Parte prima: La Seconda Internazionale e la guerra

Sul problema della guerra, sul come i rivoluzionari dovessero porsi di fronte ad essa, il movimento operaio, sin dal suo nascere, ha sempre mantenuto una chiara posizione che era ed è di nettissimo rifiuto; rifiuto della logica aberrante della guerra, rifiuto in quanto, soprattutto con l'evolversi della rivoluzione democratico-borghese e del processo di formazione degli stati nazionali, essa era voluta dalle classi dominanti per accrescere il loro potere.

Citazioni di Marx, di Engels e di altri grandi rivoluzionari di certo non ne mancano per dar credito a tali affermazioni. Solo la lunga mano degli opportunisti di ogni tempo ha di volta in volta modificato, o tentato di modificare, la strategia del proletariato mediante sottili "interpretazioni" del marxismo, tutte finalizzate a renderlo malleabile agli interessi particolari della classe dominante in particolari momenti storici. Gli opportunisti hanno così subito dimostrato la loro vera natura, di appartenere cioè a quello schieramento borghese che a parole dicevano di voler combattere ma che nei fatti si trovavano a difendere in maniera conseguente.

Un esempio lampante di tutto ciò è dimostrato dall'esperienza della Seconda Internazionale (1). Nonostante i dissidi interni, sul problema della guerra esisteva una certa omogeneità di posizioni all'interno del massimo organo politico della classe operaia. Così risulta dai documenti dell'epoca stilati a fronte degli atteggiamenti sempre più aggressivi dell'imperialismo in fase espansiva, che indussero lo stesso partito internazionale del proletariato ad anticipare il già annunciato congresso straordinario; congresso che si tenne nel 1912 a Basilea.

La risoluzione sulla guerra, conosciuta meglio come il Manifesto dell'Internazionale, pur lasciando irrisolta la questione sui mezzi da usare per fare la "guerra alla guerra", contribuì a chiarire la natura imperialistica di qualsiasi conflitto che da lì in avanti si fosse potuto manifestare. Soprattutto metteva in evidenza ciò che questo conflitto avrebbe sicuramente potuto provocare: "l'indignazione e la collera del proletariato di tutti i paesi" e una conseguente "esplosione rivoluzionaria".

Si legge nel testo della risoluzione:

Gli operai considerano un crimine spararsi gli uni contro gli altri per il profitto dei capitalisti o per l'orgoglio delle dinastie o per le clausole dei trattati segreti. Se i governi, sopprimendo ogni possibilità di un'evoluzione regolare, spingono il proletariato dì tutta l'Europa a soluzioni disperate, sono loro che porteranno tutta la responsabilità di una crisi da essi stessi provocata.

Il congresso si chiuse con l'impegno dell'Internazionale a moltiplicarsi suoi sforzi per prevenire la guerra con "una propaganda sempre più intensa, con una protesta sempre più ferma".

Effettivamente, nei mesi che seguirono, tutti i partiti socialisti sostenuti dai sindacati si mostrarono pronti a seguire alla lettera le decisioni di Basilea e a metterle in pratica. Nel dicembre 1912 imponenti manifestazioni operaie contro la guerra ebbero luogo in tutta Europa a fronte di una situazione che si aggravava sempre di più (crisi dei Balcani). Ma più si avvicinava lo spettro della guerra tanto meno l'Internazionale sembrava disposta a continuare nell'offensiva entusiastica che da Basilea in poi aveva caratterizzato la propria azione politica.

Si cominciò a titubare; a considerare la guerra come un pericolo scongiurato in tutto o in parte o come prospettiva remota. Si cominciarono a modificare anche i programmi che, da una più che mai decisa azione contro la guerra, si tramutarono lentamente in una sorta di programmi minimi, più "realistici", che prevedevano l'opposizione alla corsa agli armamenti e all'aumento dei movimenti militaristi e sciovinisti in Francia e in Germania, "contribuendo con ciò al riavvicinamento dei due paesi" (preludio al "grande programma... rivoluzionario" dell'unione delle tre grandi potenze occidentali: Francia, Inghilterra e Germania!).

Ecco dunque la nuova formula proposta dall'Internazionale nella primavera del 1913 e che restò il suo obiettivo sino al luglio del 1914; una vera e propria svolta che annunciava un nuovo orientamento nella politica socialista internazionale, sempre più influenzata dal revisionismo di Bernstein [] e dal riformismo divenuto dominante tanto sul piano dottrinale quanto sul piano della pratica politica.

Non bastò l'azione di una decisa minoranza rivoluzionaria (che all'interno dell'Internazionale parlava con la voce di Liebknecht, di Rosa Luxembourg e di Lenin in particolare), la quale non chiedeva "solo" un ritorno alle origini ma, soprattutto, una nuova linea risolutamente rivoluzionaria, tesa ad invertire tale linea di tendenza.

Di fronte al precipitare degli avvenimenti, l'Internazionale finse un ultimo colpo di coda. Ma il Bureau Socialiste International si riuniva senza riuscire a prendere una benché minima decisione. Una crisi gravissima, come contraccolpo di ciò che all'esterno stava succedendo, colpi l'Internazionale che laconicamente doveva dichiarare bancarotta. Una breve circolare, l'ultima, annunciava: "In seguito agli ultimi avvenimenti il Congresso di Parigi è aggiornato a data da stabilirsi".

Un lungo processo dì deterioramento giungeva alla fine; la guerra trascinava nella sua vampata distruttiva, assieme all'organizzazione mondiale del proletariato, anche la classe operaia internazionale.

I riformisti e la Prima Guerra Mondiale

La vera natura dei riformisti si ebbe a dimostrare col deflagrare della guerra mondiale. La stessa borghesia non credeva ai propri occhi quando il 4 agosto del 1914 a Vienna, Berlino, Parigi e Londra, ossia da ambo i lati dei fronti bellici, i partiti socialisti, unanimamente, votarono l'approvazione della politica di guerra e i crediti militari ai rispettivi governi. I socialisti parlamentari non solo non trovarono una sola parola di opposizione, non solo non trovarono niente da dire al proletariato se non della giustezza degli ordini dì guerra delle proprie borghesie, ma ebbero il coraggio di entrare in quei governi passati alla storia con il nome di "unione sacra". Fu il caso di Vandervelde (segretario belga dell'Internazionale) e dei socialisti francesi indifferenti alla recentissima uccisione di Jaurès (31 luglio 1914) ad opera dei nazionalisti.

In Inghilterra i laburisti appoggiarono pienamente la guerra mentre titubante si mantenne il Partito Socialista Britannico. Vi furono comunque delle eccezioni le quali dimostravano chiaramente che, a livello internazionale, non tutto il lavoro precedentemente svolto dai rivoluzionari era andato perduto. Delle eccezioni che confermavano come, pur tra errori, incoerenze e difficoltà di varia natura, il "lume della speranza rivoluzionaria" non s'era ancora completamente spento.

In Russia, tra i vari gruppi alla Duma (il parlamento zarista) i bolscevichi presero una fiera posizione di opposizione alla guerra dandosi all'agitazione in tutto il paese (per questo furono quasi tutti spediti in Siberia). Una parte, la peggiore, dei menscevichi, dei socialisti rivoluzionari e del populisti votò i crediti di guerra. Gli altri, pur non macchiandosi di tanta infamia, tennero un comportamento politico ambiguo.

Anche in Inghilterra il Partito Indipendente del lavoro (McDonald) si oppose alla guerra. Vero esempio di internazionalismo proletario fu fornito dai socialisti serbi i quali, pur operando nel paese in cui maggiormente poteva giocare il motivo della difesa nazionale, votarono contro i crediti col solo deputato che erano riusciti a mandare sulla tribuna parlamentare.

All'opposizione si tenne pure il Partito Socialista Bulgaro.

Cosa avvenne invece in Italia? Il partito italiano fu, a livello internazionale (a parte le eccezioni di cui sopra), quello "meno invischiato" nella politica di guerra della borghesia. Prima della guerra tutta la compagine direttiva del socialismo italiano si pose il problema "come impedire la guerra?". Di fronte all'avvicinarsi dell'evento bellico il problema si spostava verso il "come comportarsi?" nel caso in cui la borghesia, "per fedeltà agli impegni" fosse "costretta" a prenderne parte.

Riformisti e "socialisti moderati" (Turati in testa) scelsero la parola d'ordine dell'insurrezione rivoluzionaria. Lo stesso Mussolini, allora direttore dell'Avanti! levò il grido "abbasso la guerra" dalle colonne dell'organo di stampa del partito e si rivolse minaccioso alla borghesia con la frase: "Mobilitate! Noi ricorriamo alla forza!". La direzione del PSI lanciò a sua volta un manifesto ai lavoratori in cui si invitava il proletariato a prepararsi a sempre nuove "prove di forza".

Tutto ciò avveniva allorquando si pensava ancora ad una guerra contro la Francia. Quando per l'Italia divenne invece scontata la sua appartenenza al fronte dell'Intesa (Francia, Russia e Gran Bretagna), tutta la verve rivoluzionaria dei nostri socialisti si spense in considerazione del fatto che la Germania, contro cui si sarebbe dovuto combattere, non era... la Francia (in virtù del suo spiccato militarismo). Si puntualizzò così la differenza fra guerre di "difesa" e guerre di "aggressione", accettando nei fatti la logica stessa, quella imperialistica, da cui il conflitto si andava generando.

Il fronte dei partiti in Italia s'era così diviso in due. Da una parte i "neutralisti", dall'altra gli "interventisti". I veri oppositori alla guerra non erano un partito, erano una frazione, una minoranza pur vivace e combattiva che tentava in tutti i modi di tener desto il sentimento rivoluzionario nella coscienza delle masse proletarie.

All'interno del Partito Socialista, per la corrente di sinistra la consegna era questa: all'ordine della mobilitazione rispondere con lo sciopero generale nazionale. Era questa sinistra che, da sola, portava avanti la parola d'ordine leninista del disfattismo rivoluzionario, ossia della trasformazione della guerra imperialista in guerra civile, in guerra fra le classi per l'abbattimento del dominio del capitalismo.

Il partito socialista nel suo complesso ondeggiava; si andava cosi ad elaborare quella tattica di cui maggiore teorizzatore ed interprete fu Lazzari, sintetizzata dalla frase "né aderire, né sabotare", che nella fattispecie della situazione nessun altro significato rivestiva se non quello di invitare il proletariato ad accettare, di fatto, quella guerra come il minore dei mali, come un evento che, malgrado tutti gli sforzi, non si era riusciti ad evitare.

Per salvare l'anima vi fu l'assicurazione che mai e poi mai si sarebbe appoggiato un governo di guerra e che mai e poi mai si sarebbe sospesa l' "opposizione" del partito alla guerra. Un bellissimo esempio di moralismo "socialista"; un esempio di piagnucoloso neutralismo degno del più bel pacifismo a stampo radicaloide e piccolo-borghese.

Va ribadita, per contrasto a simili posizioni che sapevano di tradimento lontano un miglio, l'attività della Sinistra che svolgeva una critica serrata alla tattica del neutralismo.

Giustamente i rivoluzionari deploravano il disarmo della lotta di classe, disarmo che dava spazio alla guerra nazionale. L'alternativa a questa era l'esortazione a non sospendere la lotta di classe ed a combattere nella direzione della lotta rivoluzionaria, la sola che avrebbe potuto, infine, estirpare le radici della guerra tra i popoli, di ogni guerra fra proletari. Contro il neutralismo borghese si adottò la tattica dell' "interventismo di classe", dell'interventismo per la rivoluzione proletaria.

Di fronte a queste argomentazioni il partito socialista rispondeva, per bocca dei suoi deputati (tutti neutralisti), che il problema, se era risolvibile, lo era solo sul piano parlamentare. Contava infatti di "mettere in minoranza la guerra" alla Camera, alleandosi con giolittiani e cattolici. Rispondeva, ancora, per bocca dei sindacati confederali che, per esempio, uno sciopero generale sarebbe stato improponibile poiché sicuramente votato all'insuccesso.

La realtà era che i sindacati avevano proprio paura che lo sciopero riuscisse. La Sinistra ebbe modo di far notare ciò con tali, pesanti argomentazioni accusatorie:

Voi sapete che gli operai sono inferociti contro la guerra ma nonostante tutto non osate dare la parola d'ordine dello sciopero generale per impedire la mobilitazione. Non che temiate le conseguenze della repressione; non è di viltà che vi si accusa. Voi avete paura di macchiarvi di tradimento della patria.

A tal punto era radicato il pregiudizio borghese negli animi di tali solerti "socialisti' e "rivoluzionari'. E proprio alla vigilia della guerra, rincarando la dose, la Sinistra, rivolta loro, aggiunse:

Ancora una volta, o trepidi servitori del fatto compiuto, che vorreste farci leccare la mano che ci ha abbattuti ma non fiaccati, le due vie opposte si tracciano nette e precise: o fuori o dentro dal preconcetto nazionalista o verso una nuova Internazionale. La posizione di chi nell'avversare la guerra non nascondeva una doppiezza miserabile non può che essere una, oggi che la guerra è un fatto compiuto: contro la guerra per il socialismo antimilitarista ed internazionale.

Questo atteggiamento non mutò nemmeno durante la bufera della guerra e, anzi, maturò una successione di posizioni che, malgrado l'assenza di legami internazionali, si andavano sempre più ad identificare coi temi fondamentali della battaglia leninista contro la suggestione della propaganda nazionalistica e guerrafondaia - tanto più insidiosa quanto più orpellata da ornamenti democratici - nelle file del movimento operaio.

Nel 1916, sia in Italia sia - ancor più - in Germania, la classe operaia si mosse concretamente con scioperi e lotte di strada direttamente rivolte contro lo stato di affamamento e di "disagio" provocato dalla guerra che ormai da due anni insanguinava l'Europa. I rivoluzionari spartachisti (Rosa Luxembourg e Carlo Liebnecht) erano alla testa di quelle manifestazioni; della partecipazione ad esse e della loro organizzazione fecero giustamente il tratto distintivo del loro essere rivoluzionari: il loro grande errore fu tuttavia quello di sopravalutarle, attribuendo soltanto al "movimento reale" la capacità di salvare la prospettiva rivoluzionaria e addirittura di recuperare quel partito socialdemocratico di allora che della avventura bellica era stato il più prezioso sostenitore (per la borghesia). Parimenti, in Italia, il potenziale eversivo e rivoluzionario contenuto nelle manifestazioni che tanti morti costarono al proletariato (per esempio, i 50 di Torino) fu semplicemente frustrato dalla politica opportunista dell'allora unico partito operaio, il PSI.

In Germania, come in Italia, non esisteva dunque la forza partitica capace di raccogliere, coordinare e guidare verso l'omogeneo fine rivoluzionario, le spinte che pure nella classe si generavano e che, specie in Germania, i rivoluzionari potenziavano a scala locale e contingente.

La Rivoluzione d'Ottobre, unica risposta proletaria alla guerra imperialista

Si diceva sopra della battaglia leninista contro la guerra. Una battaglia impugnata da tutto il Partito Bolscevico, l'unico organo rivoluzionario che abbia saputo portare sino in fondo la sua campagna comunista contro la guerra.

È da un documento elaborato da Lenin (settembre 1914) ma firmato dal comitato centrale dell'allora denominato Partito Operaio Socialdemocratico Russo, che stralciamo i brevi brani che seguono:

Conquistare territori e asservire nazioni straniere, mandare in rovina le nazioni concorrenti e depredarne le ricchezze, deviare l'attenzione delle masse lavoratrici dalla crisi politica interna in Russia, in Germania, in Inghilterra e in altri paesi, scindere le masse lavoratrici, abbindolandole con l'Inganno nazionalistico e distruggerne l'avanguardia allo scopo di indebolire il movimento rivoluzionario del proletariato, ecco l'unico effettivo contenuto, il significato e la portata della guerra attuale.

In questo stralcio è messo in chiara evidenza il carattere borghese della guerra, indirizzata verso finalità oltre che imperialistiche anche (e soprattutto) antiproletarie. Viene denunciato l'intento della borghesia di distruggere le avanguardie politiche della classe operaia onde aver buon gioco nel far passare il ricatto nazionalistico della "difesa della patria" nelle coscienze proletarie ammorbate dalla pressione della propaganda bellica.

Alla socialdemocrazia (leggi ai rivoluzionari dell'epoca - ndr) incombe innanzitutto il dovere di svelare il vero significato della guerra e di smascherare senza pietà le menzogne, i sofismi e le frasi 'patriottiche' propagandate dalle classi dominanti, dai grandi proprietari fondiari e dalla borghesia in difesa della guerra.

E ancora:

...Ma con quanto più zelo il governo e la borghesia di tutti i paesi tentano di dividere i proletari aizzandoli gli uni contro gli altri... tanto più improrogabile diviene il dovere del proletario cosciente di difendere la sua unità di classe, il suo internazionalismo, le sue concezioni socialiste contro il baccanale dello sciovinismo della cricca borghese 'patriottica' di tutti i paesi.

Vengono qui ribaditi due concetti importantissimi: l'unità di classe e l'internazionalismo proletario. L'unità di classe del proletariato è il fine verso cui le masse sfruttate devono tendere per compattarsi contro il nemico di classe. Essa va interpretata oltre che letteralmente e come riconoscimento di affinità comuni e fondamentali fra i lavoratori all'interno dei rapporti di produzione capitalistici, anche come unità di intenti, necessariamente aggregati nel corpo omogeneo di un programma politico globale che è incarnato solo dal partito di classe rivoluzionario.

L'internazionalismo è l'estensione a livello internazionale del medesimo concetto (unità di classe) e, insieme, il riconoscimento che il proletariato, non avendo e non potendo avere patrie, non deve lasciarsi irretire da alcuna propaganda nazionalistica. Nessun proletario, di qualsivoglia paese belligerante, deve sentirsi nemico di qualsiasi altro proletario. La borghesia, e solo la borghesia, è il nemico diretto di ogni proletario cosciente.

Prende corpo nella strategia leninista la parola d'ordine: "trasformare la guerra imperialistica in guerra civile", soprattutto nel periodo pre-bellico. Il primo conflitto imperialistico mondiale fu il banco di prova su cui agitare attivamente tale indicazione, sino all'assunzione, da parte dei bolscevichi, di una grande influenza fra i soldati che cominciarono a individuare il vero carattere della guerra.

In questo periodo "il compito dei rivoluzionari di ogni paese -- scriveva Lenin -- deve essere la lotta contro lo sciovinismo del proprio paese". E quanto questa lotta sia stata portata avanti è dimostrato dalla selva di documenti di partito pervenutaci, dai grossi risultati conseguiti all'interno dell'esercito formato da proletari e contadini mandati sul fronte dalla propria borghesia a farsi massacrare da proletari e contadini di altri paesi.

L'opposizione alla guerra era per i bolscevichi una opposizione di principio.

La questione: qual è stato il gruppo che ha sferrato il primo colpo militare -- scrive ancora Lenin agli inizi del 1915 -- o che ha dichiarato per primo la guerra, non ha nessuna importanza nella determinazione della tattica dei socialisti. Le frasi sulla difesa della patria, sulla resistenza all'invasione nemica, sulla guerra di difesa, ecc., sono da ambo le parti tutti raggiri per il popolo.

Dunque rifiuto della guerra da qualunque motivazione questa possa essere generata; rifiuto inteso nel modo più attivo possibile, dichiarando "guerra alla guerra", sbandierando e praticando il disfattismo rivoluzionario che nella strategia del Partito Bolscevico si era espresso, sin dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale, con l'indicazione e l'osservanza di questi principali cinque punti:

  1. rifiuto assoluto di votare i crediti di guerra e uscita dei socialisti dai ministeri borghesi;
  2. rottura completa con la politica della "pace nazionale" (o pace civile) che considerava tutti, operai e borghesi, sulla stessa barca e, quindi, mobilitazione contro la "necessità di operare concordemente per non avvantaggiare il nemico", propagandata dagli opportunisti.
  3. creazione di organismi illegali in quei paesi nei quali il governo e la borghesia, proclamando lo stato di assedio, abolivano le libertà costituzionali;
  4. l'appoggio alla fraternizzazione del soldati delle nazioni belligeranti nelle trincee e, in generale, sui teatri della guerra;
  5. l'appoggio ad ogni specie di attività rivoluzionaria di massa del proletariato.

A questa strategia, coraggiosa di per se stessa, si assommò anche il coraggio politico di combattere contro l'opportunismo che aveva allignato all'interno di molti partiti socialisti aderenti all'Internazionale.

Su tale fronte Lenin si dimostrò categorico:

Non si possono adempiere i compiti del Socialismo, non si può costituire un'effettiva unione internazionale dei lavoratori senza rompere decisamente con l'opportunismo e senza chiarire bene alle masse l'inevitabilità del fallimento di esso.

Di cosa si fosse reso colpevole l'opportunismo di quegli anni abbiamo già detto. Aveva accettato la guerra e disarmato il proletariato di ciò di cui aveva più bisogno in quelle circostanze: della guida rivoluzionaria, del partito di classe in grado di dare le giuste indicazioni per sfuggire al macello imperialista.

Se nei periodi di pace può anche essere facile (o poco compromettente) parlare di socialismo, con l'approssimarsi di un evento bellico parlare di socialismo significa abbandonare, nei fatti, ogni legame coi pregiudizi nazionalistici evidentemente ben radicati nel cuore e nell'anima di certi "rivoluzionari" da strapazzo.

Scrive ancora Lenin:

La crisi segnata dalla guerra ha svelato l'effettiva natura dell'opportunismo, mostrandolo nella sua funzione di diretto sostenitore della borghesia contro il proletariato. Il cosiddetto 'centro' socialdemocratico, con Kautsky (3) alla testa, in realtà è ruzzolato in pieno nell'opportunismo, nascondendolo dietro frasi ipocrite, particolarmente pericolose, e spacciando l'imperialismo per marxismo. Sarebbe una illusione pericolosa sperare nella ricostruzione di una Internazionale effettivamente socialista senza una completa separazione dall'opportunismo. Il Partito Operaio Socialdemocratico Russo deve appoggiare qualsiasi azione internazionale e rivoluzionaria di massa del proletariato e sforzarsi di riunire tutti gli elementi antisciovinisti dell'Internazionale.

Gli opportunisti della Seconda Internazionale si erano dimostrati solidali con la propria borghesia. Il Partito Bolscevico si era schierato contro la "sua" borghesia fino ad augurarsene la sconfitta.

Una classe rivoluzionaria -- scrive Lenin nel luglio del 1915 -- non può, durante una guerra reazionaria, non augurarsi la sconfitta del proprio governo.

Le accuse di antipatriottismo fine a se stesso piovvero da tutte le parti, soprattutto dalle sfere degli opportunisti che vedevano la lotta per il socialismo non come lotta di classe ma come una questione privata fra forze "contrapposte" solo a livello parlamentare.

È ancora Lenin a spiegare il significato più profondo dello slogan impugnato dal Partito Bolscevico negli anni bui della guerra:

La rivoluzione in tempo di guerra è la guerra civile; la trasformazione della guerra dei governi in guerra civile è facilitata da una parte dai rovesci militari (dalla 'sconfitta') di questi governi; d'altra parte è praticamente impossibile tendere realmente a questa trasformazione senza concorrere, in pari tempo, alla disfatta

La parola d'ordine della disfatta era cosi respinta dagli opportunisti poiché era l'unica e sola parola d'ordine che fosse un appello conseguente all'azione rivoluzionaria contro la propria borghesia e il proprio governo durante la guerra.

Confutare tale parola d'ordine significava dimostrare che:

  1. la Prima Guerra Mondiale non era una guerra reazionaria;
  2. la rivoluzione, in connessione a quella guerra, sarebbe stata impossibile;
  3. sarebbero stati impossibili, in via di principio, il coordinamento e la cooperazione dei movimenti rivoluzionari in tutti i paesi belligeranti per dar carattere internazionale alla eventuale rivoluzione (quest'ultimo punto sarebbe stato per lo stesso Lenin particolarmente importante per la Russia date le condizioni di arretratezza del paese che si poneva, per tale motivo, tra i candidati alla rivoluzione in una lista di attesa particolarmente lunga rispetto ad altri paesi industrialmente più avanzati).

Cosa opponevano gli opportunisti, in mancanza di valide argomentazioni, alla parola d'ordine del disfattismo rivoluzionario? Il silenzio più assoluto; nel migliore dei casi lo slogan "né vittoria né sconfitta". Un modo come un altro per giustificare il proprio sciovinismo. Un modo per parafrasare la propaganda borghese per la quale la guerra non era indirizzata a fini imperialistici ma, "semplicemente", contro una "possibile sconfitta". Slogan questo che piacque immensamente agli opportunisti, al punto di appropriarsene in maniera definitiva e totale.

Il significato del nostro voto del 4 agosto -- scrive David, uno dei dirigenti dell'opportunismo -- è questo: non per la guerra ma contro la disfatta.

Qual'è il significato di questa parola d'ordine? Solo questo: la pace sociale in tempo di guerra, ovvero la sparizione di ogni antagonismo di classe di fronte all'antagonismo col nemico. E ancora: l'abbandono della lotta di classe da parte delle classi oppresse in tutti i paesi belligeranti poiché la lotta di classe è impossibile senza danneggiare la "propria" borghesia. E in periodo di guerra danneggiare la borghesia e il governo vuol dire tradire lo stato e cooperare alla sconfitta militare della propria patria.

L'unica politica di rottura - non a parole - della 'pace civile', di riconoscimento della lotta di classe -- scrive ancora Lenin -- è la politica per la quale il proletariato approfitta delle difficoltà del proprio governo e della propria borghesia al fine di abbatterli. Ma non si può ottenere questo, non si può tendere a ciò senza augurarsi la disfatta del proprio governo, senza cooperare a tale disfatta.

Gli sforzi per la "disfatta del proprio governo", intesa come lotta di classe rivoluzionaria, non furono lesinati dal Partito Bolscevico, il quale, unica esperienza a livello mondiale (a parte successivi tentativi andati male), riuscì a rispondere alla guerra con la rivoluzione socialista.

Ma la rivoluzione socialista, uscita vittoriosa dallo scontro di classe in un solo paese (e per di più caratterizzato da una massima condizione di arretratezza economica) non bastava da sola a metter fine ad una guerra i cui contorni geografici si propagavano a livello mondiale.

Sin dalla Rivoluzione di Febbraio, allorquando il Partito Bolscevico sentì l'imminenza del ruolo che a breve gli doveva competere, fu all'ordine del giorno lo spinoso problema: come sì può mettere fine alla guerra imperialista?

I compagni bolscevichi erano coscienti che il problema non era risolvibile, semplicemente, "piantando la baionetta per terra" e che non si poteva mettere fine ad una guerra mondiale con un semplice atto di volontà, nemmeno se questo avesse potuto interessare i rivoluzionari di tutto il mondo.

La guerra non è nata dalla cattiva volontà dei predoni imperialisti, benché si faccia senza dubbio soltanto nel loro interesse e non arricchisca che loro. La guerra è nata dallo sviluppo semisecolare del capitale mondiale, dai suoi miliardi di fili e di legami. Non si può saltar fuori dalla guerra imperialistica, non si può ottenere una pace democratica, che non sia una pace di sopraffazione, senza abbattere il potere del capitale, senza passare il potere statale ad un'altra classe, al proletariato. La rivoluzione russa del febbraio-marzo del 1917 è stata l'inizio della trasformazione della guerra imperialistica in guerra civile. È stata il primo passo verso la fine della guerra. Soltanto il secondo passo - cioè il passaggio del potere statale al proletariato - può garantirci la sua fine. Questo sarà il principio della rottura mondiale del fronte, del fronte degli interessi del capitale, e solo rompendo questo fronte ll proletariato può sottrarre l'umanità agli orrori della guerra e procurarle i beni di una pace durevole.

Lenin, "Come si può mettere fine alla guerra?", nei Compiti del proletariato nella nostra rivoluzione, aprile 1917

Tutto questo durante la fase della rivoluzione democratico-borghese. Ancora una volta vengono evidenziate le caratteristiche della guerra, la sua inscindibilità dalla società classista, i suoi legami multiformi con la realtà dell'imperialismo. La guerra vista non come prodotto della cattiveria di questo o quel borghese, di questo o quel governo, ma come il risultato del modo d'essere del capitalismo, senza l'abbattimento del quale non vi potrà essere affermazione di qualsivoglia politica di pace reale e duratura.

Le prospettive della pace stanno tutte nel trionfo del socialismo, nel passaggio del potere da una classe all'altra, nella trasformazione del modo di produzione borghese basato sul profitto in quello della soddisfazione dei bisogni dell'uomo e dell'emancipazione, col proletariato, di tutta l'umanità.

Con queste premesse si apre il fronte rivoluzionario in Russia. Sulla base di una prospettiva di pace a breve termine grandi masse di soldati si schierano coi bolscevichi e col proletariato rivoluzionario per abbattere, per la prima volta nella storia (a parte la breve e gloriosa esperienza della Comune di Parigi del 1871), il potere della borghesia e degli interessi capitalistici.

All'indomani della presa del potere, al II Congresso panrusso dei Soviet (25-26 ottobre 1917) veniva stilato un manifesto indirizzato agli operai, ai soldati e ai contadini.

Ne rileviamo qualche stralcio che ci dia un'idea, anche pallida, di come i rivoluzionari, una volta giunti alla guida di un paese, si siano comportati rispetto ai problemi posti da una guerra che, pur al suo epilogo, non mancava di porre enormi problemi di ordine economico e di ordine politico (economia disastratissima che si rifletteva negativamente sulle possibilità di intervento politico diretto alla trasformazione della società in senso socialista):

Il governo provvisorio è caduto. La maggioranza dei membri del governo provvisorio è già arrestata. Il potere sovietico proporrà una pace immediata a tutti i popoli e un armistizio immediato su tutti i fronti... Il governo statuisce: tutto il potere, in tutte le località, passa al Soviet del deputati operai, soldati e contadini, i quali debbono assicurare un saldo ordine rivoluzionario. Il congresso fa appello alla vigilanza e alla fermezza dei soldati che sono nelle trincee. Il congresso confida che l'esercito rivoluzionario saprà difendere la rivoluzione da qualunque attentato dell'imperialismo sino a che il nuovo governo non sarà riuscito a concludere la pace democratica ch'esso propone immediatamente a tutti i popoli. Il nuovo governo prenderà tutte le misure per assicurare tutto il necessario all'esercito rivoluzionario attuando una politica risoluta di requisizione e di imposte a carico delle classi abbienti. Esso migliorerà anche la situazione delle famiglie dei soldati... Soldati, operai, impiegati! Le sorti della rivoluzione e della pace democratica sono nelle vostre mani! Evviva la Rivoluzione!

Nel medesimo congresso v'era stata letta una Relazione sulla pace che lo stesso Lenin aveva presentato sotto forma di dichiarazione da far pubblicare al nuovo governo rivoluzionario. Dal famoso Decreto sulla pace ecco qualche eloquentissimo stralcio:

Il governo operaio e contadino, creato dalla rivoluzione il 24-25 ottobre e forte dell'appoggio dei Soviet dei deputati operai, soldati e contadini, propone a tutti i popoli belligeranti e ai loro governi l'immediato inizio di trattative per una pace giusta e democratica.
Il governo considera come pace giusta e democratica, alla quale aspira la schiacciante maggioranza degli operai e delle classi lavoratrici di tutti i paesi belligeranti, sfinite e martoriate dalla guerra, la pace che gli operai e contadini russi esigevano nel modo più deciso e tenace dopo l'abbattimento della monarchia zarista, una pace immediata senza annessioni (cioè senza la conquista di terre straniere, senza l'annessione forzata dì altri popoli e senza indennità).
Questa è la pace che il governo della Russia propone a tutti i popoli belligeranti di concludere immediatamente, dichiarandosi pronto a compiere senza indugio, subito, tutti i passi decisivi sino alla rettifica definitiva di tutte le proposte di pace da parte delle conferenze, investite dl pieni poteri, dei rappresentanti del popolo di tutti i paesi e di tutte le nazioni...
Il governo abolisce la diplomazia segreta ed esprime, da parte sua, la ferma decisione di condurre tutte le trattative in modo assolutamente pubblico, davanti a tutto il popolo...
Il nostro appello deve essere rivolto ai governi e ai popoli. Noi non possiamo ignorare i governi perché altrimenti si ritarderebbe la possibilità di concludere la pace e un governo popolare non può fare questo... Proponendo di concludere subito un armistizio noi ci rivolgiamo agli operai coscienti di quei paesi che hanno fatto molto per lo sviluppo del movimento proletario...
Il movimento operaio avrà il sopravvento e aprirà la via della pace e del socialismo

Se la Russia rivoluzionaria non aveva potuto, da sola, porre termine ad una guerra che attendeva invece a ben più mediate soluzioni diplomatico-militari a livello imperialistico, fu altresì la sola voce levatasi contro l'atroce evento e la sola occasione, portata a compimento, del proletariato di metter fine alla dialettica capitalistica che vede nella guerra l'unica risposta possibile e l'unica soluzione alle sue crisi strutturali.

Seconda Guerra Mondiale: rivoluzionari e stalinisti

L'impossibilità di affermare la rivoluzione nel mondo, dopo il fallimento della esperienza sovietica (4), condusse il proletariato internazionale, vent'anni più tardi, verso un'altra agghiacciante prova, da subire per gli interessi del capitale e della borghesia imperialista.

Di fronte alla Seconda Guerra mondiale, il proletariato si trovò del tutto disarmato, vittima di una controrivoluzione che, trovata nello stalinismo in Russia la sua espressione più organica, aveva posto la Russia stessa a guida del gregge verso il macello mondiale. Non solo lo stalinismo, come tutta la vecchia socialdemocrazia, accettò la guerra, ma si fece primo alfiere di essa in nome della democrazia e del socialismo contro il nazi-fascismo. Le enormi masse proletarie che dovevano essere portate al massacro, vedevano ancora nella Russia la "patria del socialismo", e nelle sue indicazioni (diffuse servilmente dai vari partiti nazional-comunisti) vedevano le indicazioni per la propria emancipazione. Questo, e solo questo, spiega l'assenza di significativi moti contro la guerra alla vigilia e durante il secondo conflitto mondiale. L'opposizione veniva, e poteva solo venire, dalle esigue minoranza rivoluzionarie rimaste vitali dopo il crollo e lo sfascio politico, dottrinario e organizzativo del movimento comunista che faceva capo alla Terza Internazionale.

Così come nella prima guerra mondiale la classe si era trovata senza una guida politica (in Italia il partito rivoluzionario nacque in ritardo, solamente nel 1921) anche allo scoppio del secondo conflitto imperialistico mondiale, la situazione, da tale punto di vista, non si presentava certamente migliore. Il partito di Livorno, ormai assorbito dalla controrivoluzione internazionale, come gli opportunisti della II Internazionale, appoggiò la guerra nella veste mistificatoria dell'antifascismo e della conquista "rivoluzionaria" della democrazia.

Gli insegnamenti leninisti secondo i quali poco importa distinguere fra guerre di "difesa" o guerre di "aggressione", furono completamente ignorati. Il nuovo capo carismatico, era ormai l'affossatore delle poche conquiste rivoluzionarie della Russia nata dall'Ottobre, l'edificatore di quei capitalismo di stato noto per i suoi odiosi metodi repressivi e antioperai, l'apologeta della teoria del "socialismo in un solo paese": Giuseppe Stalin. (5)

La mistificazione fu stavolta assai più sottile. All'odioso fascismo fu facile rispondere con una lotta diretta, non più finalizzata alla difesa della patria (concetto non in disuso ma certamente poco adatto alla mobilitazione del proletariato dopo l'esperienza della prima guerra mondiale e della demagogia fascista che lo aveva fatto proprio), ma alla conquista della democrazia, intesa come prima tappa di un processo "rivoluzionario" avente come sbocco la "conquista del potere" e, quindi, la costruzione del socialismo.

I sentimenti antifascisti del proletariato, accentuati oltre che da un regime militare strettamente repressivo (incarnato dai manutengoli della borghesia in camicia nera), anche e soprattutto dall'invasione dell'esercito dí Hitler di cui era ben nota la sanguinarietà e i presupposti razzistici della sua ideologia (il nazismo), furono incanalati nell'alveo unidirezionale di una lotta di liberazione contro l'invasore, principale ostacolo alle prospettive della conquista della democrazia e, con essa, del socialismo.

È inutile spiegare del carattere borghese della lotta di resistenza cui parteciparono tutte le forze politiche, che andavano dai liberali dei Rosselli ai "popolari" di don Sturzo, dai socialisti di Nenni e Saragat ai nazional-comunisti di Togliatti e compagni. Tutte quelle forze fondatrici della Repubblica e di quel corrotto regime parlamentare con cui s'è gestito, e si sta ancora gestendo, il presente ciclo di accumulazione capitalistico (o, meglio, la sua crisi).

Cos'era il fascismo? Alla domanda si risponde a seconda del punto di vista, borghese o rivoluzionario, da cui ci si pone.

Ai rivoluzionari: competeva allora la spiegazione del fascismo era un movimento di reazione borghese con cui:

  1. sfiancare la combattività della classe operaia mediante sistemi autoritari e violenti;
  2. distruggere le avanguardie politiche rivoluzionarie con le quali il proletariato avrebbe potuto far trascrescere le lotte in un assalto rivoluzionario finalizzato all'abbattimento del potere borghese;
  3. riassestare, mediante una massima centralizzazione, una economia dissestata e poco docile agli interessi delle classi dominanti;
  4. preparare le condizioni del superamento della crisi attraverso una nuova avventura bellica generalizzata.

Per gli opportunisti il fascismo si configurava invece come una sorta di trionfo della irrazionalità umana che aveva alla base una caratterizzazione sociale borghese. Il pensiero borghese, per gli opportunisti, è però dualistico: da un lato vi è la parte reazionaria, dall'altra vi è quella progressista. Dalla prima scaturiscono le spinte e i ritorni all'indietro (appunto la reazione e il fascismo) che fanno girare all'incontrario l'orologio della storia; dalla seconda scaturiscono invece i presupposti, purché controllati, guidati e incalzati dalle "forze sane della società", del progresso umano, sociale ed economico. insomma, la prima è negatrice delle possibilità di conquista del "socialismo", la seconda ne è un basilare punto di partenza.

Il pensiero progressista sarebbe così estensivo da comprendere nel proprio corpo la stessa ideologia riformista che pure è alla base di un particolare modo di essere "rivoluzionari" e "comunisti". Dove, insomma, finisce il pensiero borghese, pur "progressista", e dove inizia invece la sua antitesi dialettica, il pensiero rivoluzionario? Per gli opportunisti non v'è soluzione di continuità; la rivoluzione è "un processo" che diviene per via evoluzionistica, con scossoni a volte, ma mai per rotture.

Risulta evidente come la lotta al fascismo fosse destinata a contrapporre due momenti particolari dell'interpretazione del conflitto di classe. Per i socialdemocratici la contrapposizione si limitava alla sfera del pensiero borghese che metteva in antitesi le forze del "regresso storico" con quelle delle cosiddette "spinte in avanti", conducenti via via verso la libertà, le conquiste sociali e il socialismo (inteso come una trascendenza indolore, lo ripetiamo, del regime democratico-borghese verso un nuovo assetto sociale negatore delle "possibilità di sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo").

Per i rivoluzionari la contrapposizione selezionava drasticamente gli schieramenti in due campi opposti: il campo borghese e quello proletario. campo borghese comprendeva tanto il fascismo - visto come il risvolto autoritario del modo d'essere del capitalismo - quanto le forze che a questi si contrapponevano, in virtù del fatto che si rappresentava ormai, lo stesso fascismo, come un involucro politico troppo stretto e poco adatto a contenere le forze sociali e produttive che si erano sviluppate al proprio interno.

Essere comunisti non significava insomma solo essere antifascisti. Essere comunisti significava fare della lotta contro il fascismo la lotta contro tutto il sistema borghese. Significava contrapporsi anche e soprattutto a quelle forze che aspiravano ad un diverso modo di gestire la politica del capitale, in veste di democratici (più o meno blandi, più o meno radicali) o ín veste di riformisti non disposti a rompere col sistema capitalistico, ma abituati invece semplicemente all'utilizzo di teorie evoluzionistiche e pacificatrici (è noto l'appello di Togliatti a tutti i fascisti "puri" ingannati dalla politica guerrafondaia di Mussolini), atte alla modificazione delle più stridenti iniquità con cui il capitalismo è solito manifestarsi. Il socialismo si trasformerebbe così da nuovo sistema globale di produzione ed emancipazione umana (da fare scaturire come sintesi del conflitto fra le classi) in un semplice problema di distribuzione in cui vige una "legge" contenuta nella presente considerazione: il capitalismo è dominato da forze "cattive" che per egoismo provocano violenze ed iniquità d'ogni sorta, quindi modifichiamo le strutture entro cui tali forze hanno agio di proliferare ed occupiamoci di un "nuovo" modo di distribuire il reddito nazionale e il prodotto del lavoro umano. A parte le esemplificazioni cui ci siamo lasciati andare per pure ragioni di sintesi, per gli opportunisti il socialismo è solo questo. Si confonde cioè la lotta contro il capitalismo con la lotta per un... capitalismo migliore.

Nel caso del PC italiano v'era però molto di più. Esso si rappresentava ormai come il lungo braccio di una Russia che aveva attuato sino in fondo i temi economici e politici della propria degenerazione controrivoluzionaria e che, pertanto, si era attestata sul modello economico di un capitalismo di stato assurto a sinonimo di socialismo.

La Russia, oltre che attestarsi come paese capitalista, era venuta via via assumendo anche il ruolo di grande potenza; una grande potenza che a guerra finita spartirà il mondo con i suoi concorrenti imperialisti. Il PCI fu il lungo braccio del versante russo dell'imperialismo e il suo ruolo, al fine di far cadere sotto l'influenza sovietica molti paesi dell'Europa occidentale, non fu di poco conto. Il tentativo, come si sa, risultò storicamente "mal riuscito" nonostante gli strenui tentativi dei vari Togliatti e compagni di far rincorrere ai proletari il "sogno" di quel "socialismo" di cui "mamma Russia" era l'incarnazione per eccellenza.

Il ruolo degli opportunisti non fu di poco conto nemmeno verso l'attivazione di certe tendenze nel movimento operaio, volte a debellare qualsiasi elemento perturbatore: tutte le opposizioni vennero criminalizzate. Il dovere di ogni "combattente per la libertà" era divenuto quello, prioritario, di debellare il cancro del trotzkismo che si era venuto ad infiltrare nelle varie organizzazioni partigiane.

L'opposizione trotzkista fu l'unica opposizione "di sinistra" che ebbe respiro internazionale. Per quanto non rifiutasse la logica dei blocchi partigiani, per quanto non ritenesse la Russia un paese imperialistico ma, semplicemente, uno "stato operaio degenerato" (pertanto da appoggiare e difendere), essa fu combattuta aspramente per essere di ostacolo alla politica rozzamente controrivoluzionaria di Stalin e delle forze dello stalinismo.

In Italia - dove ancora era forte il ricordo glorioso del partito comunista fondato a Livorno nel 1921 dalla Sinistra italiana - la lotta dei nazionalcomunisti di Togliatti alle opposizioni, assunse la denominazione di lotta alla "canaglia bordighista" la quale fu oggetto degli epiteti più calunniosi e menzogneri. La Sinistra comunista italiana (e le sue appendici all'estero), di volta in volta e a seconda delle circostanze, fu presentata come agente dell'Ovra o della Gestapo, oppure, durante i patti militari di non aggressione fra Hitler e Stalin, come agente dell'imperialismo anglo-americano.

L'accusa di "provocazione" era quanto di meno ci si potesse aspettare. Ma non ci si limitò solo a questo. I fucili furono levati, producendo numerose vittime, contro i militanti rivoluzionari della sinistra comunista; contro quei compagni che, sparuta avanguardia, avevano tentato di dare un carattere classista alla guerra di liberazione, creando il Partito Comunista Internazionalista, l'unica risposta di classe organizzativa, teorica e programmatica, alla guerra imperialista in corso. Due nomi per tutti: Fausto Atti e Mario Acquaviva, vigliaccamente assassinati dagli sgherri stalinisti. (Vedi in proposito il nostro quaderno "Lo scontro degli internazionalisti con lo stalinismo, e le sue vittime").

(1) La Seconda Internazionale fu fondata a Parigi nel 1889 non più, come la Prima, sulla base di una organizzazione centralizzata, ma come una sorta di libera federazione di autonomi gruppi socialisti nazionali. Nel 1900 a Bruxelles si formò una segreteria permanente, il Bureau Socialiste International (BSI), ma solo nel 1905 la Seconda Internazionale si dotò di una struttura centrale effettiva. Dopo l'affermarsi della tendenza "patriottica", sostenuta in particolare dai socialdemocratici tedeschi, gli unici momenti di un residuo internazionalismo si ebbero durante i convegni di Zimmerwald (1915) e di Kienthal (1916). Promossa dai socialisti italiani, la conferenza di Zimmerwald produsse soltanto un manifesto di generica condanna del conflitto mondiale, con l'invito ad una pace "senza annessioni e senza indennità".

La terza Internazionale fu fondata nel marzo 1919 a Mosca, come "partito comunista unitario mondiale" e la Sinistra italiana, con Bordiga, vi partecipò contribuendo ala stesura delle "21 condizioni di ammissione", Dopo i primi tre Congressi, cominciò la sua subordinazione agli interessi nazionali russi, ideologicamente giustificati con la necessità di difendere "il paese del socialismo". Da allora si succedettero continui e repentini "adeguamenti tattici" che, alla fine degli anni Trenta, si tradussero in svolte di 180 gradi rispetto anche a precedenti impostazioni. Dalla improvvisa fine dei tanto declamati Fronti popolari del 1935, in Spagna e Francia, alla firma del patto di non aggressione nazi-sovietico, dall'ambiguo periodo della neutralità sovietica alle affannose giustificazioni dell'internazionale, sottomessa alle esigenze della politica estera dell'URSS. La stessa lotta "antifascista" subì una battuta di arresto. La guerra in corso viene prima definita "guerra imperialista" e poi, dal giugno 1941, la musica cambia: si lanciano addirittura i "fronti nazionali': la guerra ha cambiato natura, anzi, non è mai stata imperialista! Infine, per facilitare la ormai stretta collaborazione con i "democratici" alleati anglo-americani, la Terza Internazionale - che nulla aveva più a che vedere con quella del suo I e II Congresso - verrà ufficialmente sciolta.

(2) Bernstein fu il maggiore teorico del revisionismo marxista e il principale punto di riferimento per il riformismo europeo. Confutando la tesi del crollo finale del capitalismo (attribuendola al "pensiero" di Marx), e dichiarando sbagliata la previsione della proletarizzazione e scomparsa dei ceti medi (anch'essa attribuita falsamente alle "ipotesi" di Marx), contrappose alla prospettiva rivoluzionaria l'azione riformatrice di un partito socialista parlamentare inserito nel quadro dello Stato democratico-borghese. Strettamente collegato a queste teorizzazioni revisioniste, il riformismo si affermerà con il rifiuto della strategia rivoluzionaria in favore di una graduale modificazione sia dell'assetto socio-economico sia delle strutture dello Stato. La strada da percorrere era quella democratica del confronto parlamentare e dell'assunzione di dirette responsabilità governative.

Mai come nei periodi di crisi, il riformismo finirà col mostrare la sua impotenza a risolvere i problemi dell'umanità sfruttata e oppressa, in mondo condotto sempre più vicino alla distruzione. Geneticamente incapace di capire i meccanismi del capitale, il riformismo (anche nelle sue espressioni più... radicali) si illude e illude su una impossibile esistenza di un capitalismo dal volto umano (commercio equo e solidale, reddito di cittadinanza, ecc.); si inganna e inganna sulla reale natura dello Stato e della democrazia borghesi, favorendo - sia pure involontariamente - feroci repressioni di massa (Genova 2001), su una possibile Europa più democratica e pacifica degli USA. Un riformismo, infine, che pensa di recuperare e di integrare (quando invece è il contrario) alla sua strategia quegli stessi sindacati che - a livello europeo e mondiale - hanno accettato e imposto al mondo del lavoro salariato quell'attacco comunemente chiamato neoliberismo, e appoggiato la guerra nel Kossovo.

Dunque, non la società civile, non un diverso (?!) uso delle istituzioni borghesi e dei partiti della sinistra parlamentare, non fantomatiche "moltitudini', che semplicemente sfilano per le strade, possono contrastare efficacemente guerra e sfruttamento: solo la lotta di classe di parte proletaria nelle fabbriche, nei luoghi di lavoro, nelle piazze, una lotta autenticamente organizzata, fuori e contro ogni logica sindacale, può farlo. Solo un partito rivoluzionario a scala internazionale, che abbia fatto criticamente i conti con lo stalinismo e le sue eredità, può indicare il percorso per un mondo diverso e migliore.

(3) Kautsky, già segretario di Engels a Londra, redasse il programma della socialdemocrazia tedesca (Erfurt, 1891) contro le idee revisionistiche di Bernstein e fu contrario alla partecipazione dei socialisti a governi borghesi, facendosi difensore della "ortodossia" marxista in Germania. Nel 1917, ritrovandosi con Bernstein nella opposizione alla prima guerra mondiale, assunse un atteggiamento profondamente critico verso la Rivoluzione bolscevica in Russia, opponendosi alla dittatura proletaria e non aderendo alla Terza Internazionale. Finirà su posizioni riformiste e, dopo esser fuggito dalla Germania nazista, morì ad Amsterdam nel 1938.

(4) Motivi di spazio non cl consentono di dilungarci oltre sul problema, importantissimo, delle ragioni del fallimento della rivoluzione russa. Rimandiamo alla vastissima letteratura di partito da cui citiamo Prometeo n. 5, 1981 (Kronstadt, Analisi senza complessi di un sollevamento popolare nella Russia dì Lenin).

(5) Sullo stalinismo può essere richiesta una abbondante bibliografia di partito. Citiamo qui la raccolta di saggi nel volume "I nodi irrisolti dello stalinismo alla base della perestrojka" - Edizioni Prometeo.