E' l'ora dello staterello palestinese?

La morte di Arafat, evento naturale o provocato, ha riaperto due importanti questioni: la prima, riguardante la lotta di successione all'anziano leader, la seconda, la rilanciata ipotesi di una, geograficamente non ben definita, costruzione dello stato palestinese.

Nel primo caso, quello della successione, i giochi sono aperti a poche soluzioni, mentre le linee di frizione sono tante e note da tempo. È dal 1987, da quando Arafat si è dichiarato disponibile a riconoscere lo stato di Israele stravolgendo di 180° l'impianto strategico sin lì seguito che nascono i primi contrasti all'interno dello schieramento borghese palestinese. Poi gli accordi di Oslo-Washington, con i quali il leader dell'Olp ha negoziato la possibilità di accettare uno stato palestinese sulla base della risoluzione 181 che prevedeva la rinuncia a tutta la Palestina, hanno aggiunto benzina sul fuoco e, per finire, è con il tracciato della Road map, che va a trattare sulle intrusioni dei coloni nelle aree economicamente più rilevanti della Cisgiordania, che l'opposizione è cresciuta sino a mettere in discussione l'autorevolezza dell'anziano leader. Per tutti questi anni il Fronte del no si è battuto per impedire ad Arafat la svendita della questione palestinese, erodendogli consensi e potere persino all'interno della stessa Al Fatah. La sua scomparsa non ha fatto altro che portare allo scoperto quanto da anni andava emergendo all'interno delle frange della piccola, ma avida, borghesia palestinese. Questione nazionalistica a parte, di cui abbiamo ampiamente trattato in altre occasioni, il futuro bottino, a cui molti ambiscono, non è enorme ma sufficiente a stimolare appetiti e interessi. Su tutti un pacchetto finanziario pari a oltre un miliardo di dollari all'anno che più rivoli internazionali convogliano nelle casse dell'Anp. Poi l'idea di trasformare la Striscia di Gaza in una sorta di paradiso fiscale del basso Mediterraneo e di fare del porto di Gaza una zona franca per merci di ogni genere. La Cisgiordania, o quello che resterebbe nelle mani palestinesi dopo le mutilazioni territoriali operate dal governo Sharon, fungerebbe da giardino dell'eden per gli investimenti agricoli da parte di capitali europei. Non ultima, ci sarebbe la lotta per mettere le mani sul tesoro di Arafat (da 3 a 5 miliardi di dollari depositati nelle banche svizzere e mediorientali) a cui nessuno vuole rinunciare.

È lotta dura, senza esclusione di colpi; per il momento combattuta a suon di rivendicazioni di principio, ideologiche e religiose; in futuro i colpi saranno di mortaio e di tritolo se non si dovesse trovare un accordo che soddisfi le parti in causa. Per il momento gli schieramenti sono chiari. Da una parte l'integralismo di Hamas e della Jihad islamica, dall'altra il potere ufficiale rappresentato da al Fatah e da quello che resta dell'Olp. Lo scontro tra Hamas e Al Fatah per la leadership all'interno del mondo palestinese è vecchio, risale alla prima intifada, quella del 1987. Da quel momento in avanti Hamas ha rosicchiato credibilità e rappresentatività ad Al Fatah. Lo ha fatto inizialmente proponendosi ai finanziatori palestinesi come organizzazione nazionalisticamente coerente, non corrotta e più disponibile alla lotta armata. Ha creato poi le basi per un minimo di assistenza sociale nei campi profughi e nelle enclaves dove la disperazione era pesante come il piombo. Ha trasformato le moschee in luoghi di carità e di reclutamento lasciando ad Arafat l'ingrato compito di rincorrere la situazione che andava progressivamente scappandogli di mano. Alla morte del leader, Hamas ha presentato il conto facendo leva sul consenso raggiunto e sull'alleanza con i gruppi più radicali come la Jihad e i Tanzim. Vuole il potere e la legittimità politica internazionale per trattare con l'avversario sionista. In termini di uomini, lo scontro è rappresentato dalla vecchia guardia dell'Olp come Abu Mazen, in prima istanza, e Abu Ala in seconda battuta, dall'altra parte Marwan Bargouti e Farouk Kaddumi. Anche se resta detenuto nelle carceri israeliane con sulle spalle ben 5 ergastoli, Bargouti ha deciso, dopo non pochi tentennamenti, di candidarsi contro il rappresentante ufficiale di Al Fatah, mentre Kaddumi vive esule all'estero da alcuni anni. Indipendentemente dagli uomini, la popolarità di Hamas, della Jihad e dei Tanzim è talmente alta da non rendere facile la prevista vittoria di Abu Mazen. La danza è già cominciata: se negoziato deve essere, i capi di Hamas non perdono tempo. Hassan Yusef, capo di Hamas in Cisgiordania, ha dichiarato di essere disposto a trattare per una tregua, di far cessare gli attentati per dare vita ad un governo di unità nazionale per uno stato palestinese nei territori di Gaza, della Cisgiordania e di Gerusalemme est. Manca, per il momento, l'assenso di Kaled Meshal, capo dell'ufficio politico di Hamas che si trova a Damasco e di Mahmud Azahar responsabile dell'area di Gaza, ma tutto sembra essere pronto per presentare la linea politica di Hamas sullo stesso binario seguito da Arafat ma senza la sua ingombrante presenza.

1a parte - continua

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Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.