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Home ›Uso capitalistico della tecnologia e disoccupazione
Le macchine liberano l'uomo nel vero socialismo, ma sono strumenti di sfruttamento nel capitalismo.
Ecco come Marx descriveva già questo fenomeno:
Le macchine, considerate in sé, abbreviano il tempo di lavoro mentre, adoperate capitalisticamente, prolungano la giornata lavorativa: poiché le macchine in sé alleviano il lavoro e adoperate capitalisticamente ne aumentano l'intensità; poiché in sé sono una vittoria dell'uomo sulla forza della natura e adoperate capitalisticamente soggiogano l'uomo mediante la forza della natura; poiché in sé aumentano la ricchezza del produttore e usate capitalisticamente lo impoveriscono.
Nel capitalismo, infatti, l'espulsione di manodopera “eccedente” diventa una necessità per il capitalista e al tempo stesso uno strumento di ricatto e di maggiore sfruttamento della manodopera residua impiegata: ossia una condanna e un incubo per il lavoratore.
L’introduzione di nuove tecnologie produttive è per il capitalista una necessità e caratterizza dunque da sempre la competizione mondiale tra capitalisti. Essa infatti gli consente di abbattere i suoi costi di produzione incrementando la produttività del lavoro: il lavoratore, grazie alle macchine, produce infatti – allo stesso salario – molte più merci nello stesso lasso di tempo. Così il costo unitario delle merci scende (e dunque il loro prezzo), rendendole più competitive sul mercato-giungla capitalistico: ciò consente al capitalista di battere il proprio concorrente sul mercato della vendita. Ciò permette inoltre al capitalista di diminuire il numero di lavoratori a lui necessari (e dunque il monte-salari complessivo), i quali verranno progressivamente espulsi dai cicli produttivi e ridotti alla miseria. Ecco, in breve sintesi, spiegata l’attuale spasmodica corsa all’ulteriore incremento della produttività del lavoro per la maggiore competitività delle aziende, indicata come unica soluzione all’attuale crisi, e che leggi, accordi sindacali sulla rappresentanza, riforme del mercato del lavoro mirano a consolidare. Un’arma a doppio taglio, ma di questo parleremo nelle prossime puntate.
1. Chi paga il costo della produttività e del progresso tecnologico asserviti alle logiche del capitale? Esercito di riserva e concorrenza fra lavoratori.
Con un paradosso solo apparente, nel capitalismo l'applicazione di macchinari sempre più produttivi e sofisticati ai processi produttivi, la loro introduzione sempre più diffusa e capillare nelle imprese, espellono continuamente dal lavoro manodopera; e ciò avviene ad una velocità superiore alla velocità di assorbimento di questa manodopera espulsa da parte delle nuove fabbriche che dovessero o potessero sorgere in un paese. Lo stesso avviene, oltre che nelle fabbriche, negli uffici e nel settore dei servizi in genere nei quali l’utilizzo dell’informatica ha notevolmente ridotto il personale necessario a svolgere una moltitudine di mansioni e di molto semplificato le competenze necessarie a svolgerle, grazie al supporto del mezzo elettronico, con la conseguente più facile “interscambiabilità” dei lavoratori.
Questa manodopera eccedente forma un vero e proprio “esercito industriale di riserva” ad uso e consumo del capitalista, ossia di chi detiene i mezzi di produzione della società. Con la cosiddetta “globalizzazione” dell’economia del capitale, questo esercito di riserva si è enormemente ingigantito, diventando mondiale anch’esso, e cioè collocato anche al di fuori dell’ambito meramente nazionale (le delocalizzazioni aziendali lo dimostrano) a prezzi (salari) fortemente variabili.
«Se dunque gli affari del capitalista sono cattivi (ossia se il ciclo economico capitalista è in fase recessiva o di crisi) questi ex lavoratori possono crepare, mendicare, rovistare nei cassonetti, rubare o andare in galera; se i suoi affari sono buoni (ossia se il ciclo economico è in fase di espansione), questi lavoratori sono disponibili per un'espansione ulteriore della produzione. E fino a che l'ultimo degli ultimi, uomo, donna o bambino di questo “esercito di riserva” non ha trovato lavoro – cosa che succede solo nei periodi di frenetica super-produzione – fino ad allora la concorrenza che tali lavoratori espulsi di fatto si fanno (l'un l'altro e gli uni rispetto ai lavoratori in quel momento occupati) manterrà bassi i salari, e manterrà sotto ricatto gli occupati per timore di poter perdere il loro lavoro, ormai ridotto a privilegio di pochi.
Tutto ciò, per la sua sola esistenza di fatto, rafforzerà il potere dei capitalisti nella loro lotta contro i lavoratori.
Ciò nonostante, questo è considerato “giusto” secondo l'economia politica capitalista e i suoi sostenitori e teorici.» (Engels)
2. Uguaglianza "di diritto", disuguaglianza "di fatto". Tempo di lavoro e tempo di vita.
Nella sua corsa e competizione con il capitale che lo domina, il lavoratore dunque non solo è svantaggiato, ma deve anche trascinare con sé una palla di cannone legata al piede. Ecco la disuguaglianza di fatto che nella realtà rende assolutamente fittizia la tanto sbandierata uguaglianza di diritto.
Egli non solo possiede "esclusivamente" la propria forza lavoro, che deve riuscire, se ci riesce, a vendere. Ma: mentre il capitalista, se non si mette d'accordo con il lavoratore, può permettersi il lusso di aspettare e vivere del suo capitale, magari sfruttando altrove lavoratori più ricattabili e deboli, il lavoratore non lo può fare, egli per vivere non ha altro che il suo salario, e deve pertanto accettare il lavoro quando, dove e alle condizioni che riesce a trovare. Quest'ultimo dunque è terribilmente svantaggiato dalla fame, dalla ricattabilità, dalla concorrenza fra lavoratori di cui sopra.
Ciò nonostante, secondo gli economisti della classe capitalista e i suoi sostenitori e teorici, questa è la “quintessenza della giustizia”.
Tutta l'irrazionalità di questo meccanismo, ossia di quello che è definito il "libero e giusto" lavoro salariato – spacciatoci come l'unico meccanismo possibile e praticabile (e niente affatto – aggiungiamo noi – un accidenti o il risultato di particolari distorsioni del sistema o di personali "cattiverie") – si manifesta nell’apparente paradosso di un lavoro che, anziché diventare più leggero, più breve, meno faticoso ed asfissiante grazie al supporto delle tecnologie più avanzate, e per ciò stesso riducibile a poche ore al giorno per ciascuno a fronte di una suddivisione programmata fra tutti coloro che sono abili al lavoro (esclusi dunque solo i bambini, i malati, gli handicappati, le donne in gravidanza, gli anziani), diventa più opprimente, più faticoso, più pesante, più precario, "privilegio" di sempre più pochi, e – quando non si allunga in ore lavorative – comporta una intensificazione disumana dei ritmi lavorativi. Il tutto in nome della sacra "produttività".
Insomma: il progresso tecnologico asservito alle esigenze del capitale e del profitto diventa per il lavoratore un incubo, si trasforma in precarietà, disoccupazione, bassi salari, ipersfruttamento, incertezza o assoluta mancanza di prospettive di migliore esistenza. Anziché garantire – come potrebbe e dovrebbe – un tempo di lavoro estremamente inferiore e una fatica di lavoro enormemente ridotta, esso espelle milioni di persone dal mercato del lavoro e getta nella miseria un numero progressivamente crescente di persone (milioni sull'intero pianeta!).
Solo nei 17 paesi dell'area euro vi sono attualmente, secondo le statistiche “ufficiali” 20 milioni di disoccupati; negli Stati Uniti si è raggiunta la cifra di 11 milioni (sempre ufficialmente, di fatto sono di più), sulla superficie del globo si parla di centinaia milioni di senza lavoro. Tutte queste cifre sono errate per difetto e per non parlare di lavoratori precari, part-time, sotto-pagati, pagati a nero o – come nella “virtuosa” Germania – a… un euro l’ora.
Anzichè liberare per ciascuno tempo di vita a discapito del tempo di lavoro, rende per alcuni un inferno il tempo di lavoro, e per altri un ozio forzato l'intero tempo di vita.
Escludendo che ciò avvenga per particolari inclinazioni umane alla cattiveria, o al peccato, o alla avidità (inclinazioni che lasciamo volentieri teorizzare a preti e sciocchi moralisti), cerchiamo di capire perché ciò avviene. Ossia perché, nel capitalismo, il lavoro non è distribuibile a tutti e non può affatto essere – come solennemente dichiarato – un diritto per tutti.
Per comprenderlo occorre capire da dove proviene il salario del lavoratore (e dunque il profitto del capitalista) e se il suo tempo di lavoro viene interamente o meno remunerato.
PFContinua. Nel prossimo numero:
- Da dove proviene il salario e da dove il profitto?
- Perché il “lavoro”, nel capitalismo, non può essere un “diritto” per tutti.
Battaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #03
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