formazione staccatasi recentemente dal PKK) che si ripropone sul terreno del terrorismo, negli ultimi due anni ha firmato almeno tre attentati suicidi con decine di morti ad Ankara e Istanbul. Il governo di Ankara non ha lasciato perdere la facile occasione, proponendo alla UE e al mondo intero, di condannare e perseguire l'IS come il suo nemico interno, il PKK e le sue filiazioni combattenti. Da verificare anche il ruolo ambiguo dei Sindacati e, non da ultimo, le capacità di resistenza dello stesso governo Erdogan.
Dacca e dintorni
Lo Stato Islamico dall'intervento russo ad oggi non solo ha ridimensionato il proprio programma di costruzione di una entità statuale jihadista ma, suo malgrado, si è visto togliere il terreno da sotto i piedi. Non è solo una metafora. In circa dodici mesi ha perduto il 40% dei territori conquistati in Siraq, Ha perso città importanti come Fallujha e Palmira, la “capitale” Raqqa è in pericolo e l'avanzata degli eserciti regolari siriano e iracheno, nonché delle truppe curde e iraniane, sembra inarrestabile. La “campagna” di Libia è agli sgoccioli. Sino a pochi mesi fa l'IS controllava circa 180 chilometri di costa in prossimità della città di Sirte con la gestione di alcuni pozzi petroliferi presenti nell'area. Oggi i pozzi petroliferi non li controlla più, le sue milizie son asserragliate in alcuni quartieri della capitale della Cirenaica e l'agibilità sui quasi duecento chilometri di costa mediterranea è stata annullata dal nuovo governo libico, governo di Serraj, fortemente voluto dagli Usa, dalla Coalizione Internazionale in chiave di redistribuzione della rendita petrolifera libica, a condizione di eliminare le perturbazioni prodotte dallo Stato Islamico. Il tutto nella speranza che il progetto funzioni, altrimenti è già stato elaborato un piano B che prevede lo smembramento della Libia in tre zone di influenza imperialistica di cui una a vantaggio dell'Italia del governo Renzi.
Tutto da copione. Finchè il jihadismo di al Baghdadi è stato funzionale agli interessi imperialistici e strategici di paesi come gli Usa, l'A. Saudita, la Turchia ecc. in prospettiva anti Assad, per l'ISIS c'erano a disposizione spazi e finanziamenti; con l'intervento russo che ha sparigliato i giochi a favore di Assad, le cose sono cambiate. Il dittatore di Damasco si è imposto come un interlocutore possibile anche per l'Occidente, Mosca ha ottenuto il primario obiettivo di salvare il suo alleato e con lui la possibilità di continuare ad essere presente nel Mediterraneo grazie all'agibilità dei porti siriani. L'Arabia Saudita e la Turchia, pur per motivi opposti e reciprocamente conflittuali all'interno del mondo sunnita, si sono parzialmente adeguate. Per quasi tutti i maggiori imperialismi della partita medio orientale il sedicente Califfo non solo non era più interessante sul piano della strumentalizzazione, ma il solo fatto di essere presente nell'area incominciava ad essere d'intralcio a quegli stessi soggetti che precedentemente gli avevano consentito di svilupparsi in maniera incontrollata. Da qui le difficoltà dell'IS di procedere nel suo feroce progetto, non solo, ma di essere costretto a recedere su tutti i fronti e non solo su quelli territoriali. Proprio per questo la strategia di al Baghdadi ha dovuto subire degli aggiustamenti. Oggi si gioca le sue residue carte con la strenua difesa delle ultime “roccaforti” come Sirte e Raqqa, e con la controffensiva terroristica da utilizzare in chiave mediatica per convincere l'esterno che l'IS è ancora forte, e l'interno che è ancora necessario uccidere e morire perché “un altro mondo è possibile”: quello di Allah e della rendita petrolifera.
Prima Istanbul poi Dacca sono più il segno di una progressiva debolezza che il sintomo di un allargamento dell'influenza dello jihadismo all'interno dei paesi musulmani. Anche se, nel caso dell'eccidio di Dacca, vanno specificate tre cose. La prima è che gli autori della strage hanno agito prioritariamente contro il governo del Bangladesh, “reo” di essere poco musulmano, colluso con l'occidente e succube della politica estera indiana. La seconda che l'atto terroristico contro imprenditori giapponesi e italiani mirava a colpire sempre il governo di Dacca sul terreno degli affari e della finanza, punendolo per la feroce repressione nei confronti di partiti e organizzazioni appartenenti all'area dello jihadismo domestico. Nei soli ultimi sei mesi sono stati diecimila i militanti jihadisti che hanno affollato le carceri di tutto il paese. La terza si riferisce alla possibilità che i componenti del “commando” non fossero affiliati allo IS, ma ne abbiano sfruttato il “marchio”, concedendo allo IS stesso la possibilità della rivendicazione. Il che significherebbe che l' IS non è organizzativamente presente nei paesi dove avvengono gli attentati, ma che lo jihadismo presente ne subisce ancora il fascino, a meno che non faccia parte della concorrenza di al Qaeda.
Imperialismo e jihadismo
In qualsiasi caso siamo ormai in presenza di una certezza: la crisi internazionale ha accelerato il muoversi dell'imperialismo, la sua aggressività e la barbarie bellica che, a sua volta, ha innescato quella dello jihadismo comunque coniugato, in veste religiosa, nazionalistica o di generica difesa aggressiva. L'imperialismo stimola altro imperialismo, la barbarie genera barbarie in una perenne spirale che si attorciglia sull'asse della crisi del sistema capitalistico, senza mai uscire dalla sua tragica cornice.
Le stragi di Baghdad
Lo stesso discorso vale per le due stragi compiute dall'IS domenica 3 luglio. Gli attentati suicidi che hanno prodotto 200 vittime civili sono la risposta jihadista alle recenti sconfitte sul terreno e nel cuore degli interessi economici. Più la vita per l'IS si fa difficile e più la sua reazione si fa violenta. A Baghdad, nei centri commerciali e nei quartieri sciiti l'IS ha voluto rispondere agli attacchi americani di domenica 30 giugno che hanno prodotto 250 morti tra i miliziani del Califfo, alla perdita di Falluja e, contemporaneamente, è stata una ritorsione nei confronti del governo di Baghdad, del suo essere strumento del “satana” occidentale oltre che di confessione sciita e, quindi, nemico per definizione per l'egemonia all'interno del mondo musulmano.
Comunque siano andate le cose e chiunque sia all'origine dell'ennesima strage va ricordato che:
- Siamo in presenza di una preoccupante escalation della crisi del sistema produttivo capitalistico, che, oltre a fame e miseria, produce guerre e barbarie.
- La crisi, ben lungi dall'essere superata, muove le pedine dell'imperialismo sul terreno della gestione delle materie prime energetiche, senza esclusione di colpi, sia che siano inferti dalle solite potenze che si disputano la supremazia nell'area (Usa, Russia, Turchia), sia che provengano dalle mire di un sedicente Stato Islamico, peraltro in evidente stato di sofferenza che spera di superare con episodi di terrorismo suicida.
- Gli enormi interessi economici e strategici che si muovono nel Medio oriente sono tali da innescare guerre tra Stati, guerre civili, alleanze strumentali, capovolgimenti di fronte, tradimenti e ripensamenti a seconda delle necessità contingenti e delle prospettive imperialistiche a lungo termine.
- Nel bel mezzo di tanta barbarie si agitano una serie di borghesie locali, prevalentemente curde (per quanto riguarda Turchia-Siraq) ma non solo, che sono soggetto e strumento di guerre nella guerra, che vanno al di là dei loro interessi e finiscono per essere inevitabilmente riassorbite nel vortice degli imperialismi maggiori.
- La vittima designata, comunque si sviluppino gli scenari di guerra, è il proletariato dell'area che, senza prospettive di una alternativa al capitalismo che crea le crisi e le sue “vie d'uscita”, ovvero le guerre, finisce per rimanere stritolato tra i colossi imperialisti. Finisce per diventare carne da cannone al seguito di qualche nazionalismo, e per diventare carne da macello in uno dei tanti attentati terroristici.
O il proletariato (da quello turco a quello curdo, da quello siriano a tutti quelli del Medio oriente, da quello europeo a quello del Bangladesh) inizia a percorrere un cammino autonomo, oppure la barbara spirale delle guerre e degli attentati continuerà il suo macabro percorso. E' un cammino lungo e terribilmente difficile ma da iniziare sin da subito, raggruppando le sparute avanguardie, dovunque esse siano, per poi dare vita al necessario punto di riferimento politico e organizzativo mondiale a tutte quelle istanze suscitate dalla crisi che nel capitalismo nascono e nella società borghese muoiono perché senza una speranza di alternativa.
FDBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #09-10
Settembre-ottobre 2016
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