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Home ›Gli allori del Jobs Act e le miserie del lavoro
Come sempre, la realtà è ciò che più di ogni altra cosa segna la distanza fra le condizioni effettive con cui ci si confronta e i sogni - in questo caso sarebbe meglio dire la propaganda - che ne danno una immagine distorta a proprio uso e consumo.
Stiamo parlando dei famosi dati sull'occupazione sciorinati dal governo in carica alla notizia dell'attivazione di 79000 contratti a tempo indeterminato “a tutele crescenti”, nei primi due mesi del 2015 .
Su questi dati ci siamo dovuti sorbire tutta l'enfasi sulla positività degli effetti del Jobs Act, arrivata persino al rilancio della retorica del famoso milione di posti di lavoro di berlusconiana memoria.
Sono bastati poco dopo i dati occupazionali ISTAT che hanno di fatto riportato le cose alla loro realtà: non solo la disoccupazione non segnava un'inversione di tendenza, ma proprio nella fascia che il famoso Jobs Act dovrebbe inserire nel mercato del lavoro, i giovani, si è registrato un incremento del dato di disoccupazione.
D' altro canto, il governo stesso nei suoi proclami di vittoria si era ben guardato di diffondere, accanto ai dati delle nuove assunzioni, quelli delle cessazioni, che le “nuove” assunzioni più che essere figlie del Jobs Act si legavano ai 1,9 miliardi di euro inseriti nella Legge di Stabilità precedente con i provvedimenti di decontribuzione fiscale per le nuove assunzioni nel prossimo triennio, e, cosa più importante, che questa cifra rappresentava per lo più la trasformazione di vecchi contratti precari nel nuovo “contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti”.
Oramai da tempo sia abituati alle famose “svolte annunciate” in campo economico e sociale da parte dei vari governi che si sono susseguiti sopratutto in questi anni di crisi profonda del sistema economico capitalista. E come sempre, come dicevamo all'inizio, la realtà a discapito di ogni bombardamento propagandistico ha dimostrato il suo essere impietosa.
Ciò che rimane sul tappeto, all'inverso, è che la crisi continua a macinare.
La crisi del settore industriale manifatturiero, con relative chiusure di impianti e continue ristrutturazioni dei cicli produttivi, ne è l'elemento principale (la vicenda Whirlpool è solo l'ultimo esempio), segnando di fatto una situazione di effettiva restrizione della base industriale in una più generale condizione di stagnazione economica che a cascata investe tutti i settori.
Per i capitalisti si pone costantemente il problema di adeguare tutti i fattori produttivi al ciclo economico, primo fra tutti la forza-lavoro. In un contesto recessivo e di inasprita concorrenza, all'abbassamento del costo del lavoro per unità di prodotto deve corrispondere un aumento di produttività confacente nonché una gestione della sterminata platea dell'esercito industriale di riserva capace di modularsi alle necessità del ciclo capitalistico stesso, alle condizioni dettate dai livelli di concorrenza, e relativo sfruttamento, aggiungiamo noi, sul mercato capitalistico.
Il Jobs Act, in fondo, tende a rispondere a queste esigenze con un tipo di gestione del mercato del lavoro che sommariamente permette di usare e gettare la forza lavoro senza tanti intoppi e problemi di fronte alle necessità produttive, adeguandone l'uso a termini di sfruttamento più intensivi. Nulla di più e nulla di meno.
Che il “contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti” di fatto rappresenti anch'esso una faccia del precariato eterno lo abbiamo già detto, quando in maniera più approfondita ce ne siamo occupati nei nostri precedenti articoli su questo giornale, ma va rilevato che esso non incide di fatto sulla disoccupazione reale.
Al di là dei dati statistici borghesi, dove anche la matematica diventa un'opinione a seconda di ciò che si vuole asserire, tutto quello che è stato messo in piedi in realtà significa soltanto spalmare la condizione di precarietà sull'intero mondo del lavoro, giocando su una condizione di necessità e ricattabilità permanente ad uso e consumo dei datori di lavoro, aprendo linee di conflitto artificiose fra “garantiti o meno”, fra “giovani e vecchi”, all'interno degli stessi posti di lavoro, fino a fare della condizione lavorativa un fatto personale a scapito degli altri.
Per questo, un tasso di disoccupazione elevato in contesti di crisi oltre ad essere un fatto oggettivamente determinato e solo in parte riassorbibile, viene sostanzialmente modulato sia verso l'alto che il basso in maniera tutto sommato stabile. Non si tratta di lasciare per strada migliaia di diseredati, ma di legarli indissolubilmente alle catene del profitto capitalista in concorrenza l'uno con l'altro.
Lo sviluppo delle forze produttive è di fatto quanto mai entrato in contraddizione con i rapporti di produzione e sociali capitalistici che gli corrispondono attualmente; questo stesso sviluppo permetterebbe - in un diverso sistema economico, sociale e politico come il Socialismo - di liberare le energie dell'umanità, liberandola di fatto dalle catene in cui oggi viene soggiogata dalla logica capitalistica.
Ma il Socialismo non è una semplice alternativa che scaturisce da sé, pur nascendo dalle contraddizioni intrinseche del modo di produzione capitalistico, ma si realizza attraverso il protagonismo della classe che per antonomasia è portatrice di questa alternativa in senso soggettivo e politico: il proletariato.
Lavorare all'unità di classe intorno ai propri interessi e legarli ad una prospettiva rivoluzionaria, per il Socialismo, diventano oggi più che mai i due aspetti indissolubili che devono animare le azioni dell'avanguardia comunista all'interno della classe proletaria: non ci sarà affrancamento dalla propria condizione di sfruttamento senza lotta per il Socialismo. L'alternativa è chiara: o socialismo, o barbarie.
EGBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #05
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