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Home ›A che punto è la notte - Occupazione, disoccupazione e crisi
Dopo gli annunci dei politicanti istrioni sull'avvio della ripresa, è lecito avanzare qualche dubbio sulla consistenza, se non sull'esistenza, della ripresa economica? A guardare i dati ufficiali, il massimo che si possa dire è che sì, qualcosa si è mosso, ma quel qualcosa ricorda certi viaggi in ferrovia: avanti piano, pianissimo, con frequenti fermate nel nulla per far passare i costosissimi treni superveloci. Per restare in questa metafora, l'unico settore che ha ripreso a correre a rotta di collo è quello della finanza, foraggiato a piene mani dagli stati, mentre il resto dell'economia assomiglia ai tribolati treni per pendolari; tale è il quardo nei paesi “avanzati”, ma non solo. Il mondo del lavoro dipendente e le figure a esso assimilabili continuano a subire gli effetti negativi di una crisi che, se non si risolve in fretta, potrebbe esaurire le riserve - per quanto, almeno in Italia, misere e sottratte persino ad altri capitoli di spesa sociale - utilizzate per arginare è prevenire il risorgere della lotta di classe proletaria, quali, per esempio, la cassa integrazione.
Per rimanere dalle nostre parti, il calo di un qualcosa virgola qualcos'altro degli indici di disoccupazione può far felice solo Sacconi e i suoi maggiordomi sindacali, visto che anche quando i disoccupati (ufficiali) erano in crescita, trovavano immancabilmente un appiglio per sprizzare ottimismo, vantando particolari “performances” italiche. Insomma, per quei personaggi non espressamente qualificabili, il bicchiere è sempre pieno... Infatti, a febbraio, la disoccupazione giovanile (15-24 anni) è scesa - così si dice - al 28,1% contro il 29,8% di dicembre, mentre quella complessiva passa dall'8,6% all'8,4%. Tutto bene, no? Mah, a parte che è ripresa a crescere la richiesta di cassa integrazione, a parte che, come abbiamo detto più volte, se i cassintegrati fossero considerati correttamente disoccupati, la percentuale di costoro salirebbe a due cifre (11% circa), rimane il fatto che, sia pure di uno 0,1%, cresce anche il tasso di inattività della popolazione attiva (38%), tra la quale il numero degli “scoraggiati” - quelli che hanno smesso di cercare un lavoro - è, secondo certe stime, non inferiore al milione e mezzo di persone. Senza considerare, qui, la precarietà, che ormai è diventata la forma tipica e non atipica dei contratti di lavoro per i giovani.
Ma le donne sono meno colpite dagli uomini e, anzi, l'occupazione femminile è in crescita! Vero, però se le donne sono state, in proporzione, toccate meno degli uomini dalla perdita del posto di lavoro, anzi, se addirittura c'è stato un aumento dell'occupazione femminile (senza esagerare, sia chiaro) tutto questo è dovuto non al buon cuore dei padroni convertitisi al femminismo, ma al fatto che, in generale, le donne sono pagate meno della manodopera maschile (il 20% e più) e a loro toccano in misura maggiore lavori precari, poco tutelati, se così si può dire: in breve, quelli che la sociologia borghese chiama “bad jobs” (lavori cattivi). Per non parlare, poi, degli stipendi, sia del “privato” che del “pubblico”, in calo da anni e, com'è noto, agli ultimi gradini della graduatori dei paesi OCSE.
D'altronde, specificità italiane a parte, questi dati si inseriscono in maniera coerente nelle tendenze mondiali della crisi e del mercato del lavoro, com'è ovvio che sia, visto che il modo di produzione capitalistico impera su tutto il pianeta. Per avere una riprova, basta scorrere i rapporti dell'ILO (International Labour Organization, una costola dell'ONU), i quali, benché elaborati sulla base di una visione ultrariformistica, non possono nascondere le condizioni drammatiche in cui è costretta a vivere la “classe operaia” mondiale.
La disoccupazione, nel 2010, con 205 milioni di senza lavoro, è rimasta sostanzialmente stabile, rispetto al 2009, ma nei confronti del 2007, cioè prima della crisi, ci sono sempre 27,6 milioni di disoccupati in più; per il 2011, le previsioni parlano di un leggero calo di 1,7 milioni di unità. Anche la disoccupazione giovanile si è debolmente contratta (da 80 a 78 milioni, dal 2009 al 2010), tuttavia, anche in questo caso è superiore a quella del 2007. A rovinare la festa di questi dati, viene rilevato che nel 2009 c'erano 40 milioni di lavoratori poveri in più che nel 2007, cioè 630 milioni di persone che dovevano sopravvivere, assieme alla famiglia, con 1,25 dollari al giorno; ma niente fa supporre che le cose siano cambiate in meglio, come vedremo tra un attimo. Allo stesso tempo,
il 55 per cento dell'aumento della disoccupazione mondiale verificatosi tra il 2007 e il 2010 è dovuto alle economie sviluppate e all'Unione Europea (UE), sebbene questa regione rappresenti soltanto il 15 per cento della forza lavoro mondiale (1).
Giusto per rincarare la dose, l'occupazione industriale, intesa in senso stretto, è complessivamente diminuita - e solo parzialmente attenuata da un modesto avanzamento nei “paesi emergenti” - ma nelle suddette economie “è precipitata di 9,5 milioni fra il 2007 e il 2009”, il che, per inciso, porta a chiedersi se questo “precipizio” possa essere compensato da un aumento della produttività, cioè dello sfruttamento comunque ottenuto, per rilanciare un'accumulazione su scala globale vera e non fittizia, basata cioè sulla speculazione finanziaria, il parassitismo e la predazione.
Il proletariato del “centro” è dunque quello che, dal punto di vista occupazionale, finora ha pagato di più, ma non è che quello delle varie “periferie” ne abbia goduto granché, al di là di un maggior numero di posti di lavoro, considerato che la crescita occupazionale si è in genere accompagnata a una crescita del “lavoro vulnerabile” (eufemismi riformisti: in nero, senza uno straccio di tutela, sia pure formale, e via dicendo) e gli stessi aumenti salariali strappati qui e là (specialmente in Cina: ci torneremo in un'altra occasione) sono stati ottenuti spesso dopo lotte durissime, quasi sempre in grandi fabbriche e, in ogni caso, consentono condizioni di esistenza da sopravvivenza o giù di lì. In generale, i salari sono più o meno diminuiti (o, come dice l'ILO, hanno frenato l'ascesa), perché la crisi del 2007 ha impresso un colpo di acceleratore alla tendenza mondiale di progressivo restringimento della quota salariale sul reddito nazionale, anche in quei paesi presi come punto di riferimento da riformisti e pseudo rivoluzionari nostrani: in Germania come negli USA, in Francia come in Cina. Il dato è ancora più crudo se si tiene conto che
dalla metà degli anni '90 la percentuale di persone con salario basso - definito come inferiore ai due terzi del salario mediano - è aumentata in più di due terzi dei paesi per i quali i dati sono disponibili.
ILO - Italia, Rapporto globale sui salari, 15 dicembre 2010
Insomma, il sospetto, per così dire, che gli incerti segnali di ripresa economica siano dovuti, in gran parte, a quella che per Marx costituiva una delle principali controtendenze alla caduta del saggio medio del profitto, cioè l'abbassamento del salario al di sotto del valore della forza lavoro, è più che legittimo. Tuttavia, se non vengono modificati altri elementi fondamentali della struttura del capitale, è dubbio che quella misura, di per sé, possa tirare fuori il capitalismo mondiale dal pantano in cui si trova. Forse la notte è ancora lunga.
CB(1) Tendenze globali dell'occupazione, ILO-Italia in ilo.org , 24 gennaio 2011
Battaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #05
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