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Home ›La logica del profitto uccide più dello tsunami
Una catastrofe naturale accompagnata da gravi responsabilità
Dopo una catastrofe naturale seguono sempre le dichiarazioni dei governi, accompagnate dal coro monocorde dei mezzi di comunicazione, improntate a cordoglio per le vittime, a rammarico per non essere riusciti a prevenire gli eventi, a comprensione e solidarietà nei confronti di chi deve affrontare i sacrifici di una nuova vita completamente sconvolta dai tragici avvenimenti. Così, anche questa volta, e ancora di più di altre volte data la dimensione di ciò che è successo, la recita si è ripetuta. Onda assassina, natura maligna, tragica fatalità, catastrofe imprevedibile, ecco i termini coi quali é stato definito il disastro che ha colpito il sud est asiatico. Noi non possiamo accontentarci di simili superficiali giudizi, liquidatori e colpevolmente fuorvianti rispetto ai problemi che, anche in questa occasione, emergono evidenti e accusatori nei confronti di chi poteva fare e non ha fatto.
I governi dell'area innanzi tutto. La regione è tra le zone a più intensa attività sismica del mondo; lo sanno bene in Giappone dove si sono da tempo attrezzati per affrontare sia i terremoti che i maremoti. L'istituto di osservazione e rilevamento dei terremoti che opera nell'area del Pacifico non ha avuto l'adesione dei governi del sud-est asiatico che ora piangono sugli oltre centomila morti causati dal maremoto. Come tutti gli stati borghesi del mondo, incuranti di investire nell'assistenza e nella protezione sociale, essi, racchiusi nelle ristrettezze dei bilanci dei loro paesi, hanno dato priorità ad altro ma non per ciò che era indispensabile fare di fronte al potenziale pericolo che minacciava le popolazioni costiere locali, che, guarda caso, erano spesso le più povere e diseredate della società. Così nessun sistema di allerta è stato messo a punto, nessun piano di evacuazione rapida è stato approntato, nessuna politica di protezione del territorio è stata attuata. Le popolazioni rivierasche, alle prese spesso con una misera economia basata sulla pesca e sull'agricoltura, sono state abbandonate agli eventi e lasciate prive di qualsiasi difesa nei confronti di un fenomeno che nella regione ha molte probabilità di verificarsi.
Altresì per quel che riguarda la politica del territorio. I governi locali, con la piena complicità di quelli dei paesi avanzati che premevano per avere concessioni per lo sfruttamento turistico delle coste, hanno consentito il disboscamento delle mangrovie su tutto il litorale e della lussureggiante vegetazione tropicale costiera che avrebbe costituito un potente argine naturale alla furia e all'energia delle onde limitando i danni all'immediato entroterra. Cosa c'é oggi al posto delle mangrovie? Spesso una serie interminabile di villaggi turistici che sono stati costruiti facendo piazza pulita dell'ecosistema originario. Alberghi, negozi, strade-shopping per turisti occidentali in cerca di esotismo e tutto ciò che concerne la moderna industria della vacanza. Un turismo completamente accentrato nelle mani dei grandi tour operator mondiali che forniscono viaggi con formule "tutto compreso" che ben poco lascia alle economie locali: qualche posto di lavoro di basso livello nelle strutture alberghiere, qualche botteguccia di souvenir da quattro soldi, qualche attività lavorativa marginale nei servizi al turismo.
Non minori sono le responsabilità degli stati occidentali impegnati da tempo nell'opera di spoliazione dei popoli della periferia del capitalismo per mezzo di tassi di interesse particolarmente gravosi sui capitali prestati e concessi alla condizione che i governi locali si impegnino a imporre nelle aree pesanti politiche di taglio alla spesa sociale. Alcuni dati rendono l'idea dell'intensità del fenomeno; gli undici paesi colpiti dalla catastrofe hanno contratto debiti complessivi, secondo i dati forniti dalla Banca Mondiale, per 350 miliardi di dollari; l'Indonesia da sola è indebitata per 131 miliardi, l'India per 83 e la Thailandia per 58 miliardi. Questi debiti, da soli, assorbono la quasi totalità delle risorse finanziarie che sono ottenute dagli stati in questione con l'esportazione dei prodotti locali, soprattutto agricoli. Si comprende allora da dove emerga la "generosità " di alcuni stati europei, come la Germania, che hanno proposto una moratoria sul debito; in pratica si tratta di una scelta obbligata dato che le conseguenze economiche dello tsunami produrranno nell'immediato l'impossibilità dei paesi interessati a pagare gli stessi interessi sui debiti contratti.
Infine riesce difficile pensare, in un mondo palmo a palmo controllato dai satelliti militari, in un mondo in cui chi detiene le tecnologie adeguate riesce a percepire i fenomeni nel momento stesso in cui avvengono, che un fenomeno relativamente lento qual è quello di uno tsunami non abbia potuto far scattare alcun allarme per le popolazioni esposte al pericolo. In fin dei conti sarebbe bastato indietreggiare solo di circa quattrocento-cinquecento metri dal mare; ma nell'epoca della supercomunicazione nessuno è riuscito a lanciare un allarme per mettere in fuga le popolazioni inermi! E se nelle immediate vicinanze del terremoto l'onda ha travolto tutto in poco tempo, così non è stato nelle zone costiere più lontane, come quelle indiane o dello Sri Lanka, per non parlare di quelle africane, dove lo tsunami si abbattuto dopo aver percorso migliaia di chilometri. Anzi, il P. T. W. C. (Pacific Tsunami Warning center), agenzia governativa americana con sede nelle Hawai, dopo quindici minuti dal terremoto, ha emesso un bollettino che escludeva per la sua area di competenza, e solo per quell'area, qualsiasi pericolo. Questo perché l'oceano Indiano non rientra nella zona di competenza dell'agenzia! Peggio ancora ha fatto l' U. S. Geological Survey's National Earthquake Information Center, il centro statunitense di rilevamento dei terremoti, collegato col centro delle Hawai, che ha emesso dopo altri 15 minuti un secondo bollettino col quale avvertiva della possibilità di uno tsunami, ma esclusivamente vicino all'epicentro del terremoto. L'avviso, inviato alla Casa Bianca e al Dipartimento di stato americano e da questi alle competenti autorità dei governi degli stati interessati, ha convinto questi ultimi che non era il caso di lanciare l'allarme o appelli all'evacuazione delle zone costiere con il rischio di turbare inutilmente il clima di svago e di serenità che solitamente accompagnano le permanenze turistiche. Il business avrebbe potuto risentirne!
Dunque, ora tutti i governi si rammaricano per l'accaduto e si danno un gran daffare per mostrare tutto il loro impegno per una umanitaria solidarietà nei confronti dei superstiti che saranno presto alle prese con ulteriori calamità: la mancanza d'acqua potabile, la mancanza di cibo, le epidemie... In realtà, dietro le apparenze sono emersi i più cinici atteggiamenti. I governi e le imprese che hanno grossi interessi nell'area colpita dal maremoto hanno solo fatto finta di correre generosamente in aiuto delle popolazioni locali. Gli Usa, innanzi tutto; dopo un penoso gioco al rialzo della cifra stanziata per gli aiuti, gioco seguito alle critiche di tirchieria mosse da Jan Egeland, coordinatore per le emergenze delle Nazioni Unite, si sono attestati sulla fantastica cifra di 350 milioni di dollari. Tanto per capire di cosa si tratta è ciò che gli Usa spendono per una sola giornata di occupazione militare dell'Irak!! Poi le grandi corporation internazionali, ben presenti con le loro attività economiche nel sud est asiatico. La Coca Cola ha offerto 10 milioni do dollari, pari a meno dello 0,2 % del suo utile del 2003; la Pfizer ha donato altri 10 milioni di dollari e 25 in medicine, sottraendoli al suo utile del 2004 che è stato di ben 4 miliardi di dollari; la Nike, grande produttrice di scarpe per mezzo di manodopera locale, spesso minorile, ha elargito 1 milione di dollari contro il suo utile operativo di 1,6 miliardi di dollari; la General Electrics, con i suoi 16 miliardi di dollari di utile netto, ha offerto ben 1 milione di dollari!
Noi invece non possiamo che sottolineare un altro aspetto di questo umanitarismo di circostanza: anche in Irak ci sono stai finora oltre centomila morti, per lo più tra la popolazione civile, che sono vittime innocenti di una brutalità che in questo caso è esclusivamente umana, meglio dire borghese. Eppure di questi morti, forse troppo scomodi, nessuno parla... I governi impegnati nell'intervento armato in Irak, così pronti a commuoversi e a versar lacrime per i poveri turisti travolti dallo tsunami, sono totalmente silenti di fronte a questo altro sterminio; ma si sa: le loro bombe sono intelligenti e democratiche, lo tsunami invece è feroce, più di un terrorista islamico.
clBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #1
Gennaio 2005
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