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Home ›Arabia Saudita, religione al servizio dell'imperialismo
Occidente contro oriente. Scontro di civiltà. Guerre di religione, sunniti contro sciiti, sunniti contro sunniti. Musulmani contro Crociati. Tutto vero? Per niente. È solo la crisi economica che ha messo in fibrillazione alcuni segmenti del capitalismo mondiale, dando il via allo scatenamento di una serie di episodi di guerra imperialistica. Un piccolo esempio.
In mezzo alla devastazione economica e sociale prodotta dalle cosiddette primavere arabe, brillano per intensità e ferocia alcuni imperialismi dell'area, tra cui quello dell'Arabia saudita. Nella petro - monarchia di Riad, retta da una delle interpretazioni più rigide dell'integralismo sunnita, quella wahabbita, per dieci milioni di cittadini ne esistono altrettanti stranieri, lavoratori dipendenti, veri e propri schiavi addetti a tutti i lavori che il ricco cittadino saudita non fa. Il rapporto schiavistico è configurato in questo modo: il lavoratore straniero che vuole andare in Arabia a lavorare deve, mediamente, sborsare una cifra attorno ai 4 mila euro in tasse e richieste di soggiorno e bustarelle, sulla base di un contratto di lavoro garantito da un cittadino locale. Il quale (Kafil) trattiene il suo passaporto, decide come e quando interrompere il rapporto di lavoro. Non ci sono tutele sindacali, l'orario di lavoro dovrebbe essere di 8 ore al giorno ma, di solito, la giornata lavorativa arriva a 10 o 12 ore. Gli straordinari non vengono pagati, il lavoratore non può nemmeno affrancarsi licenziandosi e, una volta liberato dal contratto perché il suo Kafil non ha più bisogno di sfruttarlo, deve pagare sino a sei mensilità per riottenere il passaporto e ritornare al paese d'origine. In genere, i lavoratori stranieri, regolari o clandestini, che è ancora peggio, sono indiani, bengalesi, del Belucistan o del Corno d'Africa. Nel paese con il reddito pro capite più alto del mondo le condizioni di vita sono così pesanti che migliaia di lavoratori stranieri muoiono di stenti, di cirrosi, cercando nell'alcool una impossibile via di fuga, alcool che, nonostante il divieto imposto dalla religione musulmana, si trova e a carissimo prezzo; molti altri sono colpiti dalla depressione sino al suicidio.
Detto questo, la più grande petro-monarchia del mondo usa i suoi affilati artigli anche fuori dai confini nazionali. L'imperialismo saudita, forte di una rendita petrolifera che gli permette di essere il primo importatore di armi al mondo e di avere il più potente esercito di tutta l'area Medio orientale, usa il suo potere per contenere la concorrenza all'interno dell'Opec, per contribuire a controllare il prezzo del greggio, per eliminare tutti i suoi avversi sciiti e non. Per estendere il wahabbismo sunnita quale veicolo di controllo e di dominio tra i paesi alleati, satelliti o succubi di quell'area che va dal nord Africa al Golfo persico. Il che ha favorito il finanziamento e la nascita di alcuni terrorismi, dai talebani all'Isis, in collaborazione con i Servizi americani, con lo scopo di mettere in crisi tutti quei paesi che avrebbero potuto disturbare i disegni egemonici di Riad.
L'arma ideologica brandita come al solito in queste latitudini politiche, è quella della religione. Ovvero quella della difesa dell'integrità dalla parola di Allah, in chiave sunnita wahabbita, contro ogni deviazione interpretativa che non sia quella della Sunna, cioè contro tutti gli sciismi. Che l'uso della religione sia strumentale è fuori di ogni dubbio, come strumentale è per qualsiasi imperialismo occidentale l'uso dell'ideologia laica; la differenza dipende solo da quale narcotico si ritiene sia più funzionale all'imbonimento delle masse, che alla guerra ci devono andare per difendere interessi che non sono i loro, anzi ne sono l'antitesi economica e sociale.
Un esempio chiaro e lampante di come la religione, anche nel caso saudita, funga da “velo di Maya” per nascondere i veri obiettivi dell'aggressione militare, è la vicenda yemenita. Lo Yemen è un paese poverissimo, ha poca agricoltura, poco petrolio, 440 mila barili di petrolio al giorno nel 2011 e oggi meno della metà. La bilancia dei pagamenti con l'estero è perennemente in rosso, c'è molta disoccupazione e le condizioni di vita sono ai limiti della sussistenza. Nonostante questo, o proprio per questo, è scoppiata una guerra civile tra le tribù Houti del nord, di religione sciita e quelle del sud di religione sunnita. Il contendere è dato dallo sfruttamento del poco petrolio disponibile e dal controllo del porto di Aden, strategico per la sua collocazione geografica. Gli Houti sciiti sono più o meno palesemente sostenuti dall'Iran, mentre l'Arabia saudita si è schierata dalla parte dei “sudisti” sunniti. L'Arabia è anche andata oltre, non si è limitata ad armare e finanziare le tribù del sud ma è pesantemente intervenuta con l'aviazione. Cosa che si è ben guardata dal fare contro lo sciita alawita Bashar el Assad di Siria, pur facendo parte, con gli Usa, di quel fronte che ha armato, finanziato e politicamente coperto tutti i movimenti terroristici che combattevano contro Assad, dall'Isis ad al Nusra, solo per riferirci alle organizzazioni più importanti. Nel caso yemenita il regime di Riad ha ritenuto di intervenire direttamente per tre motivi. Il primo riguarda la scontata necessità di non consentire la nascita di uno Stato sciita ai suoi confini meridionali. Il secondo si riferisce all'opportunità di esercitare un'influenza strategica sul porto di Aden e sull'ingresso al Mar Rosso attraverso lo stretto di Bab el Mandeb da dove transitano milioni di barili di greggio diretti verso e di ritorno dal Canale di Suez. Il terzo e ben più importante motivo è la feroce lotta contro lo storico nemico iraniano, che non solo sorregge la fazione yemenita degli Houti che combattono contro il governo sunnita di Sanaa, ma contende ai wahabbiti il predominio imperialistico di tutta la zona. La questione è resa ancora più delicata dal tentativo americano di raggiungere un accordo con il governo di Teheran sulla controversia nucleare che, se andasse in porto, sarebbe, da un lato, una delle poche vittorie dell'amministrazione Obama sullo scenario internazionale prima della fine del suo mandato, ma dall'altro rilancerebbe il ruolo della Repubblica sciita degli Ayatollah, una volta liberata dal pesante fardello rappresentato dalle sanzioni internazionali, il tutto a discapito dei sauditi.
La lotta contro l'Iran si sarebbe fatta anche se il paese non fosse in mano agli ayatollah sciiti, ma ad una qualsiasi confessione sunnita. Così come il governo di Riad, dopo aver favorito la nascita dell'IS, lo sta combattendo, dal momento che gli è scappato di mano per intraprendere un percorso economico e politico autonomo, contro gli interessi dei Saud. Anche se l'IS di al Baghdadi è di fede sunnita e si fonda sulla sharia quale guida sociale oltre che spirituale. Le leggi che regolano gli interessi dell'imperialismo vanno ben oltre quelle che decidono l'interpretazione dei passi del Corano che, al massimo, funge da duttile copertura ideologica per quella massa di diseredati sociali che sono sistematicamente chiamati ad essere la solita carne da macello per il dominio dei soliti macellai.
FDBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #05
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