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Home ›Sciopero del 18 Ottobre: alcune valutazioni
Lo sciopero sindacale del 28 ottobre scorso è riuscito dato che la partecipazione dei lavoratori è stata massiccia. Indubbiamente l'accumularsi di tensioni, tensioni generate da oltre un decennio di attacco frontale al salario, al posto di lavoro e alle norme che lo regolamentano, li rendono disponibili alla lotta e alla mobilitazione. Essi, generosamente, ancora una volta hanno risposto positivamente alla chiamata nonostante tutti gli accordi tra imprese, governo e sindacati che in questi anni hanno colpito come una mannaia proprio il mondo del lavoro: dalla demolizione di tutti gli automatismi di tutela e progressione salariale (scala mobile e scatti di anzianità), alla pianificata perdita di potere d'acquisto per effetto del contenimento degli aumenti contrattuali entro i rigidi limiti dei tetti di inflazione programmata, allo smantellamento di ogni tutela normativa finalizzato ad avere una forza-lavoro flessibile e ricattabile. Ebbene tutto ciò è stato sempre realizzato con la cosiddetta concertazione sindacale cioè con quella compartecipazione delle confederazioni alla realizzazione di quel particolare aspetto della politica economica che mira a stabilizzare, controllare e contenere il costo del lavoro nella produzione e dei servizi all'interno dei rigidi binari imposti dalla concorrenza internazionale. Questa politica, di vitale importanza per il capitale nell'attuale fase oligopolistica, è stata più volte citata dalla borghesia internazionale dei paesi europei più avanzati come un invidiabile modello che ha permesso all'economia italiana di sopravvivere nell' attuale aspra concorrenza dei mercati globali. Il plauso al sindacato italiano è stato unanime e gli ha riconosciuto l'indubbio merito di aver permesso all'Italia di restare nell'Europa e di reggere lo scontro sui mercati.
È evidente quindi la contraddizione tra una grande adesione dei lavoratori allo sciopero sindacale e la politica stessa di coloro che lo hanno organizzato. Eppure così è stato; la partecipazione e il conseguente sostegno alle parole d'ordine sindacali hanno confermato quanto anticipavamo nello scorso numero del giornale e cioè che " il mondo del lavoro salariato e dipendente, per quanto generosamente disposto alla lotta, ancora una volta porterà i suoi colpi a vuoto se rimarrà prigioniero delle sue illusioni". Quindi se è positivo costatare la disponibilità a opporsi alle dure politiche economiche di questi anni, non si può non costatare che la mancanza di una opposizione di classe organizzata fa sì che questa disponibilità sia esclusivamente utilizzata dal sindacato, in particolare dalla Cgil, per realizzare i suoi obiettivi di lotta politica. Non dobbiamo mai dimenticare che dietro lo scontro verbale di Cofferati o dell'attuale Epifani contro l'attuale governo si nasconde un programma di ulteriore pesante attacco al mondo del lavoro dato che i problemi che dovevano essere risolti con i sacrifici dei lavoratori non hanno avuto soluzione e, anzi, risultano ancora più gravi di prima. L'esempio della Fiat è lì a dimostrare come le ristrutturazioni, il peggioramento salariale, i precedenti licenziamenti, la precarizzazione del lavoro e il salario da fame degli ultimi arrivati in fabbrica, hanno solo consentito in questi anni all'azienda di ingrassare, di distribuire profitti agli azionisti e di accumulare nel frattempo anche debiti enormi; invece ai lavoratori hanno fatto solo tirare la cinghia. A cosa sono serviti allora i sacrifici? Solo a ritrovarsi in mezzo alla strada con pochissime prospettive di reinserimento nel mercato del lavoro.
Dunque il fatto della vasta partecipazione allo sciopero non deve trarre in inganno; non si tratta di una ritrovata capacità del proletariato di difendersi ma di una manifestazione del suo disagio tutta strumentalizzata dal sindacato. Senza la capacità da parte dei lavoratori di far emergere chiaramente, anche se inizialmente in forma minoritaria, una chiara rottura con le politiche borghesi che albergano tra le sue fila per opera del sindacato, tutta l'energia della loro mobilitazione finirà per essere sprecata e utilizzata dall'avversario di classe.
Lo stesso discorso vale per il sindacalismo di base nelle sue diverse forme. Esso non ha una politica realmente alternativa a quella sindacale dato che per la sua natura è fermamente ancorato a una visione riformista della società. I suoi obiettivi sono limitati e ricalcano quelli del sindacalismo ufficiale dell'epoca passata quando era possibile strappare qualche briciola al capitalismo; oggi sono del tutto inadeguati perché la crisi economica, molto grave, produce solo riforme e cambiamenti in aperto contrasto con gli interessi dei lavoratori. Il suo rivendicazioni --
smo, presentato a volte in veste radicale, non ha alcuna possibilità di vittoria e rappresenta l'ennesima illusione di poter perseguire qualche miglioramento all'interno di un sistema economico che mostra solo capacità di produrre mostruosità sociali. Per questo il neo sindacalismo rappresenta un vero pericolo per i lavoratori; non è positivo che esso riesca ad attrarre una parte dei lavoratori in sciopero. Significa solo che ancora nuove energie e disponibilità alla lotta vengono bruciate e, soprattutto, distolte dalla possibilità che siano attratte da un polo autenticamente rivoluzionario che stenta ancora ad emergere tra le file dei lavoratori. Questo è tanto più vero quando si confrontano nelle assemblee, oggi accade ancora sporadicamente, le parole d'ordine del sindacalismo di base con quelle dei militanti rivoluzionari: le prospettive sono antitetiche, le rivendicazioni opposte, i modi per realizzarle sono in antagonismo. Mentre il neo sindacalismo punta alla mobilitazione per conquistare forza e riconoscimento ufficiale delle istituzioni, in una: per rifondare una nuova organizzazione sindacale, i comunisti operano perché la mobilitazione si sviluppi in aperta rottura proprio col sindacalismo e affinché essa acquisisca la piena coscienza che il sistema non è riformabile, che quest'ultimo oggi non può che produrre drammi sociali e che esso merita solo di essere sostituito con un altro. Quando queste due visioni antitetiche si traducono in azioni rivolte alla classe, esse mostrano la loro inconciliabilità. Mentre il sindacalismo di base scimmiotta in tutto e per tutto l'organizzazione sindacale ufficiale e non pone il problema di una aperta rottura con le politiche economiche che vedono l'impresa capitalistica come il fulcro dell'intera società, la tattica comunista si sforza di far capire che ogni lotta economica, che pur deve essere assolutamente fatta, deve ancorarsi ad una prospettiva politica più ampia, alla prospettiva di instaurare un sistema economico in cui lo sfruttamento non deve esistere più.
Per tutto ciò non ci si può illudere che una certa combattività espressa nelle manifestazioni proprio dalla sinistra sindacale sia utile al mondo del lavoro. Tra l'altro sono anche lontani i momenti in cui essa in piazza produceva un dissenso aperto e chiassoso contro i leaders sindacali. Oggi, a differenza di qualche anno fa, non avviene neanche più questo e l'arretramento politico anche da questo punto di vista è evidente.
Cosa fare dunque? Bisogna limitarsi alla constatazione dell'arretratezza politica del movimento? No di certo. Oggi grossi problemi si pongono ai lavoratori; c'è l'attacco della Fiat al posto di lavoro e ci sono migliaia di operai e impiegati dell'indotto senza alcuna tutela. Nei prossimi mesi c'è tanto lavoro da fare per tentare di sottrarre i lavoratori alle sgrinfie dei sindacati e del sindacalismo di base.
clBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #11
Novembre 2002
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