Aspettando il ballottaggio

Sulle elezioni amministrative c’è ben poco da dire se non che anche il disperato carrozzone della scheda segue il funerale dell’economia. Pessima la seconda, che continua a divorare posti di lavoro, salari e pensioni, risibile il primo, che sopravvive come rituale cui non crede più nessuno all’infuori di chi ha interessi da difendere od obiettivi da poter raggiungere o le ultime illusioni da coltivare. L’elettorato va continuamente restringendosi, i partiti tradizionali salgono e scendono nelle classifiche di gradimento secondo le suggestioni del momento, televisive piuttosto che della “Rete”.

L’unica “novità” in questa stanca società borghese che a gennaio si era prepotentemente presentata ad un esausto elettorato, il Movimento 5 Stelle, ha clamorosamente fallito, dimezzando i propri consensi, non raggiungendo in nessuna città l’agognato ballottaggio. Era largamente nelle previsioni che i “grillini” imboccassero questa parabola. Avevano raccolto il malumore, canalizzato il disgusto nei confronti della politica e dei partiti, hanno raccolto foraggio per il loro fienile, poi lo hanno usato per spostarlo da un angolo all’altro dell’aia senza dare da mangiare nemmeno ai polli. Fuor di metafora, il loro fallimento di forza borghese radical riformista ha due nodi impossibili da sciogliere.

Il primo riguarda la mancanza di un programma politico, economico e sociale che sia compatibile con la crisi dell’intero sistema. O si sta all’interno delle compatibilità del capitalismo in crisi, e allora ci si comporta come il sindaco di Parma, che ha innescato un innalzamento delle tasse che non ha eguali nel panorama italiano, rinnegando tutto quanto promesso in campagna elettorale (inceneritore compreso), oppure si blatera di riforme senza avere i mezzi e le concrete opportunità di realizzarle.

Il secondo, che ne è la diretta conseguenza, è l’immobilismo, che ha reso il Movimento fermo, ibernato all’interno delle proprie impotenze, deludendo molti di quelli che, ingenuamente, pensavano che il “grillo parlante” fosse in grado di mettere fine alla crisi economica e alle sue devastanti conseguenze.

Una “non” novità è data della cifre dell’astensionismo. Non è una novità perché ormai da decenni l’elettorato va sempre di meno alle urne. E’ in parte novità perché la percentuale dei non votanti è salita a livelli di guardia. A Roma c’è stata una diserzione del 20% superiore a quella delle precedenti amministrative. Ha votato solo il 52,8% rispetto al 78 circa della tornata precedente.

Noi che abbiamo sempre sostenuto, e continuiamo a sostenere il non voto, dovremmo essere contenti. In effetti, vedere che molti elettori non s’identificano più nei partiti tradizionali, che esprimono il loro malessere sociale e politico disertando le urne è già una consolazione, anche se magra. Ma tant’è. L’astensione non è assolutamente sufficiente. Se a disertare le urne sono stati, tra gli altri, proletari, disoccupati, cassa integrati e giovani senza lavoro, occorre costruire per loro una forza politica che faccia dell’astensionismo il primo gradino di un percorso politico che vada oltre la compatibilità del sistema. Che si ponga fuori e contro le strategie d’uscita dalla crisi perché, qualunque esse siano, saranno sempre contro gli interessi del mondo del lavoro, sia in termini di tasse, d’aumento dei costi dei servizi, di disoccupazione e di maggiore sfruttamento. Se sul “mercato politico” non va maturando la crescita di una simile avanguardia, l’astensionismo, sia pur ottimo sintomo di disaffezione verso l’impotenza di questa società a risolvere i problemi, rimarrebbe un atteggiamento sterile, un abbozzo di protesta, niente di più. Non solo, in mancanza del progetto di una vera alternativa ai guasti del capitalismo in crisi, troveremo sempre un Grillo di turno, un populismo di destra o di “sinistra”, una reazione camuffata o aperta, in grado di riportare rabbia e disaffezione nei tradizionali binari della pace sociale, dell’eterna conservazione del sistema.

FD
Martedì, May 28, 2013