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Home ›Parte seconda: Decadenza e crisi del capitalismo internazionale
Già negli anni Trenta la Sinistra comunista italiana tracciava, sulla sua rivista Bilan, un'analisi lucidissima sulle caratteristiche del capitalismo pervenuto alla sua fase imperialistica.
La società capitalistica, a causa della acuta natura delle contraddizioni inerenti al suo modo di produzione, non può ulteriormente svolgere la sua missione storica: sviluppare in modo continuo e progressivo le forze produttive e la produttività del lavoro umano. La rivolta delle forze produttive contro la loro appropriazione privata, una volta sporadica è diventata permanente. Il capitalismo è entrato nella sua crisi generale di decomposizione.
Bilan, n. 2, 1934
Questa crisi generale di decomposizione, da non confondere con le crisi di ciclo, è la caratterizzazione della decadenza del capitalismo, la fase per la quale è impossibile al capitalismo di rimuovere gli effetti delle sue contraddizioni se non, in definitiva, attraverso le guerre.
Gli effetti delle sue contraddizioni non sono altro se non le crisi periodiche che il sistema capitalistico ha sempre dovuto subire e subisce a tutt'oggi. Ma fra quelle della fase ascensiva, prima del concludersi del processo di formazione degli stati nazionali attraverso le rivoluzioni democratico-borghesi, e quelle che vanno dal 1912-14 in poi, c'è una differenza sostanziale: le prime, dette crisi cicliche, pur essendo momenti di difficoltà, si configuravano come momenti necessari e acceleratori del processo di espansione del mercato capitalistico mondiate. Le seconde, le crisi di ciclo, data l'integrazione mondiale dei mercati in un unico grande mercato capitalistico, assumono proporzioni inverosimili (per intensità e per estensione) e si vestono di una caratteristica imprescindibile che è la strutturalità rispetto allo stesso modo di produzione borghese.
Ma spendiamo ancora qualche parola sul concetto di decadenza.
Nessuna società del passato, cl insegna Marx, è scomparsa nel periodo di suo massimo splendore. È soltanto dopo un periodo di declino che una società può cedere il passo ad una nuova forma di organizzazione sociale e ad un nuovo modo di produzione i cui presupposti oggettivi si siano già sviluppati all'interno del "vecchio mondo".
Da ciò, ovviamente, non si deduce che automaticamente questo debba avvenire. La storia è storia di lotta di classe. La necessità del rovesciamento sociale ha ragioni obiettive ma la realizzazione di tale rovesciamento, essendo opera degli uomini, dipende dal maturare di un intreccio di condizioni obiettive e soggettive, ossia da questioni di volontà e possibilità, maturate insieme.
Questa fase, caratterizzata da un processo di disgregazione del vecchio mondo e di progressivo e lentissimo indebolimento delle classi dominanti, è il periodo di gestione delle possibilità realizzatrici e liberatrici della nuova società; è insomma la cosiddetta fase di decadenza. E la principale caratterizzazione di questa fase è il rallentamento irreversibile della crescita delle forze produttive.
Ciò indica che la società borghese è pervenuta alla sua fase critica, nella fase in cui non può esplicare una delle sue funzioni improrogabili che è, appunto, la crescita costante delle forze produttive. Il che la espone ad una particolare vulnerabilità rispetto ai modi e ai mezzi con cui si realizza l'accumulazione del capitale e, sopratutto, la espone alle sue stesse contraddizioni interne, prima fra le quali la tendenza a decrescere del saggio del profitto.
La modificazione sostanziale della composizione organica del capitale - modificazione che, per rispondere al problema del decrescere del profitto, privilegia decisamente le quote del capitale costante (impianti, materie prime e tecnologie) rispetto al capitale variabile (la forza-lavoro) - non fa che accelerare questo processo per cui, ad un certo punto, la legge della caduta tendenziale del saggio del profitto si manifesta in tutta la sua gravità e pericolosità, aprendo un periodo di congiuntura negativa che spinge il capitalismo, impaurito e disorientato, a ricercare tutte le soluzioni possibili, anche le più estreme.
Ma soluzioni reali a questa crisi, che si sviluppano nella fase discendente di un ciclo di accumulazione aperto dalla fine di una guerra imperialista, non ve ne sono.
Esistono possibilità di tamponamenti, operati con le più astute opere di ingegneria finanziaria (con le quali un borghese tenta di avvantaggiarsi su un altro, senza creare valore aggiuntivo ma solo succhiando plusvalore già prodotto), con le speculazioni e col protezionismo; si tentano ristrutturazioni selvagge spingendo fuori dai processi produttivi milioni e milioni di lavoratori, il che, com'è noto, se riesce a tappare qualche falla nell'immediato rendendo più competitive le merci, non fa altro che spingere ad una recrudescenza della caduta del saggio del profitto.
Unica soluzione finale ad una crisi di tal fatta è la guerra imperialista; la guerra generalizzata è la risposta borghese alla crisi del capitale internazionale per chiudere un ciclo di accumulazione giunto alla sua fine e per aprirne un altro. Si ripropone così la dialettica guerra - ricostruzione - crisi - guerra.
La crisi che sta vivendo oggi il capitalismo internazionale è una crisi come quella descritta. È una crisi che ha ormai esperimentato tutti i contraccettivi possibili per non proliferare ulteriormente le sue più negative conseguenze e, con queste, la sua conseguenza estrema che è la guerra. Una guerra "strisciante", dal momento, che da decenni - sia pure localizzata di volta in volta in questa o in quella parte del mondo - semina distruzione, morte e miseria.
Ma la guerra, generalizzata fra blocchi imperialistici, è un passo obbligato che non ci è dato di sapere quando e come avverrà. L'imperialismo mondiale è in fase di preparazione del conflitto mondiale di cui sono testimonianze le recrudescenze degli scontri interimperialistici, le tensioni sempre crescenti nelle cosiddette "zone calde" della Terra, il braccio di ferro fra le grandi potenze attorno al problema di una militarizzazione dell'Europa (che con la nascita dell'Euro si sta ponendo in rotta di collisione con gli Usa), le collocazioni della Russia e della Cina nei futuri fronti di scontri bellici.
Progressivamente le economie capitalistiche si stanno avviando verso una conversione delle loro produzioni; si stanno cioè convertendo in economie di guerra.
Su ciò vi è qualcosa da dire e cioè che un massiccio investimento in armamenti, nemmeno nell'immediato è in qualche modo una misura protettiva dell'economia di fronte alla crisi. Lo è solo in ultima istanza, allorquando la guerra sarà entrata nella sua fase di belligeranza.
Intanto la crescente domanda dei bisogni militari è per l'economia capitalistica di qualunque paese uno spreco enorme, e per lo sviluppo delle forze produttive una produzione da inscrivere al passivo nel bilancio definitivo.
Perché questo? Perché le armi, se non interviene la condizione del fine della loro produzione - la guerra - stentano a riconoscersi come "merci" in quanto prive di un loro valore d'uso immediato. Se arricchiscono il mercante di cannoni diventano però un peso per l'economia nel suo complesso. La loro produzione implica un arresto del processo di autovalorizzazione permanente del capitale. Il lavoro cristallizzato in tali "merci" viene sterilizzato e blocca pertanto tale processo. La condizione affinché le armi diventino "produttive" è la guerra; ma per far riprendere ad una data nazione la via dell'espansione economica bisogna oltretutto che tale nazione dalla guerra esca vittoriosa. Il mercato delle armi è oggi In piena espansione. Il fenomeno si lega, se non ai motivi descritti, indissolubilmente all'inasprimento della competizione e degli antagonismi fra opposti imperialismi.
Dapprima con l'esibizione, ciascuno, della propria forza (le armi in tal modo "utilizzate" recuperano in parte la loro funzione dì merci); per costituire il deterrente più idoneo nei confronti di chi volesse ostacolare la politica imperialistica proiettata verso gli sbocchi di "nuovi" mercati. In seguito, una volta costituite le alleanze e gli equilibri internazionali politici e militari, con l'apertura delle ostilità e con le dichiarazioni di guerra di cui cause e motivazioni non mancheranno di essere scelte con oculatezza per rendere nella coscienza della classe operaia "necessario" un nuovo macello imperialistico.
In un mondo dominato dall'imperialismo e in una suddivisione in cui ciascuna potenza vuole avere la sua parte, il rischio di guerra sarebbe già alto. Ma in una situazione di crisi, e con una crisi in corso a carattere strutturale, la prospettiva della guerra diviene una matematica certezza, da realizzasi nel futuro. In un futuro di cui non conosciamo la prossimità o la lontananza ma verso cui bisogna assolutamente marciare preparati.
È questo l'imperativo categorico per ogni rivoluzionario che non voglia abusare di questo appellativo.
Imperialismo e movimenti nazionali
Avevamo detto in apertura del carattere di pericolosità delle guerre cosiddette di "liberazione nazionale". In una tendenza come quella in cui s'è avviato il capitalismo mondiale, qualunque episodio di contrasto politico e di contesa economica si inserisce come candidato a pretesto per far deflagrare una guerra generalizzata. Vediamone il perché.
Innanzitutto, cosa sono le guerre cosiddette di liberazione nazionale? Cosa rappresentano i movimenti nazionali che si agitano, non senza motivi, all'interno di tali conflitti a carattere locale?
Le guerre di "liberazione nazionale" sono le "eredi" di quel processo di formazione degli stati nazionali già realizzatosi in Europa verso la fine dell'Ottocento; processo in cui le borghesie dei paesi sottomessi alle grinfie di paesi più potenti (economicamente e militarmente) si erano poste alla guida di movimenti nazionali per realizzare nel proprio paese:
- la rivoluzione democratico-borghese (e connesso sviluppo delle forze produttive e delle relative istanze politiche atte a contenere la nuova e più complessa realtà nazionale);
- un proprio mercato capitalistico concorrenziale rispetto a quelli già presenti sulla scena internazionale;
- una indipendenza definitiva (unica condizione per l'ottenimento di quanto sopra).
Il processo descritto è un processo che si estende sino alla soglia della prima guerra mondiale. Al periodo cioè in cui si vede in larga parte conclusa l'opera del capitale internazionale di integrazione dei singoli mercati in un unico immenso mercato capitalistico. Il capitalismo perviene progressivamente, e con l'aiuto di tale processo, alla sua fase imperialista, la fase del dominio del capitale finanziario, negando pertanto, sempre più, le aspirazioni alla "libertà" di tutti gli stati rimasti indietro e lo spazio economico entro cui tali aspirazioni si sarebbero dovute realizzare. (1)
I moti nazionali perdono ogni loro caratteristica progressiva e si configurano sempre più come tensioni, sì, nate in loco ma gestite dalla strapotenza dell'imperialismo, pronto a insinuarsi in qualunque anfratto della politica internazionale coi multiformi tentacoli del capitale finanziario, pronto cioè ad imporre agli indirizzi voluti le proprie soluzioni a qualsiasi movimento nazionale disobbediente alla ferrea legge del più forte.
È superfluo dire che il colonialismo, più che ogni altro fenomeno, era stato la molla che aveva maggiormente spinto i popoli di colore alla necessità di un intervento diretto ai moti nazionali, moti che la giovane borghesia indigena tentava di gestire in piena autonomia ed in diretto antagonismo con le centrali del capitalismo coloniale.
Con la vittoria bolscevica in Russia, si affacciò la possibilità di una unione fra il proletariato occidentale e il movimento di emancipazione delle masse orientali, ma questa possibilità, nella quale lo stesso Lenin ripose inizialmente alcune aspettative strategiche per la diffusione internazionale della rivoluzione comunista, venne meno con la sconfitta della stessa rivoluzione russa. Quando, dopo la seconda guerra mondiale (cioè con la completa sconfitta del proletariato) riprendono i movimenti anticoloniali e le lotte nazionali, questi saranno integrati nell'imperialismo stesso, e non avranno alcuna possibilità di trascrescenza oltre i limiti del capitalismo, dei suoi rapporti economici, sociali e politici.
Anche il destino delle più giovani borghesie doveva essere in qualche modo segnato dalla linea di sviluppo del capitale internazionale; la loro aspirazione all'indipendenza si stemperava nell'affiancamento alla borghesia colonialista con la quale, per intrinseca natura, erano "costrette" a dividerne le sorti e... i profitti estorti al proletariato nazionale. La borghesia dei paesi sottosviluppati si è sviluppata come agente del capitale straniero, facendo sentire ai proletari indigeni il peso di un doppio sfruttamento.
Ciò è così vero che viene dimostrato ampiamente dallo stesso processo di decolonizzazione, molto spesso svoltosi non per iniziativa delle forze borghesi nazionali ma come conseguenza di nuovi equilibri internazionali determinatisi in seguito a non sempre indolori scontri delle centrali imperialistiche in corsa per l'accaparramento di sempre nuove fette di mercato mondiale. Così come il colonialismo era servito da acceleratore del processo di espansione dell'economia capitalistica, allo stesso modo la decolonizzazione servì agli imperialisti come metodo di affermazione della propria egemonia politica e per il piazzamento del proprio capitale finanziario. Cosi come il colonialismo fu una lotta fra le potenze coloniali per la spartizione delle risorse umane (sfruttamento della forza-lavoro) e di quelle naturali (materie prime e prodotti dell'agricoltura), allo stesso modo la decolonizzazione è apparsa come una fitta sequenza di contrasti interimperialistici volti all'accaparramento di vaste aree di influenza da cui spremere tutto quanto era ed è possibile spremere.
Sono andate in fumo tutte le speranze di quelle forze nazionali che. ingenuamente si erano poste sul terreno di una lotta per una «reale autonomia» e per uscire dalle condizioni di sottosviluppo e di arretratezza cui lo strapotere dell'imperialismo aveva costretto il loro paese. Il divario è continuato ad approfondirsi e, tendenzialmente, continua ad accentuarsi.
Nemmeno la seconda guerra mondiale, combattuta in nome delle forze del "progresso", della "libertà", della "democrazia" e dell-eguaglianza fra i popoli', è riuscita a porre freno all'approfondirsi di tale divario. Anzi, ne è stata il cappio che ha definitivamente chiuso la questione e che s'è stretto intorno al collo dei popoli dell'area del sottosviluppo; il nodo scorsoio di tale cappio fu l'accordo di Jalta (1945) fra i vincitori della seconda guerra mondiale, che suddivideva il mondo in due principali blocchi contrapposti, per quasi mezzo secolo in stato di conflittualità per perpetrare l'opera sistematica di rapina ai danni del proletariato internazionale.
Riassumendo. Come si può porre oggi la questione delle cosiddette guerre di liberazione nazionale?
Nell'era dell'imperialismo ogni lotta di liberazione ha esaurito la sua funzione storica, "liberatoria", perdendo le caratteristiche progressive della fase ascendente del capitalismo, di quella cioè del "libero scambio" e del processo di formazione degli stati nazionali.
Le cosiddette "guerre di liberazione nazionale" non sono stati momenti a sé stanti ma hanno fatto obiettivamente parte (e ancora fanno parte) degli intrecci imperialistici e dei motivi e degli interessi della dominazione imperialistica; sono pertanto destinate inevitabilmente, in quanto non dotate di "moto proprio", a subire l'attrazione verso questo o quel centro imperialistico.
Sono da rigettare, quindi, come falsi, tutti i concetti ad esse connessi che di volta in volta prendono il nome di lotta per l' "indipendenza", per l' "autonomia" o per l' "autodeterminazione".
Nell'epoca della decadenza imperialistica del capitalismo i moti nazionali servono soprattutto a creare le condizioni della guerra generalizzata, poiché inseriti nella fase conclusiva dei ciclo di accumulazione apertosi con la fine del secondo conflitto mondiale, unica risposta borghese possibile alla propria crisi, e di cui si intravedono oggi, concretamente, i segni della sua effettiva preparazione. In che modo servono a creare le condizioni di un terzo conflitto mondiale?
- proponendosi, possibilmente, come il pretesto diretto per l'apertura delle ostilità;
- inquadrando il proletariato nella logica della guerra sotto i mantelli ideologici dell'indipendenza, dell'autodeterminazione o dell'antimperialismo;
- diffondendo, a livello internazionale, lo stato di precarietà dì un obsoleto periodo di pace;
- diffondendo la psicologia di guerra con tutti i mezzi di persuasione, adatti al luogo e al tempo, di cui dispone l'imperialismo in tutto il mondo.
Lotta di classe contro l'imperialismo
Sviluppo del capitale finanziario e suo incontrastato dominio sul mondo; esportazione di capitali per ampliare il prelievo di quote di plusvalore; intensificazione dello sfruttamento internazionale della forza lavoro; lotta sempre più feroce per la conquista dei mercati e per il controllo e la gestione delle materie prime (petrolio in primis); sottomissione con ogni mezzo di nuovi territori ove investire i capitali e per il dominio di zone geograficamente strategiche; incetta di rendite parassitarie. Questo è l'imperialismo.
A questa politica di conquiste, di rapine, di violenza e di guerra, inevitabilmente determinata dalle contraddizioni prodotte dal processo di accumulazione capitalistica, nessun stato borghese può sottrarsi. Non esistono paesi o aree geografiche che sfuggano alle brame imperialistiche, sia da parte dei maggiori centri finanziari e delle grandi potenze militari sia da parte di tutti i capitalismi "nazionali" che aspirano comunque ad una loro partecipazione alla generale rapina di plusvalore e di rendite parassitarie. Ed anche fra stati ed organizzazioni militari minori, ciascuno tenta di assumere il ruolo di potenza regionale egemone a scapito di altri. Proprio quei paesi minori che si atteggiano a vittime sacrificali, e per i quali il proletariato è chiamato a solidarizzare, non hanno scrupoli di alcun tipo nello sfruttare al meglio la propria posizione strategica o nel tentare di ottenere maggiori quote di parassitaria rendita dai giacimenti di materie prime presenti nei loro territori. Costi quel che costi, naturalmente sempre a spese delle proprie masse proletarie.
Tutti i capitalismi fanno dunque carte false pur di non lasciarsi sfuggire un palmo di terra per simili contese. Non è perciò possibile una lotta contro un fronte dell'imperialismo senza che un altro si inserisca e ne approfitti. La lotta all'imperialismo non passa attraverso alcuna distinzione o benevolo appoggio "politico", ma deve essere lotta di classe all'attuale fase del capitalismo. Non può quindi assolutamente essere disgiunta dalla lotta che il proletariato conduce contro il proprio capitalismo e le proprie borghesie. Non c'è, in altri termini, lotta antimperialista al di fuori della presenza attiva e autonoma delle forze rivoluzionarie. Ma perché queste possano giocare finalmente il ruolo storico che le spetta, di fronte agli attacchi del capitale e ai processi delle contraddizioni interimperialistiche, è indispensabile porre il problema nei suoi giusti termini e nei suoi corretti nessi di interdipendenza con la questione fondamentale della organizzazione politica del proletariato, della lotta per la ricostruzione del partito internazionale della rivoluzione comunista.
Socialdemocrazia, opportunismo e moti nazionali: come pongono il problema i rivoluzionari
Visto quanto detto sopra, cosa ne consegue per i rivoluzionari? Come porre il problema a fronte di certe situazioni che vedono impegnato il proletariato sul fronte degli interessi nazionalistici propri delle borghesie locali e a quella monopolistica delle centrali imperialistiche?
Il primo compito dei rivoluzionari è quello di non aiutare, in alcun modo, le borghesie nazionali a consolidare le basi del loro potere, ma fare la massima chiarezza nei confronti del proletariato, chiamato a creare o a consolidare con le proprie mani le impalcature politiche ed economiche del suo sfruttamento. I rivoluzionari devono impedire che l'apporto delle masse lavoratrici alla lotta contro l'imperialismo si traduca in apporto alla vittoria del nazionalismo. In che modo? Approfondendo il solco che divide gli interessi delle masse sfruttate da quelli della borghesia nazionale al servizio di quella monopolistica dei blocchi dominanti; indicando le linee prospettiche della rivoluzione proletaria come opposizione totale allo sfruttamento e alla guerra imperialista; agitando il disfattismo rivoluzionario per approfittare delle difficoltà della propria borghesia e creare le condizioni del suo abbattimento; rifiutando la logica della guerra, senza distinzione fra guerre "giuste" o "ingiuste", fra guerre di "difesa" o di "aggressione"; rispondendo, infine, con la insurrezione proletaria, l'unica guerra che le masse sfruttate abbiano veramente interesse a realizzare.
È questo ll programma che i rivoluzionari devono portare avanti in qualunque situazione in cui le masse siano in movimento. Facendo i conti, beninteso, con tutte le forze sociali che tentano di egemonizzare (ed attualmente egemonizzano) la classe operaia per farla combattere per interessi di classe non suoi.
Fra queste forze spiccano quelle della socialdemocrazia e dell'opportunismo le quali, per avere vasta influenza fra le masse, soprattutto laddove non esistono energie rivoluzionarie in grado di assumere l'iniziativa e la direzione del movimento, sono da considerare tra i peggiori nemici della rivoluzione proletaria.
La socialdemocrazia è per lo meno ben individuabile: in tutte quelle forze o partiti legati all'esperienza storica della Seconda e della Terza Internazionale, che si dicono pronti ad appoggiare quei movimenti "progressisti”, che "lottano" cioè contro forme di governo considerate reazionarie e fasciste. Spessissimo l'appoggio a tali movimenti è l'appoggio diretto all'imperialismo che li determina, li "guida", per far cadere sotto l'influenza dello stesso, assieme al movimento, anche il paese in cui tali movimenti avvengono.
Abbiamo già delineato le caratteristiche fondamentali del moderno capitalismo. Possiamo affermare, definitivamente, che non esistono più "forze progressiste" che valga la pena di appoggiare. Tutto fa parte di un'unica realtà, la realtà totalizzante del sistema imperialistico; tutto porta acqua al mulino di questa realtà che, altro che essere appoggiata, merita soltanto di essere violentemente rovesciata.
Una realtà che impone l'urgenza di una netta separazione fra due opposti e distinti campi: il campo proletario e quello borghese.
La socialdemocrazia, comprese le sue più radicali appendici di "sinistra", appartiene in toto al campo borghese variamente camuffato; è pertanto un nemico da combattere alla stessa stregua di come si deve combattere qualunque forza politica reazionaria o fascista. Ogni distinguo, ogni cedimento ad un illusorio "meno peggio" è un cedimento irreversibile nei confronti dell'avversario di classe.
L'opportunismo è invece oggi un nemico più "invisibile", che si nasconde dietro mistificazioni assai spesso molto ben congegnate.
Ci riferiamo a tutte quelle forze che, partite da posizioni classiste, hanno progressivamente modificato i loro programmi, sino a rendersi pericolosamente tendenti a sconfinare nell'ambito delle ideologie dell'avversario di classe. Oppure si tratta di quelle altre forze che, partendo da presupposti estranei al campo rivoluzionario, si sono invece progressivamente avvicinate a posizioni proprie alla sinistra comunista, senza peraltro riuscire a compiere il salto definitivo, quello che le avrebbe portate a far parte delle forze della rivoluzione.
Nel campo dell'opportunismo si sprecano le posizioni più disparate e i distinguo più sottili. Pur esistendo una certa omogeneità di fondo nel considerare le guerre di "liberazione nazionale" come conflitti a carattere borghese, vengono ad operare sottilissime interpretazioni che si riferiscono sia ad una mai digerita lezione sulla realtà dell'imperialismo e della fase decadente dello stesso, sia all'atteggiamento che i rivoluzionari devono assumere di fronte allo svolgersi delle lotte dove c'è un proletariato in movimento pur se sotto l'egida della borghesia e sotto il vessillo del nazionalismo.
Ricorrono tesi secondo cui dette guerre sono auspicabili perché di "disturbo" alle contese fra opposti imperialismi (ma non è proprio attraverso le stesse che si esprimono le contese interimperialistiche?); altre, secondo le quali creerebbero - in quanto svolgentesi in aree "extracapitalistiche" o, addirittura, "precapitalistiche" - le condizioni della rivoluzione proletaria poiché avrebbero come risultato, con la creazione di uno stato svincolato dalle forze retrive dell'imperialismo, lo sviluppo delle forze produttive e la creazione di un moderno proletariato. Ma, rimanendo attaccati alla logica dell'imperialismo, quale "nuovo" stato non presenterebbe le medesime contraddizioni del centro imperialista al quale tende o è fagocitato, ed a cui necessariamente deve rimanere appoggiato? E quale imperialismo, oggi, in piena fase di decadenza e di obsolescenza storica, non esporterebbe tali sue caratteristiche in qualsivoglia "nuovo" paese sotto la sua influenza?
Altre teorie si legano a considerazioni sulla natura stessa dell'imperialismo. Certi moti, secondo queste teorizzazioni, potrebbero essere appoggiati se affiancati agli interessi dei poli meno potenti dell'imperialismo; tanto per far perdere forza a quello più forte e aggressivo, il che favorirebbe nello scontro le forze della rivoluzione.
L'imperialismo non viene pertanto visto nella sua vera realtà che è realtà unitaria, di uno stesso modo di produzione dominante, pur nella complessità dei suoi intrecci politici, economici e militari; ma viene valutato in rapporto al suo grado di "pericolosità", di particolare aggressività o di potenziale bellico posseduto (viene stilata così una graduatoria in cui prendono posto, nell'ordine, l'imperialismo n. 1, n. 2 e così via).
Valutiamo queste posizioni (un po' troppo esemplificate, ma esatte da un punto di vista del contenuto politico essenziale) come assai pericolose e suscettibili di sconfinamento nel collaborazionismo di classe con le borghesie indigene e coi poli dell'imperialismo cui queste sono collegate. Il che potrebbe fornire più armi di quanto già il nemico di classe non ne abbia per perpetuare il sistema dello sfruttamento della classe operaia internazionale.
Al proletariato indigeno si porrà la prospettiva guerra o rivoluzione così come si porrà al proletariato di qualsiasi parte del mondo, occidente industrializzato compreso; senza tappe intermedie, senza tattiche diversificate; col peso dei compiti che gli competono per realizzare il programma comunista.
Ma il proletariato è in grado di realizzare tale programma senza una guida rivoluzionaria?
La storia passata e presente dei moti nazionali ci dice chiaramente di no.
Qualora maturassero le più acute contraddizioni che ponessero all'ordine del giorno l'insorgere di forme spontanee di lotta generalizzata, senza il partito rivoluzionario ogni spontaneità del proletariato sarebbe destinata al più completo fallimento, ogni prospettiva di soluzione andrebbe miseramente a schiantarsi contro la reazione borghese o contro l'ingabbiamento di ogni disponibilità alla lotta entro i limiti angusti del nazionalismo, magari tinteggiato di rosso, di quel rosso-sangue caro alle borghesie assassine di tutto il mondo, fra le cui spire verranno sospinte dalle forze della socialdemocrazia la classe operaia e tutte le masse sfruttate del paesi in rivolta.
Si pone quindi ai rivoluzionari di tutto il mondo il non facile e urgente compito della costruzione di un centro propulsore, la futura internazionale comunista, unica condizione per far trascrescere i moti di "liberazione nazionale" in rivoluzione proletaria.
La lotta contro l'imperialismo per i marxisti equivale a lotta contro tutti gli imperialismi, ma senza uno schieramento internazionale del partito - che sappia essere una sicura guida rivoluzionaria e un punto di riferimento e di coordinazione di tutte le lotte proletarie - qualunque episodio di rivolta è destinato ad essere risucchiato dalle forze che di volta in volta gestiscono questo o quel movimento, questo o quell'episodio bellico. La storia ci ha dato esempi tragici, dal Vietnam alla Corea.
Senza un partito dl classe, organizzato a scala internazionale, verranno meno le condizioni per attuare il disfattismo rivoluzionario per la trasformazione della futura guerra imperialista in guerra di classe, per l'abbattimento violento del sistema parassitarlo, sfruttatore e guerrafondaio del capitalismo a livello mondiale; verranno meno inoltre le occasioni per estirpare sin dalle radici, definitivamente, il problema della guerra preparata e voluta dall'imperialismo per risolvere la propria crisi di ciclo e, con essa, le proprie immediate contraddizioni.
La strategia rivoluzionaria della classe operaia e del suo partito non potrà avere esitazioni; non hanno più senso ormai, nemmeno a livello di semplice polemica, valutazioni preferenziali su quale dovrà essere il blocco da attaccare. Non esiste un "male minore", nemmeno un "imperialismo numero due", o considerazioni su ruoli più o meno progressivi svolti da certuni paesi. Non esistono più, nell'era dell'imperialismo, ruoli e idee progressisti. Esistono due campi opposti: quello borghese imperialistico e quello proletario rivoluzionario. Il proletariato si ritroverà ad attaccare sul fronte in cui più drammatiche si saranno rese le contraddizioni e, dunque, più favorevoli si saranno dispiegate le condizioni, soggettive ed oggettive, dell'assalto rivoluzionario. Le scelte sul come e chi attaccare saranno scelte di natura militare e non politica.
Può veramente il pacifismo fermare la guerra?
Il processo che inesorabilmente porterà alla guerra generalizzata, se non ha svegliato il proletariato in quanto classe rivoluzionaria, ha altresì prodotto le reazioni più varie. Tra queste è da prendere in considerazione un vasto movimento pacifista che, soprattutto in Europa, ha dato vita ad ampie manifestazioni di piazza contro i pericoli della guerra e contro il militarismo che si esprime oggi, nei paesi tecnologicamente avanzati, con una ripresa della corsa agli armamenti.
Folle oceaniche si sono riversate sulle piazze di mezza Europa e insistenti manifestazioni si sono avute (e si continuano ad avere). La parola d'ordine è ovunque NO alla guerra, SI alla pace. Ma può veramente il pacifismo fermare la guerra? La risposta è NO.
La pretesa di fermare la guerra con un pur vasto movimento di opinione scade nell'idealismo poiché non tiene conto della natura classista della guerra. La guerra è l'unico modo in cui il capitalismo può risolvere la sua crisi di ciclo; è l'unico modo per risolvere il problema dei mercati incapaci di assorbire le merci prodotte; è l'unico modo per risolvere il gravissimo problema dei capitali investiti e, quindi, del riottenimento di ampi margini di profitto oggi negati dalla crisi. La guerra è il naturale punto di approdo della spietata concorrenza fra opposti imperialismi e opposti stati, i quali, oltre che contrapporsi in una spietata guerra commerciale, travolgono le economie dei paesi dipendenti con un danno sempre crescente per quelle più deboli e, soprattutto, per i paesi che, da sempre, hanno problemi di sopravvivenza per la stragrande maggioranza delle loro popolazioni.
Pensare di poter fermare un processo che è un risultato di tutto ciò, equivale a pensare che possa esistere la pace sotto il dominio assoluto del capitalismo; ovvero: significa non aver minimamente compreso la natura del modo capitalistico di produzione, le leggi e i moti interni che regolano la sua economia e il suo modo di esprimersi, soprattutto oggi, in piena fase imperialistica.
La guerra ha una natura di classe e solo sulla base di tale considerazione è possibile impostare una qualsivoglia azione di lotta mirante a fermarla.
Ma questo è proprio ciò che il pacifismo non ha compreso. Il pacifismo pensa cioè di poter arrestare processi storici ineluttabili con l'arma di un forte movimento di opinione su basi interclassiste, scambiando il suo principale limite (l'interclassismo appunto) come il proprio punto di forza.
Il ragionamento è semplice: la guerra è problema che riguarda tutti. È giusto che "tutti" si "prenda coscienza" di ciò e "insieme" si faccia qualcosa per arrestare il processo che potrebbe portare ad un ennesimo macello. Come si può ben intuire, il movimento pacifista, coinvolgendo nella sua foga "movimentista" centinaia di migliaia di persone (accomunati dall'orrore sacrosanto per la guerra), accoglie nel suo seno la confusione e la massima genericità e approssimazione politica.
Ma, cosa ben più grave, come si può dimenticare che gli uomini, in regime capitalistico, non sono semplici individui appartenenti a se stessi e alla propria volontà, ma appartengono invece a stratificazioni sociali differenti e, quindi, anche a classi differenti che, spesso, non solo sono in conflitto fra loro, ma addirittura in acuto e insanabile antagonismo? Come si può dimenticare che fra queste classi vi sono anche quelle che, pur esorcizzando il fantasma della guerra (ma solo a parole), nei fatti sono impegnati nella sua attiva preparazione? Basterà ll "comune" orrore per la guerra a modificare la struttura delle classi e, ancora, gli interessi che le stesse storicamente esprimono?
È questo il contenuto dell'interclassismo che, praticato dai marpioni della politica, ha come scopo la difesa degli interessi della classe dominante seminando il disorientamento nelle classi sfruttate, cui vengon fatte credere le teorie insulse circa la "indipendenza dello stato", il "comune interesse nazionale" e via discorrendo; praticato invece da movimenti spontanei, come in parte è il pacifismo, assume i connotati della ingenuità più madornale, ma certo non meno pericolosa, in quanto portatrice di confusione e di acqua fresca al mulino dell'avversarlo di classe (ecco perché "tutti" hanno interesse a star dentro al movimento pacifista).
Altro dato da rilevare è il volontarismo che il pacifismo può portare come il fiore all'occhiello. Si parte cioè dalla considerazione, stantia e ingannevole, che volere è potere. Tale concezione ignora il rapporto fra le forze della determinazione storica e quelle storicamente determinate, fra la sfera dell'oggettività e quella della soggettività, le quali, pur influenzandosi a vicenda, solo sulla base di particolari condizioni hanno possibilità di dar luogo a soluzioni di sintesi storica.
Tutto ciò a dimostrazione della profonda ignoranza delle leggi della concreta dialettica che aleggia all'interno del movimento il quale, per tali motivi, al di là della generosità e sicura buona fede che possiamo riconoscere ad una parte dello stesso, non può essere definito che idealista.
Non è ancora finita. Non si può indugiare sul moralismo dominante che analizza i fenomeni non con la forza della ragione e dell'interpretazione scientifica, bensì con sdolcinati sentimentalismi che impongono di operare contro la guerra in quanto "male" da sconfiggere; da questa "filosofica" contrapposizione fra il bene e il male dipenderebbe il destino dell'umanità. Questa concezione sta fra un testo di bassa morale e l'atrio di un oratorio parrocchiale e sconfina, estendendosi, nel più aberrante dei paradossi: la non-violenza.
E qui siamo al colmo. Come si può pensare di opporsi proprio a ciò che si presenta come il punto massimo di espressione della violenza, cioè la guerra, con le armi della passività e della rinuncia a priori all'uso delle armi? l riferimenti storici non sono privi di insegnamento, a cominciare dalla mitica figura di un Nehru (ì cui risultati, come si può ben vedere dalla attuale condizione dell'India certamente non diedero nemmeno uno fra i risultati sperati).
Si potrebbe a questo punto obiettare che la critica è sempre facile e che, in fondo, il movimento pacifista qualcosa starebbe pur facendo, di fronte alla indifferenza generale. Ma di fronte alla gravità del problema, noi contestiamo certe metodologie di lotta, di completo disarmo del lavoratori, frutto di erratissime analisi sulla realtà dell'imperialismo, e la convinzione che per affrontarli sia sufficiente rifiutare (a parole) l'installazione di un qualche missile in più quando, si sa, basta molto meno del potenziale posseduto dai principati briganti imperialisti per distruggere ogni più piccola forma di vita sulla terra
Nessun pacifismo è mai riuscito ad opporsi concretamente alla guerra. Nel 1914 i più convinti pacifisti che si trovavano fra le file dei riformisti finirono per appoggiare la guerra, trascinando nel massacro milioni e milioni di proletari. L'atteggiamento più radicale, oltre aì rinnegati che più attivamente si diedero da fare per aiutare la propria borghesia, fu quello di un semplice neutralismo ("né aderire, né sabotare") che disarmava la classe operaia e la inviava, di fatto, a farsi macellare al fronte. Nel 1938 le manifestazioni per la pace si sprecavano senza peraltro riuscire a frenare il processo in atto; da lì a breve scoppiava la Seconda Guerra mondiale. Dei pacifisti non si vide più traccia.
Al di là del suo credersi "indipendente" dai partiti politici, il movimento pacifista si rappresenta invece come la cassa di risonanza di tutti quei partiti che si dicono pronti a lottare per la pace (e chi non è pronto a giurare su ciò?); in particolar modo dei partiti della "sinistra" borghese, che mentre parlano di pace, si offrono alla borghesia come i garanti della pace sociale, facendo accettare al proletariato e alla classe operaia sacrifici e restrizioni d'ogni sorta e contribuendo alla preparazione di quella psicologia che farà della stessa guerra, al momento opportuno, un "male necessario", con cui difendere il proprio paese, la propria nazione in virtù di considerazioni, già esposte, sul carattere "giusto" o "ingiusto", opportuno o no, del futuro conflitto.
Alla lunga, saranno proprio i partiti della sinistra borghese a trarre il massimo vantaggio, allorquando riusciranno cioè ad imporsi corna forza egemone all'interno del movimento; anche indirettamente, recuperando le istanze di questo oppure attraverso l'azione di nugoli di militanti, condizionando il movimento (ingenuo e confusionista) alle direttive e alla strategia degli onnipotenti organi dirigenti e degli interessi che si nascondono dietro di essi. (2)
Non meno duro si fa il discorso per le confederazioni sindacali, già da tempo mostratesi per veri e propri agenti dei padroni presso la classe operaia per la conservazione del capitalismo, e impegnati, in prima persona, a tutelare l'impegno nazionalistico del capitale nei vari paesi.
Giungendo in conclusione, per i suesposti motivi e per mille altri che ragioni di spazio non ci consentono di esaminare, il pacifismo non ha scampo. Sarà di fatto una appendice dei partiti borghesi oppure sarà fagocitato dal processo che inesorabilmente conduce alla guerra. Gli "ismi" dietro cui è costretto a mascherarsi, dimostrano da un lato confusionismo, pressapochismo e genericità; dall'altro gli embrioni di una strategia precisa che sarà di utilità alla causa borghese della guerra allorquando, detti "ismi", saranno costretti a trascrescere nei loro opposti. Pacifismo, neutralismo, europeismo, ecc., ecc., sono oggi come ieri le diverse facce di una stessa medaglia. Sono appunto gli "ismi" che la storia ha relegato negli angoli bui in cui hanno agio di fecondare e proliferare tutte quelle ideologie borghesi, destinate e costrette a trasformarsi in un unico risultato politico: l'interventismo.
Tendenza alla guerra e compiti dei rivoluzionari
Il problema, oggi, si pone ancora allo stesso modo. I rivoluzionari condannano la guerra e la logica, intimamente connaturata al modo di produzione capitalistico, che la fa scoppiare.
I rivoluzionari rifiutano qualsiasi giudizio. sempre di parte, circa presunte differenze fra "guerra e guerra". Esiste la guerra e basta. Esiste la guerra come soluzione borghese alla crisi del capitale; le parti in lotta, al di là delle pretestuosità contingenti per parteciparla, ne devono accettare cause e finalità.
In caso di guerra, dunque, nessuna solidarietà alla borghesia imperialista e guerrafondaia; ogni sforzo dovrà essere indirizzato verso soluzioni che di fatto possano danneggiare gli interessi del capitalismo di qualsivoglia schieramento.
In guerra rimane identica la contraddizione fondamentale fra capitale e lavoro, fra sfruttati e sfruttatori. I rivoluzionari rifiutano quelle concezioni secondo cui, durante lo svolgersi di un evento bellico, le contraddizioni "interne" ad un paese passerebbero in secondo luogo perché sovrastate dalla contraddizione fra "proprio paese" e "fronte del nemico" (siamo ancora nel pantano dell'interventismo!). Come sperare di combattere il capitalismo se poi lo si aiuta concretamente a superare le difficoltà provocate dalla guerra? Non è proprio lo stato di debolezza di questi (portato al massimo grado in caso di sconfitta militare) la condizione più favorevole affinché la classe operaia possa sferrare il suo decisivo attacco?
Chi rifiuta questa impostazione ricade nella logica della guerra e si inserisce, favorendo il nemico di classe, nella contesa imperialistica a tutti gli effetti.
La parola d'ordine dei rivoluzionari sarà GUERRA ALLA GUERRA. La pratica dell'attività politica in periodo bellico sarà improntata al più conseguente principio del disfattismo rivoluzionario, per trasformare la guerra imperialista in guerra di classe, in lotta senza quartiere contro la borghesia (nazionale ed internazionale), contro il capitalismo, inteso come sistema globale di dominio su tutto il pianeta terra.
È questo il massimo insegnamento del partito bolscevico di Lenin, che seppe spezzare la spirale della guerra opponendo agli interessi borghesi e del capitale, il disfattismo rivoluzionario, che seppe trascrescere in insurrezione prima, in dittatura del proletariato poi. Le ragioni della successiva sconfitta di quel partito, dovute a motivi di isolamento e di non espansione della rivoluzione a scala internazionale e alla successiva affermazione della controrivoluzione stalinista, è problema a parte, che non annulla minimamente la validità di quell'esperienza e l'efficacia di una sua riproposizione: oggi, ovviamente adeguata alla presente e diversificata situazione storica.
Ma la guerra è veramente qualcosa di ineluttabile? Si, se non trova spazio di inserirsi, nel processo di crisi che conduce alla soluzione imperialista, l'azione decisa del proletariato, l'unica in grado di far mutare il corso delle cose. La guerra ha il suo opposto, trova la sua negazione storica solo nella rivoluzione comunista. Dunque può essere evitata, e definitivamente, solo con la mobilitazione della classe operaia per la difesa dei suoi interessi, opposti e inconciliabili con quelli della borghesia e del capitale. Solo la classe operaia, solo la sua forza, la sua compattezza, la sua capacità di rifare il mondo possono impedire alla borghesia di scatenare un altro macello imperialista: spazzando via il modo di produzione capitalistico ed instaurando la dittatura proletaria dei consigli operai. (3)
Un lavoratore non ha niente in comune col proprio padrone, mentre ha tutto in comune con i lavoratori delle altre nazioni, russi, polacchi, americani, arabi ed ebrei, bianchi o neri che siano. È per tale sua condizione che la classe operaia è storicamente la sola forza in grado di ostacolare la guerra imperialista o di trasformarla in guerra di classe per l'affermazione nel mondo di un nuovo e superiore ordine sociale.
Ma vediamo nel concreto come può adempiere a questo suo compito, dato che i fattori di guerra incalzano e la classe operaia è ancora apparentemente ferma.
Il problema della ripresa della lotta di classe è legato a due fattori principali. Il primo è legato a sua volta alla situazione esterna che non ha ancora espresso drasticamente gli effetti della sua gravità e che dunque lascia ancora margini, anche se ristrettissimi, all'apatia, al disinteresse. La crisi insomma non ha ancora toccato il fondo; se ciò non si dovesse verificare sarà difficile avere grosse partecipazioni proletarie e grossi scoppi di rabbia sociale in grado poi di elevarsi a livello di scontro di classe. A questa situazione si affianca, contraddittoriamente, la consapevolezza della gravità della situazione generale che pesa come una cappa sulla capacità di movimento della classe: la paura della perdita del proprio posto di lavoro, dietro ai ricatti sempre più pressanti del padronato, si rappresenta come uno fra i principali deterrenti alla ripresa.
Il secondo problema è quello del partito: la necessità cioè, di un partito sufficientemente forte da essere punto di riferimento saldo e coerente per la classe. La saldezza di una organizzazione, la sua coerenza, non sono evidentemente di per sé sufficienti a farne un polo dí attrazione. La classe operaia è ancora "in sospeso", da quando sta maturando la convinzione del ruolo borghese svolto dai sindacati e da quei partiti che si definivano partiti operai, addirittura "comunisti', ed ora comunque sempre di "sinistra". In questo suo stato di sospensione, la classe operaia non decolla e le sue frange più combattive fanno fatica a riordinarsi intorno ad una tattica e ad una strategia di attacco, pur minima, che possa caratterizzarle come avanguardie di classe. È per tale motivo che si pone il problema urgente per i rivoluzionari di operare un deciso sforzo di volontà che, se da solo non è sufficiente a creare ciò che nelle cose non esiste, è d'altra parte l'unico modo per tentare di uscire dall'impasse di un ritardo che si fa sempre più preoccupante e liberarsi dalle spire di una apatia dal cui risveglio ci si potrebbe già trovare in una situazione di sconfitta.
La propaganda comunista deve circolare in ogni posto di lavoro, in ogni assemblea, in ogni manifestazione operaia. (4) Il materiale politico comunista dovrà porsi come l'unica occasione con cui la classe operaia possa trovare le giuste risposte alle complesse vicende della realtà e costituire l'unico punto di orientamento concreto di fronte alla confusione politica di gruppi e gruppetti e alla politica reazionaria dei sindacati e dei partiti dell'arco della socialdemocrazia, vecchia e nuova.
La nostra caratterizzazione rispetto a tali forze deve essere la più netta possibile affinché risulti molto più chiaramente la nostra impostazione politica, la nostra futura strategia di attacco. A tal fine nessun compromesso con queste forze, anche le più (verbalmente) radicali. Bisogna anzi approfondire il solco che divide il campo borghese (a volte ben camuffato con vanagloriose velleità "rivoluzionarie") da quello proletario; bisogna rendere lampante la frattura di classe che esiste fra l'area dell'opportunismo e quello della rivoluzione.
Il conseguimento di un primo risultato è la costruzione di una rete di propaganda e di contatti che faccia riferimento sia ai gruppi di fabbrica, operanti sui posti di lavoro sia ai proletari nel territorio. Come primo momento organizzativo che, partendo dalla difesa delle immediate condizioni di vita tanto dei lavoratori quanto dei proletari in generale, si possa poi concretizzare in corposa organizzazione del dissenso operaio nei confronti della borghesia e di tutte le forze del capitale; sino al collegamento col programma rivoluzionario complessivo, proprio al partito, per far trascrescere l'opposizione alla guerra di oggi e agli interessi del capitalismo, nel disfattismo rivoluzionario di domani. Senza un forte partito di classe, presente nel cuore del proletariato, non v'è possibilità di soluzione del conflitto storico fra sfruttati e sfruttatori; non v'è possibilità alcuna che il socialismo possa divenire realtà per mettere la parola fine al problema delle ricorrenti guerre imperialiste.
Ci si domanda spesso "può esserci una fine alle distruzioni, agli orrori, alle miserie e alle morti dei conflitti bellici? L'avvenire dell'umanità è ridotto solo a orizzonti bagnati di sangue?"
I comunisti internazionalisti considerano come loro dovere dire la verità, e noi sappiamo che l'uscita da quest'orrendo pantano esiste se sappiamo quale direzione prendere e quali sono gli ostacoli. È per questo che accusiamo il sistema capitalista di essere il portatore di guerre e di crimini contro l'umanità. Noi affermiamo che il proletariato è l'unica forza che ha la possibilità di mettere fine a questa barbarie. Consideriamo che la lotta di classe portata sino al suo termine definitivo, il grande sovvertimento della rivoluzione proletaria, è l'unica uscita dal ciclo infernale guerra - ricostruzione - crisi -nuova guerra.
Indipendentemente dallo stato attuale della coscienza e delle forze in campo, noi siamo certi che non si impedirà alcuna guerra attraverso dei dibattiti nei Parlamenti, nei Senati e neppure alle Nazioni Unite. I primi passi per un'opposizione reale sono nella coscienza e nella comprensione del fatto che l'avvenire di guerra o di pace sarà unicamente deciso nelle fabbriche, sui posti di lavoro, nelle strade. Fino allora, nella perdurante serie di conflitti e guerre, l'imperialismo apparirà sempre come il vincitore reale e il proletariato internazionale - e dunque l'umanità stessa - il grande sconfitto.
“Imperialismo o socialismo. Guerra o rivoluzione. Non c'è alcun'altra alternativa! La sola vera garanzia per la pace è sbarazzarsi del capitalismo. Solidarietà con tutte le lotte proletarie del mondo! Coordinamento delle stesse a scala internazionale! Formazione di avanguardie comuniste in fabbrica e sul territorio per l'internazionalismo proletario! Il proletariato non ha nazione! Internazionalismo, Rivoluzione!”
(1) Anche se il problema dei movimenti nazionali è ben lungi dal potersi considerare adeguatamente analizzato, è importante fare in ogni caso qualche supplettiva considerazione. Nel testo si afferma che !'imperialismo nega qualsivoglia aspirazione alla libertà a quei paesi "rimasti indietro" dal punto di vista dello sviluppo economico. Perché questo? Poiché la fase dell'imperialismo, sviluppatasi sulla legge dello sviluppo ineguale del capitalismo (che relega determinate aree geografiche e politiche al sottosviluppo delle cittadelle capitalistiche) e per lungo tempo consolidatasi sulla base di un suo equilibrio "bipolare" (due principali blocchi contrapposti), ha ridotto alla propria mercé la stragrande maggioranza degli stati nazionali, divenuti vere e proprie succursali dei centri di dominio del capitale finanziario. La penetrazione multidirezionale di tale capitale, invece che migliorare la situazione dei paesi sottosviluppati, ha maggiormente approfondito il divario esistente fra aree del sottosviluppo e quelle caratterizzate invece da un altissimo sviluppo industriale.
Quando il capitale si indirizza verso le aree del terzo o del quarto mondo non è mosso da progetti di Industrializzazione o di sviluppo delle forze produttive delle stesse aree; lo fa invece in funzione di un inesorabile succhiamento delle loro risorse, il che tende a depauperizzarle ulteriormente. Questa situazione ha una implicazione politica di notevole entità; quella che ci rende quanto mai lampante la vacuità del termine "autodeterminazione del popoli', progetto cui sembrano spasmodicamente tendere i cosidetti "moti di liberazione nazionale".
Come potrebbe uno stato che dipende da tutto e per tutto dall'imperialismo dominante sognarsi di rendersi politicamente indipendente? Tentare di sottrarsi al giogo di un blocco imperialista significa semplicemente innescare delle reazioni di rivalità tra i centri dell'imperialismo. Questo processo si risolverà In ogni caso con la vittoria di un centro su un'altro, e che quindi non avrà risolto il problema di un popolo in lotta per l'autodeterminazione. Avrà semmai, nel migliore dei casi, fatto il gioco della borghesia nazionale e contribuito all'assunzione del dominio di un "nuovo" padrone, certamente né peggiore né migliore del precedente.
(2) I "sinistri" italiani, dopo aver smesso di chiedere solenni abiure dell'atlantismo, negli anni Novanta cominciarono a perseguire l'obiettivo della creazione di una "terza via" che assegnasse all'Europa il ruolo di terza forza mondiale in grado di porsi come "soggetto autonomo e attivo" per "rompere" la logica allora ancora dominante dei due blocchi contrapposti (USA e URSS), fino a contrastare il dominio delle due superpotenze. A questa nuova forza mondiale sarebbe stato assegnato, fra gli altri, il compito dì sostituire le grandi potenze imperiali nel loro rapporto col Terzo mondo il quale avrebbe potuto beneficiare, mediante "proposte storiche" (che le forze "progressive al proprio interno" dovevano raccogliere), dl una nuova prospettiva di sviluppo sia a livello economico che politico e sociale. Non solo, ma in caso di guerra, si guardava alla possibilità d'intervento del nuovo terzo polo, poiché per quegli emeriti controrivoluzionari - citiamo dal documento di unificazione del Pdup e del Mls, nel 1981 - "quello che si vuole sottolineare non è l'esigenza illusoria di tenersi fuori da una tensione mondiale che minaccia di diventare guerra, di tenersi in ogni momento equidistanti dalle superpotenze; ma, anzi, al contrario, l'esigenza è quella di intervenire, di assumere un ruolo mondiale, di schierarsi con decisione su ogni problema"...
Oggi, dopo il crollo dell'URSS e del suo impero, è ripreso il processo di ricomposizione dei fronti imperialisti, e l'Europa va lentamente compattandosi come il fronte avverso a quello che sinora appare come l'incontrastato padrone del mondo. Le contraddizioni fra le due "aree monetarie", dell'euro e del dollaro, vanno maturando nella realtà di una situazione che, per la prima volta nella storia, vede una moneta unica precedere la formazione politica e statuale. Il compimento di questo nuovo processo che porta dalla moneta unica, l'euro, alla unità politico-statuale, segnerà anche il momento culminante della contrapposizione imperialistica, in cui il proletariato sarà ancora una volta chiamato ad allinearsi con il suo sfruttatore. L'unica alternativa rimane sempre quella dell'abbattimento delle condizioni che determinano la guerra e la barbarie, quindi nella rivoluzione proletaria.
(3) È opinione diffusa all'interno dello schieramento della neo-socialdemocrazia (sino alle sue compagini più radicali e, a parole, più intransigentemente "marxiste") che la classe operaia non rappresenti più la centralità della prospettiva rivoluzionaria. Il perché si legherebbe ad una infinità di motivi che vanno dalla massiccia "terziarizzazione" della società (che avrebbe profondamente modificato la struttura delle classi nonché i rapporti di forza fra le stesse) sino alla suddivisione della classe operaia in fasce retributive, fra le quali quella conosciuta con l'appellativo diffamatorio di aristocrazia operaia. (La quale, per sua natura controrivoluzionaria, indurrebbe ad un ripensamento di quello che è e dovrà essere il ruolo storico che i marxisti avevano sinora assegnato alla classe, presa nella sua interezza e globalità).
Demolire tali impostazioni che deformano la natura dialettica dell'analisi del marxismo rivoluzionario, è importante ed urgente, per evitare che si diffondano ulteriori motivi di confusione presso la classe operaia o presso settori politici in via dì orientamento e formazione. Sul problema rimandiamo a Battaglia Comunista n. 9, 1980 (Impostazione dell'analisi sulla composizione di classe) e a Prometeo n. 5, 1981 (Crisi e ristrutturazione: l'impostazione ideologica borghese dell'Autonomia Operaia).
(4) Se è indiscussa la centralità della classe operaia rispetto alla strategia della rivoluzione comunista, ciò non vuol dire che i rivoluzionari debbano avere come unico terreno di intervento solo la fabbrica e i luoghi ove esistano massicce concentrazioni di operai e proletari. Il terreno di intervento è altresì molteplice e va coltivato ovunque sia possibile far circolare critica, strategia e programma del comunismo. La finalità primaria è quella di separare energie rivoluzionarie dal contesto globale delle ideologie dominanti e del confusionismo generalizzato, per creare quadri politici, i militanti della rivoluzione. Uno sguardo particolare va rivolto ai giovani che sono fra i più colpiti dagli effetti della situazione attuale di crisi e, quindi, fra i più disponibili alla lotta contro un sistema che li relega al ruolo di disoccupati a vita (è proprio fra i giovani che, in assoluto, v'è il più alto tasso di disoccupazione). Quale prospettiva si pone oggi al giovani? La prospettiva della perenne ricerca di un posto di lavoro che non c'è e, quando c'è, è transitorio, occasionale e non adeguato, spessissimo, alle proprie capacità e al titolo di studio posseduto (questa particolare situazione rigetta i giovani del lavoro occasionale e del lavoro nero al rango di sottoproletari urbani). E saranno i giovani, in caso dí guerra, a fornire il primo sangue fresco al vampiro imperialista, per difendere la patria borghese e tutti i più vitali interessi del capitale. Questo problema è particolarmente sentito dai giovani; non è un caso che il movimento pacifista sia proprio il terreno in cui più massiccia è la presenza dí giovani di tutta Europa. È proprio nelle manifestazioni pacifiste che i rivoluzionari devono far sentire la propria voce, per far chiarezza fra le più variegate e ammorbanti ideologie che sfruttano ampiamente l'inesperienza e la mancanza di memoria storica dei giovani, per volgere il tutto ai loro fini.
I giovani non hanno altro futuro che quello di collegarsi strettamente allo sviluppo della lotta di classe. Seppure slegati dal mondo del lavoro devono far sentire la propria voce e difendere il loro futuro che In questo sistema non ha, e non può avere, altri sbocchi che la guerra imperialista.
Oltre il pacifismo
Per la ripresa della critica politica marxista della guerra e della società che la genera
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