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«Quando la guerra imperialista scuote nel profondo il sistema di produzione capitalistico e le stesse leggi che lo regolano, compito essenziale e immediato del partito rivoluzionario è quello di operare conseguentemente alla analisi marxista della natura di tutte le guerre dell'imperialismo, che trovano la loro necessaria giustificazione storica in un momento dato dello sviluppo economico del capitalismo e degli antagonismi di classe, e non in questo o quel motivo esteriore a cui suol legarsi la fortuna degli opportunisti. Tenendo presente che il proletariato, benché appaia temporaneamente sotto il peso di peggiorati rapporti di forza, è pur sempre artefice non secondario della storia, sta al partito di illuminarlo, trarlo progressivamente dalla influenza pestifera delle ideologie della guerra, rianimarlo, ricondurlo sul piano della comprensione e della lotta di classe, e convogliarne quanto più è possibile le forze per trar profitto da una eventuale situazione favorevole, che gli consenta di porre concretamente il problema della trasformazione della guerra imperialista in guerra sociale» (Onorato Damen, Alle radici della guerra, Prometeo n. 1 - 1946)
Dalla fine del secondo conflitto mondiale, centinaia di guerre localizzate hanno avuto come teatro altrettante zone geografiche, spesso tra le più importanti, sia per ragioni strettamente logistiche e strategico-militari sia per questioni squisitamente economiche. Non v'è angolo della Terra (salvo rarissime eccezioni) che, direttamente o indirettamente, non sia stato toccato dai problemi posti da tali conflitti.
Ma noi non intendiamo parlare qui delle guerre localizzate; o meglio, non vogliamo parlare solo di queste poiché se esse pur si inseriscono con piena legittimità nell'argomento del presente lavoro, potrebbero risultare, meccanicamente, il portato logico di un processo in grado, se esasperato, di trascrescere in qual cos'altro di più pericolosamente consistente.
Qui intendiamo parlare della guerra generalizzata che, se non è ancora una questione da potersi porre all'ordine del giorno, è pur tuttavia l'unica prospettiva che si porrà all'imperialismo per battere il suo principale nemico, di oggi e di sempre. Questo nemico è la crisi del sistema capitalistico a scala planetaria.
L'inasprimento costante delle rivalità interimperialistiche è figlio della crisi capitalistica che, mentre accende e moltiplica i focolai di guerra, intensifica l'attacco, a scala mondiale, alle condizioni di lavoro e di esistenza del proletariato: disoccupazione, precarietà, sottosalario, rapina dello "stato sociale".
In una parola: supersfruttamento, per rianimare saggi del profitto (1) in calo e quindi necessità di reperire quanto più plusvalore possibile per alimentare la crescente speculazione finanziaria. Aumento dello sfruttamento della forza-lavoro e guerra imperialista: sono queste le vie obbligate sempre percorse dal capitalismo per uscire dalla crisi.
Dire della gravità della crisi, della sua ampiezza, è dire una banale ovvietà. Non esiste paese al mondo che non si senta stretto dalle sue spire; non esiste governo che non si sia dato da fare, incessantemente, nel tentativo di allentare il morso dei suoi tentacoli.
Ma la crisi, di tutto ciò non ne ha voluto sapere. Ha proceduto in maniera incostante, manifestandosi ora con crolli economici ora con riprese e ripresine, ma non ha mai smesso il suo abito naturale: il suo carattere strutturale che la lega indissolubilmente alle contraddizioni del modo capitalistico di produzione pur espresso nelle sue più disparate forme (statale, privatistico, misto, ecc.).
Sulla base di tali considerazioni la guerra diventa una indubitabile realtà. È iniziata la marcia del capitalismo per preparare le condizioni di un superamento della crisi, per chiudere in modo definitivo con questo suo ciclo di accumulazione in crisi, e per poterne aprire un altro.
In questa fase, allora, anche le guerre localizzate potrebbero rappresentarsi come qualcosa di estremamente pericoloso. Esse, inserite nella più generale tendenza alla guerra imperialistica mondiale, potrebbero costituire se non le cause vere, almeno le occasioni per motivarne Io scoppio e legittimare pretestuosamente lo stato di belligeranza.
Ci si domanda spesso "può esserci una fine a questo orrore? L'avvenire dell'umanità è ridotto solo ad orizzonti bagnati di sangue?"
I comunisti internazionalisti considerano come loro dovere dire la verità, e noi sappiamo che l'uscita da questo orrendo pantano esiste solo se sappiamo la direzione da prendere e gli ostacoli da affrontare. È per questo che accusiamo il capitalista di essere il portatore di guerre e di crimini contro l'umanità. Noi affermiamo che il proletariato è l'unica forza che ha la possibilità di mettere fine a questa barbarie. Consideriamo che la lotta di classe portata sino al suo termine definitivo, il grande sovvertimento della rivoluzione proletaria, è la sola uscita possibile dal ciclo infernale guerra - ricostruzione - crisi - nuova guerra.
Indipendentemente dallo stato attuale della coscienza e delle forze in campo, noi siamo certi che non si impedirà la guerra, sia locale sia generalizzata, attraverso dei dibattiti nei Parlamenti, nei Senati e neppure alle Nazioni Unite. I primi passi per una opposizione reale sono nella comprensione del fatto che l'avvenire di guerra o di pace sarà unicamente deciso nelle fabbriche, sui posti di lavoro, nelle strade. Fino ad allora, nella perdurante serie di conflitti e guerre, l'imperialismo apparirà sempre come il vincitore reale e il proletariato internazionale - e dunque l'umanità stessa - il grande sconfitto.
I comunisti devono dire NO alle prospettive di distruzione e di morte che si delineano e si concretizzano nel mondo, giorno dopo giorno. Dire NO non vuol dire organizzare manifestazioni pacifiste o aggregazioni codine a piagnucolosi movimenti per II disarmo in nome di una Ragione da riaffermare a scapito di egoistici interessi di parte.
Dire NO significa creare l'alternativa al sistema che per sua natura è portatore di violenze e di guerre: il capitalismo. L'alternativa a tale sistema, giunto oramai alla sua fase di putrescenza, è il comunismo, realizzabile solo mediante lo scontro di classe rivoluzionario.
Tutti i rivoluzionari si dovranno sin d'ora mobilitare per organizzare da subito l'opposizione attiva alla guerra. Opposizione attiva alla guerra significa dare impulso alla lotta di classe per selezionare le energie rivoluzionarie e creare le avanguardie politiche che si dovranno mettere alla testa delle future lotte, onde dare prospettiva al corso delle stesse. Solo questa è la via da percorrere se si desidera, nei fatti e non a parole, la pace.
La "pace" di lor signori borghesi è troppo sospetta perché la classe operaia ne possa fare propri i programmi "pacifisti" per ottenerla. La pace borghese deve essere - poiché è fatta di violenza e sfruttamento - la nostra guerra, la guerra del proletariato, degli oppressi e sfruttati di tutto il mondo contro il capitale.
La guerra imperialista è il portato delle contraddizioni che il capitalismo sviluppa al proprio interno. Nessuno la vuole, ma tutti i capitalisti la attendono quale unica soluzione alla crisi. La guerra, distruggendo mezzi di produzione, merci e forze lavoro (ovvero milioni di proletari), apre la possibilità di una nuova epoca di apparente prosperità capitalista, con la ricostruzione dei paesi distrutti. In questo senso, ancora una volta, il proletariato è considerato come carne da macello: da elemento vitale, portatore di quella forza-lavoro che sola valorizza il capitale (altro che autovalorizzazione, altro che denaro che produce denaro!), a carne da cannone per le guerre del capitale stesso.
Nessun proletario dovrà rendersi complice dei misfatti dell'imperialismo. Ogni operaio cosciente dovrà impugnare la propria causa, quella della rivoluzione comunista, per mettere fuori dalla porta della storia, definitivamente, un sistema che più nient'altro ha da offrire se non miseria, fame, violenza, sopraffazione e morte.
Ma nel periodo che noi viviamo e che marcia a grandi passi verso conflitti sempre più generalizzati, saprà la classe operaia uscire dalla fase del riflusso, che dura ormai da molti decenni, per tornare ad esprimere anche se in modo elementare i propri interessi e la propria autonomia dal capitale? Saprà cioè realizzare quelle forme concrete di opposizione e di lotta che i rivoluzionari auspicano, per le quali lavorano e sulle quali poggiano le possibilità di sviluppo coerentemente rivoluzionario?
Il mito del "comunismo" russo (in realtà capitalismo di stato) è crollato, seguito da quello cinese. Condurre i proletari ad uccidere i compagni di altri paesi e a farsi uccidere, ignari del vero senso borghese di ciò che fanno o addirittura entusiasti di farlo, non sarà certo per la borghesia una tranquilla passeggiata. Beninteso, altri inganni verranno allestiti, nuove mistificazioni saranno imbastite per imbrogliare le carte e far apparire le guerre una santa crociata in nomi di altisonanti principi di "democrazia" e di "libertà", quando non addirittura per "ragioni umanitarie". Ma l'esperienza tragica precedente, lo stillicidio di conflitti localizzati gabellati come lotte del "progressismo" o del... "socialismo" contro la reazione imperialista e poi miseramente svelatesi agli occhi di tutti come massacri non certo fruttuosi di libertà e progresso - tutto questo renderà i compiti della borghesia più ardui.
Ciò non basta: non basteranno cioè le possibili lotte delle avanguardie proletarie o anche di masse considerevoli di proletari a risolvere il problema centrale della trasformazione della guerra imperialista in rivoluzione proletaria.
La tragedia del proletariato tedesco e del movimento spartachista nel periodo 1916-19, deve essere di ammonimento per tutti i rivoluzionari a non commettere il medesimo errore dei pur grandi compagni Liebnecht e Rosa Luxembourg.
Non si può lasciare il proletariato privo del suo strumento politico di guida; non si deve pensare che dalle lotte stesse scaturiranno la piattaforma e le indicazioni programmatiche della rivoluzione proletaria, né lo stato maggiore della insurrezione vittoriosa. Se i compiti della borghesia per preparare la classe operaia al suicidio sono più difficili che negli anni Trenta, sta ai rivoluzionari organizzati in Partito renderli ancora più difficili - con campagne di informazione e denuncia, che oggi, data la debolezza numerica del nostro partito e la dispersione dei rivoluzionari, possiamo solo indicare alle nostre prospettive di lavoro e di crescita - con l'organizzare e guidare il disfattismo rivoluzionario, che si concretizzerà nelle forme confacenti alle capacità e al grado di risposta della classe; in una parola, con lo svolgimento dei compiti propri al partito di classe.
Nella opposizione rivoluzionaria alla guerra, nelle lotte contro la guerra del capitale (tutti i conflitti bellici lo sono) stanno le prospettive più prossime della rivoluzione proletaria, e quindi della definitiva liberazione della società dallo sfruttamento e dai massacri del capitalismo.
(1) Caduta del saggio di profitto. La quantità del lavoro vivo impiegato nei processi di produzione diminuisce costantemente in rapporto alla quantità di capitale che viene messo in movimento dal lavoro stesso (mezzi di produzione, impianti, materie prime). Quindi la massa di plusvalore (il lavoro vivo non pagato) diminuisce costantemente in rapporto al valore del capitale complessivo impiegato. È questo rapporto che costituisce il saggio del profitto, il quale diminuisce così costantemente. L'unico modo che il capitalismo mette in atto per contrastare questa tendenziale caduta del saggio del profitto, è l'aumento, anch'esso continuamente esasperato dello sfruttamento del proletariato, della sua forza-lavoro.
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Per la ripresa della critica politica marxista della guerra e della società che la genera
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