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Home ›Le dure lotte degli operai cinesi
Tassi di crescita del PIL che impressionano economisti e operatori borghesi, crescita delle esportazioni che minacciano di far fuori le industrie locali di paesi come... gli Usa (è il caso del tessile) - questi dati positivi in termici capitalistico-borghesi si basano sul supersfruttamento della forza lavoro nella quasi totale assenza di servizi sociali.
Il settore tessile, dal 2001 - data di ingresso della Cina nel WTO - ad oggi ha visto crescere le esportazioni negli Usa dal 10 al 78 per cento del 2004. La apertura dei mercati è stato non il motore ma il mezzo attraverso il quale si è verificata la crescita delle esportazioni, essendo invece il motore primo il bassissimo costo della manodopera e gli elevatissimi tassi di sfruttamento che vedono come normale la giornata lavorativa estesa a 12 ore giornaliere.
Gli Usa sono anche in grado di indicare una tendenza importante del mercato dell'abbigliamento; ma, non c'entra con la moda e l'altezza dei pantaloni in vita. È il prezzo medio che scende tra 2001 e dicembre 2003 da 6,23 dollari a 2,65; per poi cominciare a risalire, fino ai 3,12 dollari del giugno scorso. Insomma, dopo essersi dimezzati, i prezzi risalgono del 15% in sei mesi. In effetti, la concorrenza ormai è sbaragliata e i prezzi possono anche risalire.
G. Ragozzino su Il Manifesto del 30/10
È in questo settore, maturo nei paesi metropolitani, nel quale la Cina sta mietendo questi successi che si è recentemente verificata una lotta lunga sette settimane. Gli operai della Fabbrica Tessile n.7 a Xianyang, nello Shaanxi, hanno così risposto alle richieste di licenziamenti, provenienti dalla nuova direzione. Nel quadro delle privatizzazioni che caratterizzano oggi la politica di stato cinese, lo stabilimento è stato infatti venduto al gruppo Huayun di Hong Kong. Questo ha offerto ai lavoratori, in maggioranza donne, il compenso di un mese di salario attuale perché accettassero il licenziamento e la riassunzione a salari nettamente inferiori. A quattro giorni dall'inizio dello sciopero, il 18 settembre, mille poliziotti armati di cannoni ad acqua si sono presentati ai cancelli, ma circondati dalla folla di lavoratori e di altri diecimila cittadini venuti in soccorso, sono stati costretti alla ritirata. Dai rapporti di Human Right in China, una organizzazione americana, risulta che verso la metà di ottobre i lavoratori, a migliaia nei picchetti davanti alla fabbrica per diversi giorni hanno cantato in coro l'Internazionale.
La lotta dei 6800 lavoratori della fabbrica è stata alla fine soffocata con l'arresto di almeno 20 lavoratori, ritenuti leader della protesta, e la denuncia di altri 40 per un sit-in. Uniche concessioni strappate sono state la cancellazione del periodo di 6 mesi di "formazione lavoro", che l'azienda chiedeva per riassumere i lavoratori, e una garanzia di lavoro più lunga di quella precedentemente offerta.
Abbiamo parlato di questa lotta perché per numero di lavoratori e di famiglie coinvolte, per durata e per determinazione è quella di cui si è avuta qualche notizia. Ma...
Proteste come questa succedono un po' dovunque -- dice Robin Munro direttore del China Labour Bullettin china-labour.org.hk -- Ce ne attendiamo molte, molte di più quando partirà in grande il processo di privatizzazione.
La Cina sta vendendo infatti più di 190 mila aziende di proprietà statale a investitori privati. La Commissione di Controllo e di Amministrazione dei beni statali aveva annunciato l'anno scorso che puntava alla ristrutturazione di circa 190 grandi imprese e alla vendita di tutto il resto.
I lavoratori sembrano dunque reagire agli stessi fenomeni più in Cina, sotto un regime repressivo certamente duro e in assenza - dove c'è lotta - dei sindacati, che nei paesi metropolitani, da alcuni sciocchi ritenuti la punta avanzata della lotta proletaria nel mondo.
Agli arresti e alla repressione che colpiscono la classe operaia cinese si aggiungono gli incidenti sul lavoro. In base a dati ufficiali più di 7 mila operai muoiono ogni anno nelle miniere di carbone della Cina. Quest'anno la cifra salirà, considerato che in un solo disastro minerario per esplosione di grisou il 22 ottobre scorso sono morti o dati per dispersi 148 lavoratori.
Ma il numero complessivo di morti bianche nell'industria è calcolato sui 20 mila l'anno.
Che questo non abbia nulla a che vedere col socialismo è ovvio; meno ovvio, forse, è il fatto che la situazione attuale è figlia legittima e diretta di quella precedente, ovvero che a) in Cina il socialismo non c'è mai stato; b) l'organizzazione della borghesia di stato cinese si è mostrata più flessibile e capace di adattamento di quella sovietica, riuscendo a varare senza grandi scosse un piano di apertura del e al mercato che ha consentito i tassi di sviluppo a cui si assiste.
L'unica resistenza a quei piani viene dalla classe operaia che soffre duramente della loro applicazione.
Ed è a questa resistenza che, con le avanguardie rivoluzionarie del mondo, guardiamo e affidiamo la speranza di una ripresa del movimento comunista, mondato di quelle tragiche mistificazioni rappresentate dallo stalinismo in tutte le sue varianti, maoismo compreso.
Battaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
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