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Home ›Le dinamiche della crisi strangolano il proletariato
Fra le idee diffuse dagli economisti borghesi e dai mass-media, fa spicco quella che sulle fondamenta di “una sana economia di mercato” si aprirebbe la strada maestra di una alleanza fra capitale e lavoro (il cui antico conflitto non sarebbe più centrale, anzi inesistente!) affinché la produzione batta la finanza.
E’ opinione diffusa che il termine “classe” sia superato e non più valido: nella società (borghese) oggi vi sarebbe solo la presenza di nuovi ceti, ma non più di classi economicamente e socialmente contrapposte: ancora qua e la gruppi di operai senza però una composizione quale classe in sé che fronteggi i capitalisti. Tutti sono atomizzati come cittadini e con difficoltà che risulterebbero essere solo soggettive, individual: ciascuno con le sue esigenze economiche e sociali, coi suoi personali problemi: niente di più. Anche un certo Heidegger (filosofo ammiratore del nazismo) riteneva perciò inevitabile uno “spaesamento” di fronte a vecchi mondi che se ne vanno, e in cui si possono infilare anche le “problematiche” della crisi globale con relativa perdita del proprio Io…
Su queste astratte divagazioni si arriva a classificare la crisi del capitale come se fosse uno “stallo di sovrapproduzione” dovuto alle errate politiche neoliberiste avviate dalla Thatcher e da Reagan negli anni Ottanta. Tutta colpa di una ingiusta distribuzione del reddito a danno delle “classi medio basse”…
È un fatto certo che esternalizzazione, delocalizzazione, outsourcing, siano diventate pratiche comuni dei capitalisti per abbattere i costi del lavoro e competere sul mercato globale. La flessibilità risponde alle necessità capitalistiche di innovazioni tecnologiche e riorganizzazioni dei processi di una produzione scorporata in segmenti separati e successivamente assemblati. Le dislocazioni territoriali, anche in paesi diversi, hanno concesso momentanei recuperi dei saggi di profitto con nuove strutturazioni della divisione internazionale del lavoro; hanno accentuato la concorrenza salariale fra operai in aree territoriali con differenti “regole” economiche e sociali imposte dalle borghesie nazionali.
Quanto alle dilaganti riduzioni salariali, avrebbero dovuto dare ai profitti un maggior respiro ma molti eccelsi economisti sostengono che l’attuale marasma economico e sociale sia dovuto a insufficienti profitti da utilizzare per innovazioni tecnologiche e investimenti produttivi. Il denaro, attratto da più facili guadagni, sarebbe finito nei mercati finanziari. A questo punto – siamo al “pensiero” più avanzato! – sottraendo capitali agli investimenti industriali e distribuendo “ingiustamente” la ricchezza prodotta, ecco che produzione, domanda di merci e crescita dei consumi sarebbero entrate in crisi.
Luci spente su qualsiasi tentativo per una approfondita analisi che prenda in considerazione la legge tendenziale della caduta del saggio dei profitti (ma che bestia sarebbe mai questa?) e che evidenzi le conseguenze di una estesa disoccupazione dovuta al generalizzarsi di nuovi metodi di lavoro e di produzione, con forti esuberi di forza-lavoro.
A fronte di un potenziale produttivo tale da inondare il mondo sia del “necessario” che del “superfluo”, liberando l’umanità dalla condanna (naturale ed eterna?) del lavoro salariato, sempre più evidente si fanno le contraddizione del capitalismo. Tutto ciò che viene prodotto sotto il dominio del capitale, assumendo la forma di merce, ha un valore di scambio; la sua realizzazione dipende dalla solvibilità di chi, sul mercato, cerca di soddisfare i suoi bisogni. Quando la massa di merci prodotte (e non sempre utili…) continuava a crescere mentre la maggioranza dei suoi potenziali consumatori vedeva diminuire le sue capacità di acquisto, venne “offerta” loro la opportunità di indebitarsi, di avere denaro a credito. Prestiti per tutti, anche a chi già era in difficoltà e al momento dei rimborsi è stato messo in ginocchio a causa del suo minimo “reddito”.
Ai custodi del capitale non è rimasto altro che prendersela con una “politica” colpevole di non riuscire a dettare regole, con strumenti finanziari mal gestiti, con profitti (dal 1980 al 2004 il 7% delle risorse si è spostato dal salario al profitto!) che non sono stati reinvestiti nella produzione bensì nella speculazione, ecc. Inutile dire che chi sostiene una ben diversa analisi critica – come nel nostro caso -- non trova alcun spazio nelle informazioni che circolano ufficiosamente e che con un intrigato giro di bla bla bla vorrebbe far credere che tutti i guai hanno come unica causa la crisi di domanda e un eccesso di speculazione nel settore finanziario. Sovrapproduzione di merci (inutili e dannose)? Già, ma il capitalismo vi è costretto per incrementare i suoi profitti e garantirsi masse di plusvalore per soddisfare interessi e rendite parassitarie. Poi, per realizzare quel plusvalore, le merci vanno vendute e allora si scopre che esiste mezza umanità che non ha “capacità di acquisto”; non solo, ma con milioni di proletari (quelli che non esisterebbero più!) che – resi superflue nel “mercato del lavoro” dagli enormi aumenti della produttività industriale – sono emarginati e gettati nella disperazione più drammatica. Un pozzo di miseria e degradazione che si annuncia senza fondo; non soltanto materialmente ma, purtroppo, anche ideologicamente, là dove il dominante pensiero borghese ancora sembra ritardare una risposta veramente di classe, e gli agita – assieme al manganello – una sola promessa: lacrime e sangue per il dio capitale.
DCBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #11-12
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