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Home ›Primo Maggio: si celebra l'attacco ai lavoratori
Con questa ricorrenza, oggi più che in altre occasioni, non si celebra la festa del lavoro, ma l'attacco al mondo del lavoro salariato - L'approfondirsi della crisi economica mondiale richiede una vera lotta di classe!
La crisi mondiale che già negli anni passati ha prodotto enormi devastazioni economiche nel settore finanziario e dell'economia reale, non ha finito di estendere le sue nefaste conseguenze sul proletariato internazionale. L'economia non riprende, la disoccupazione aumenta e con la disoccupazione la precarietà dei posti di lavoro. I giovani sono i più colpiti, uno su tre sta a casa mentre gli altri si disputano lavori precari a salari di fame. Gli investimenti non decollano, la crisi dei profitti e del saggio del profitto continuano a stimolare la speculazione sui mercati delle materie prime, petrolio in testa, su quello dei cereali, del grano con l'inevitabile conseguenza di un aumento dei prezzi dei beni alimentari che, nel caso dei paesi arretrati, sono stati alla base dell'ulteriore impoverimento di masse crescenti di lavoratori, delle loro famiglie e delle recenti rivolte del pane.
Lo Stato sociale continua ad essere progressivamente smantellato rendendo più difficile l'accesso alla scuola, alla sanità, all'età pensionabile, ai sussidi per i disoccupati e per i poveri che vanno ad ingrossare le fila dei diseredati che sopravvivono in qualche modo al di sotto della soglia di povertà.
Nei paesi ricchi il capitalismo non solo non è più in grado di garantire ai lavoratori quanto garantiva prima, ma è costretto a togliere in termini di potere d'acquisto dei salari, di posti di lavoro di prevenzione e assistenza sociali.
Nei paesi meno sviluppati l'ondata di crisi sta generando nella medesima area geografica, nel medesimo arco di tempo e con la stessa intensità un'epocale ribellione contro la fame e la miseria. Tra gli effetti più tragici c'è quello dell'esodo di centinaia di migliaia di profughi che disperatamente cercano di sfuggire dalla mancanza di lavoro, dalla disoccupazione arrivata a livelli insopportabili, dalla miseria dilagante e dalle guerre civili che, in situazioni come queste, inevitabilmente, si accendono come fuochi allo scoccare delle prima scintilla. È una migrazione che spinge proletari dalle aree capitalistiche più povere a quelle più ricche anche se in preda agli effetti della stessa crisi e, quindi, in via di impoverimento .Fuggono con un fardello di tante false illusioni e con l'unica certezza di essere respinti o di subire il più degradante degli sfruttamenti nei campi di raccolta dei pomodori e patate, senza un alloggio, senza assistenza sociale, vivendo come degli animali in cattività. Questo se va bene, altrimenti trovano la loro tomba nel mare aperto prima della fine del loro viaggio. Questa crisi sta caratterizzando i primi anni del millennio anche attraverso una lunga teoria di guerre permanenti, di guerre civili latenti e combattute, di scontri inter borghesi e di confronti imperialistici a tutto campo. Prima in Afghanistan e Iraq, poi nel Maghreb e Medio oriente, Penisola arabica compresa, poi in Sudan, Ciad, Mali e Costa d'avorio. Questo è il capitalismo, macchina da profitto, strumento di sfruttamento, produttore di miseria e di guerre pur di continuare ad essere la forma economica dominante a vantaggio delle classi dominanti.
Mai come in questa fase storica la parola d'ordine “proletari di tutti i paesi unitivi” è vitale e necessaria. I proletari del Maghreb devono lottare contro le rispettive borghesie corrotte e dittatoriali che li hanno ridotti alla fame. I proletari europei contro le loro che stanno smantellando lo Stato sociale, che aumentano lo sfruttamento e che creano disoccupazione e la miseria dei “nuovi poveri”. Ma la lotta di classe non si deve fermare al primo stadio. Non può limitarsi a mandare a casa il dittatore di turno o il governo di casa senza mettere in discussione i rapporti di produzione capitalistici che sono alla base sia delle crisi economiche che dei governi che le stanno amministrando. Occorre che tanta rabbia a disponibilità a lottare trovi la reciproca solidarietà tra i vari proletariati dell'area e tra le due sponde del Mediterraneo. Una volta cacciati i dittatori, fatti i rimpasti di governo, la crisi rimane, le tensioni imperialistiche pure, le guerre proseguono come prima, perché come prima sono rimaste intatte e operanti le cause che pongono in essere tutto questo. Così come devono alzare la testa i proletari di Washington e di Pechino contro la falsa democrazia e contro il falsissimo comunismo. Di fronte ad una crisi che non sembra finire mai, contro la crescente miseria nel mondo, contro il proliferare dei massacri bellici, oggi l'imperativo è quello di dare un senso internazionale anche alle lotte, con una dimensione politica comune che abbia nell'anticapitalismo la sua matrice. Ma se tutto ciò è assolutamente necessario per una vera ripresa della lotta di classe, non è però sufficiente se manca il progetto dell'alternativa sociale, di un programma che abbia una tattica e una strategia coerenti, se manca cioè il partito di classe, il partito rivoluzionario. Altrimenti ogni conato di rivolta, ogni lotta sociale, rivendicativa o politica che sia, sarebbe riassorbita all'interno di quel sistema che l'ha prodotta senza lasciare la benché minima traccia in proiezione futura. Sarebbe come soggiacere al solito detto: cambiare tutto, o quasi, perché tutto rimanga come prima. Ecco perché questo Primo Maggio non deve essere l'ennesima, inutile festa del lavoro, che oltretutto manca, e che quando c'è è violentemente umiliato, ma lo stimolo per l'inizio della ripresa della lotta di classe per l'abolizione del lavoro salariato.
Tendenza Comunista InternazionalistaBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #05
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