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Le radici spezzate - Il percorso ideologico della controrivoluzione in Italia - Nuova pubblicazione dell'Ass. Int. Prometeo - Autore Mauro Stefanini
Dieci anni fa, il 2 maggio 2005, moriva il nostro indimenticato compagno Mauro Stefanini. Per ricordare la sua figura cristallina di rivoluzionario, di militante che ha svolto un lavoro enorme per il partito, pubblichiamo una raccolta di scritti sul processo che portò alla sconfitta delle rivoluzione in Russia, in Europa e nel mondo nei primi anni '20 del secolo scorso, fino allo scoppio del secondo massacro imperialista mondiale. Qui potete leggere la prefazione al libro in uscita.
Prefazione a posteriori
Non esiste movimento politico che non sia anche movimento sociale, espressione di classi o sottoclassi che si muovono sulla scena sociale e politica, nel momento dato. Evitando certe interpretazioni meccanicistiche di questa tesi, essa rimane uno dei capisaldi della interpretazione materialistica dialettica della storia.
Mauro Stefanini
Apparentemente, è difficile trovare nel PD qualche traccia che lo ricolleghi, dal punto di vista dell'impostazione politica, a quello che è stato il Partito Comunista Italiano (PCI), “il più grande partito della classe operaia in Occidente”, dopo le contorsioni “anagrafiche” dell'ultimo quarto di secolo e dopo la confluenza con le correnti del cattolici “di sinistra” dell'ex Margherita, ex Partito Popolare, ex tutto (nel nome). Da quando, poi, Renzi ha preso il comando del partito, ispirandosi, tra le altre cose, al Labour Party di Blair (il “neoliberismo di sinistra”?!), la distanza col PCI sembra, e per certi aspetti è, davvero stellare. Eppure, il partito che ha varato il jobs act, che è in luna di miele con Marchionne, ha un legame diretto con quello che fu il PCI e le trasformazioni che cominciarono a toccare il PCI dagli anni '80 del secolo scorso, frutto di un travaglio interno a un partito già espressione degli interessi di conservazione capitalista, ma che per una storia tanto originale quanto tragica (per la classe operaia) era legato a un mondo… che crollava.
Per la lunga vicenda che qui esamineremo, il PCI aveva da poco compiuto lo strappo dall’impero sovietico; da poco cioè si era dissociato da quella “patria del socialismo” che nel 1989 avviava la sua bancarotta, cessando così di costituire il fronte avverso a quello di appartenenza dello stato italiano. Borghese e filo-capitalista, il PCI era però rimasto per lungo tempo il braccio politico dell’Urss nel cuore del fronte occidentale. Lo “strappo” di Berlinguer non bastava per legittimarlo agli occhi della borghesia italiana e aprirgli così la strada allo svolgimento del ruolo che già si era assunto, di gestore amministratore dello stato capitalistico borghese italiano. Era necessario ancora cambiare nome e cambiare ogni e qualsiasi riferimento ideologico, culturale e politico che potesse anche lontanamente richiamare il passato filo-sovietico. Di più, era necessario cambiare anche il riferimento elettorale: il lavoro salariato-dipendente, i poveri e in genere le classi subalterne dovevano essere negate, disciolte nella cittadinanza, nella società civile, così da permettersi quegli attacchi al proletariato che la gestione dello stato borghese oggi, nel pieno della crisi del ciclo di accumulazione, comporta.
Ha giocato a favore di questa operazione di trasformismo formale il crollo stesso dell’impero sovietico. Il meccanismo della trasformazione è semplice ed ha interessato tanto il PCI quanto un enorme numero di intellettuali, politici ed ex “avanguardie”. Il “comunismo” è finito e dunque sono fallite, o non sono più valide, le sue premesse teoriche e politiche: la divisione della società in classi contrapposte, la lotta di classe, la prospettiva di superamento del capitalismo (non importa se per via rivoluzionaria o meno) e tutte le collegate teorie nonché analisi.
L’operazione è logica: se “quello” era il comunismo e ha fatto la fine che ha fatto, tutto ciò che vi è in qualche modo connesso va rifiutato o quantomeno profondamente rivisto. Peccato che la premessa stessa sia falsa. Quello non era il comunismo, ma la sua negazione; non era stato operaio (ammesso che si possa parlare di stato operaio) ma stato capitalista affermatosi sul cadavere della neonata dittatura proletaria del 1917-primi anni Venti. Ma questa è un’altra questione alla quale abbiamo dedicato quintali di libri e articoli (1) e sulla quale la nostra corrente è andata caratterizzandosi fin dalla metà degli anni Venti.
Ma quella premessa era stata anche la caratteristica essenziale del PCI. Ecco perché la sua infausta fine poteva così aiutare l’apparato a portare a compimento il percorso avviato molti decenni prima verso la stanza dei bottoni dello stato capitalistico-borghese. Non sarebbe stato facile, per un partito che ancora si riferiva alla medesima ideologia di fondo che esprimeva lo stato sovietico, entrare indisturbato nell’area di governo di uno stato appartenente alla NATO, se l’impero sovietico non fosse crollato consentendo così al PCI di scrollarsi facilmente di dosso quella stessa ideologia e gli orpelli connessi, nome compreso.
Togliatti (2) parlava del suo come del ”partito delle classi lavoratrici” (3), includendo in queste anche settori di piccola borghesia “produttiva”. Dopo di lui, e nella sua scia, sempre più spesso si parlerà di “ceti medi produttivi”, accanto al tradizionale richiamo alla “classe lavoratrice”, in vista di una “alleanza” stretta con il capitalismo “sano”, cioè con quello proiettato prevalentemente verso la produzione e non al parassitismo finanziario: come se - nell'epoca del capitalismo imperialista - si potessero separare nettamente le due cose. Con gli anni '90, gli argini si rompono, e si assegna al nuovo partito un compito tutto politico di rappresentanza della sinistra riformista che ha per referente sociale la società civile, gli uomini e le donne di “buona volontà”...
La differenza è certamente grossa, ma corrisponde esattamente alla differenza di situazione: il Togliatti del secondo dopoguerra viveva nel periodo in cui il PCI, braccio politico dell’Urss, doveva svolgere il ruolo di socialdemocratico radicale, con riferimento forte a una classe operaia presente e combattiva, in una fase ancora di ascesa del ciclo produttivo, dunque di spazi ancora aperti alla contrattazione e alle “conquiste”.
Il PDS-DS-PD opera invece nel pieno della crisi di ciclo, in cui gli spazi alle conquiste operaie, di qualsiasi genere e comunque le si consideri, sono chiusi e in cui il radicalismo socialdemocratico non ha alcuno spazio politico, cioè nessuna possibilità di essere tradotto concretamente in pratica.
Se le due anime della socialdemocrazia - quella di rappresentanza istituzionale (nelle istituzioni, cioè, come momento di mediazione democratico-borghese) degli immediati interessi operai e quella di amministratrice delle cose capitaliste - potevano convivere nel PCI di Togliatti, alla sua epoca, nel periodo della crisi di ciclo la convivenza non regge: l’anima socialdemocratica, anzi, oramai liberaldemocratica, entra decisa nel governo (non importa se di una politica direttamente antioperaia, anzi, proprio per questo) e l’anima “di lotta”, un tempo presente nel partito originario, si separa o viene espulsa passando all'opposizione. E’ questo un fenomeno peculiare alla socialdemocrazia, espressamente connesso alle origini della socialdemocrazia stessa.
Oggi, la socialdemocrazia radicale è sbriciolata in una miriade di organizzazioni-organismi, dentro e fuori le istituzioni, ma tutti, quasi senza eccezioni, sono discendenti in linea diretta dell'involuzione terzinternazionalistica, di cui la strategia del Fronte Unico – oggetto dell'analisi di Mauro - fu la prima pesante avvisaglia. Quello che allora, 1921, era considerata una manovra per affrontare ciò che sembrava uno stallo dell'ondata rivoluzionaria, si rivelerà, purtroppo, il segnale del riflusso di tale ondata, dunque i primi passi di quel processo controrivoluzionario che, per comodità, chiamiamo stalinismo. Anche quelle aree politiche che se, soggettivamente, vogliono collocarsi su di un piano classista-rivoluzionario, in realtà sono, loro malgrado, portatrici di quelle distorsioni teoriche di matrice staliniana (ma anche socialdemocratica) che dagli anni '20 hanno intossicato il movimento operaio, fino a espellere dal suo corpo impostazioni, metodo e prassi comuniste. Ciò che nel mondo dell'«antagonismo» (4) si muove è un miscuglio di “menscevismo radicale”, riformismo tradizionale rivisitato alla luce del “menscevismo” operaista degli anni '60 del secolo scorso, terzinternazionalismo degenerato che niente ha a che vedere con una prospettiva coerentemente anticapitalista. Anzi, è un ostacolo a quanti vorrebbero sinceramente fare propria tale prospettiva politica.
Della sinistra istituzionale, invece, che raccoglie i rottami della Rifondazione Comunista dei “tempi migliori” (in termini di consenso elettorale), c'è poco da dire, se non che ha eliminato dal proprio corpus teorico ogni accenno, anche il più pallido, al superamento del sistema borghese, quello del lavoro salariato, della merce, del denaro come regolatori (o affossatori) della vita non solo degli esseri umani, ma della vita in sé sull'unico pianeta a nostra disposizione. Il caso di Syriza è emblematico, in tal senso.
Dunque, per chiudere, socialdemocratico era il Pci di Togliatti che lo negava, e socialdemocratico è stato il PDS-DS fino all'attuale PD, che, come s'è detto, anche formalmente fa fatica a riconoscere, ricordare il legame con la tradizione socialdemocratica del movimento operaio.
Quel che allora importa riesaminare non è tanto il passaggio PCI-PDS-DS-PD, per il quale passaggio bastano qui le poche righe sopra tracciate, bensì il processo complessivo che ha portato un partito dall’essere espressione di classe operaia al rappresentare un’ala della borghesia.
A questa ricostruzione è dedicato il lavoro che qui ripubblichiamo e che apparve “a puntate” su più numeri di Battaglia comunista a cavallo fra il 1982 e il 1983.
Rispetto al testo originale abbiamo qui operato solo quelle limature rese necessarie dalla trasformazione di un lavoro “a puntate” in libro unitario.
Alla ricostruzione del percorso che porta alla degenerazione del Partito Comunista d'Italia, facciamo seguire tre articoli che affrontano in vario modo alcuni nodi centrali della militanza comunista. Pur redatti in epoche diverse, non hanno perso nulla, nella sostanza, della loro attualità
marzo 2015
(1) Fra i libri: La controrivoluzione staliniana. I nodi irrisolti dello stalinismo alla base della perestrojka. Edizioni Prometeo, 1989.
(2) Per i lettori più giovani, Palmiro Togliatti fu segretario del PCI dalla fine degli anni '20 al 1964, anno della sua morte; fu il più fedele interprete della Terza Internazionale degenerata, della controrivoluzione staliniana dentro il proletariato italiano, che piegò agli interessi imperialistici dell'URSS e della borghesia italiana contemporaneamente.
(3) Cfr. Per una costituzione democratica e progressista in P. Togliatti, La via italiana al socialismo Editori Riuniti 1964, pag 72
(4) Incolore e un po' insulsa espressione giornalistica, che usiamo per l'uso ormai generalizzato che se ne fa.
Battaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #04
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