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Ci avevano detto che dopo il crollo dell’Unione sovietica si sarebbe aperta una fase storica di pace e benessere mondiali, come se l’implosione del falso comunismo dell’Unione sovietica fosse sufficiente ad eliminare le crisi economiche e le necessitate propensioni imperialistiche del capitalismo. Al contrario, il capitalismo internazionale si è prodotto in una serie di guerre locali per il controllo delle materie prime energetiche, per la supremazia sui mercati commerciali e finanziari, distribuendo, come al solito, morte e miseria per il proletariato internazionale. Alla guerra dei “tubi” (oleodotti e gasdotti) si è sommata quella delle divise. La speculazione la fa da padrone in tutti i continenti. La produzione reale, già depressa da saggi di profitto sempre più bassi, si delocalizza dove può alla ricerca di aree dove il costo della forza lavoro sia così basso da rendere remunerativi gli investimenti. Nonostante il deflusso di capitali e di imprenditorialità dalle aree del vecchio capitalismo (Europa, Usa e Giappone) - caratterizzate da un’alta composizione organica del capitale e da un relativo alto costo della forza lavoro - verso quelle con una composizione organica del capitale più bassa e con un costo della forza lavoro di decine di volte più basso, (Cina India Brasile, e questo spiega in parte il loro boom economico), le crisi si sono susseguite periodicamente sino a sfociare nella depressione attuale, che non ha ancora finito di produrre i suoi effetti devastanti su tutto e su tutti. Il capitalismo assomiglia sempre più ad un marchingegno impazzito che si avvita su se stesso e che denuncia la sua a-storicità.
Che senso ha mantenere in vita un malato terminale che è in grado solo di esprimere guerre, devastazioni sociali, ambientali, miseria per un numero crescente di popolazioni? I dati statistici che stanno emergendo dal baratro di questa crisi sono che un miliardo di persone vive sotto la soglia di povertà e un altro miliardo è pericolosamente ai bordi di questo pozzo nero. Nei paesi ad alta industrializzazione, a parte le centinaia di milioni di disoccupati, si è creato da tempo il fenomeno dei “nuovi poveri” ovvero di una parte crescente della popolazione che, pur avendo un lavoro, non riesce ad arrivare alla fine del mese.
Un tempo, la civiltà di un paese, pur sempre capitalistico, la si calcolava sull’estensione e sulla funzionalità dello Stato sociale, sulla sicurezza di un posto di lavoro, su di una sanità perlomeno sufficiente, su di un pensionamento sicuro e in tempi sociali decenti. Il capitalismo moderno non è più in grado di garantire tutto questo. Anzi, è costretto a smantellare quello stato sociale che attraverso lotte e sacrifici proletari – rimanenti pur sempre dentro le compatibilità del sistema e in un'ottica riformista, certo - si è andato costruendo in quasi due secoli. Lo fa aggredendo i livelli di vita dei lavoratori in termini di sicurezza del posto di lavoro, di salari reali che progressivamente diminuiscono, di pensioni che si abbassano per ciò che concerne il loro ammontare, “grazie” ai nuovi sistemi di calcolo, e che si allontanano nel tempo sia per quelle di vecchiaia che di anzianità di servizio lavorativo. Lo stesso discorso vale per la scuola, la sanità e la ricerca scientifica che, in quanto settori improduttivi, fatto salvo il business ospedaliero e farmaceutico, sono i primi ad essere contratti e a costare di più per l’intera utenza sociale.
Che senso ha mantenere in vita un sistema sociale che non riesce ad esprimere un livello di occupazione che soddisfi, anche se al minimo, una quota parte sempre più consistente di potenziali lavoratori? Nella società capitalistica contemporanea lo sviluppo delle forze produttive, la capacità cioè di produrre di più a tempi e costi inferiori, invece di creare maggiore ricchezza per tutti, di liberare tempo per attività sociali, si trasforma in maggiore sfruttamento per chi lavora, disoccupazione per chi non riesce più ad entrare nei meccanismi produttivi, significa precarietà e povertà generalizzate. Paradossalmente, succede che il lavoro e la piena occupazione, invece di essere delle risorse sociali da tutelare e valorizzare, diventano un ostacolo allo sviluppo stesso della società al punto di doverne fare a meno, pena l’appesantimento delle leggi che regolano la produzione capitalistica stessa.
Che senso sociale ha che i ricchi diventino sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri? Che la povertà sociale, sempre più largamente diffusa, sia la condizione per l'accumulazione della ricchezza nelle mani di una esigua minoranza, senza che sia possibile, all’interno di questa forma produttiva, organizzare una produzione che consenta un diverso tipo di distribuzione della ricchezza?
Che senso ha la perversa circostanza capitalistica in base alla quale le persone anziane sono costrette a rimanere nei meccanismi produttivi il più a lungo possibile mentre i giovani, le forze sociali più fresche e produttive, ne rimangono fuori, quando sarebbe più logico e socialmente opportuno l’esatto contrario? Che strano contesto sociale è quello che, per un posto di lavoro, molto spesso precario, mette in concorrenza gli anziani con i giovani, i “garantiti” con i precari, i precari con i disoccupati e quest’ultimi con i lavoratori stranieri?
Che senso ha un meccanismo economico in cui l’aumento della produttività sociale del lavoro, tesa all’aumento dello sfruttamento del proletariato, all’aumento della massa dei profitti, produca la sua più grande contraddizione rappresentata dalla caduta tendenziale del saggio medio del profitto, entrando in conflitto con le sue stesse leggi che si basano sulla valorizzazione del capitale?
Nessun senso, se non quello rappresentato da un sistema sociale che vive delle proprie insanabili contraddizioni e che per continuare ad essere la forma economica dominante, è costretto a mettere in essere una serie infinita di “non sensi”, che tali non sono solo all’interno della perversa logica del capitale, dei suoi meccanismi di valorizzazione, che, inevitabilmente, esplodono in crisi devastanti che gettano milioni di lavoratori nel baratro della miseria, dello sfruttamento sempre più selvaggio e delle sempre minori “garanzie” sociali.
L’origine di questi “non sensi” è nel capitalismo stesso, nel rapporto di sfruttamento tra capitale e forza lavoro che ne rappresenta il motore primo, che lo spinge in una spirale di decadenza economica e politica che tutto travolge e distrugge pur di continuare a riprodursi. Ciò che lascia sulla scia delle sue traiettorie economiche e politiche sono gli “effetti collaterali” che necessariamente deflagrano come armi di distruzione di massa e che dimostrano l’a-storicità del capitalismo al pari della necessità del suo superamento, per lasciare spazio ad una organizzazione sociale che sia a dimensione dei bisogni e non della ricerca del maledetto profitto, dove il lavoro cessi di essere l’iniqua condizione della schiavitù salariale per diventare la fonte della ricchezza per tutti. Dove l’armonica distribuzione della stessa ricchezza socialmente prodotta, il soddisfacimento dei bisogni, dettino i meccanismi della produzione e non più il suo perverso contrario.
FDBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
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