La decennale crisi del Giappone

Secondo le previsioni ottimistiche degli economisti borghesi, il 2002 doveva rappresentare l'anno della riscossa per l'economia giapponese, il punto di svolta per un paese che fino alla metà degli anni ottanta sembrava destinato a superare nell'ordine delle gerarchie economiche gli stessi Stati Uniti. Sono bastati solo tre mesi per frenare i facili entusiasmi della borghesia e dimostrare come la recessione dell'economia giapponese non sia affatto finita, anzi gli effetti più devastanti dal punto di vista economico-sociale debbono ancora manifestarsi.

Quando agli inizi del decennio scorso è scoppiata la bolla speculativa giapponese gli economisti borghesi si sono subito affrettati nel sottolineare come la crisi avesse carattere contingente ed addirittura salutare. Infatti, i mercati finanziari ed immobiliari erano cresciuti negli anni ottanta in maniera esponenziale portando alle stelle i valori delle azioni e soprattutto degli immobili giapponesi; una caduta di tali valori dopo anni di ascesa non poteva che far bene al mercato, qualche mese di ribassi e poi di nuovo all'insù. Questo è quello che pensava la borghesia internazionale e nipponica in particolare, nella realtà mai previsione è stata così errata e falsa perché errati e falsi erano gli approcci metodologici degli economisti borghesi alla crisi giapponese. Quella che sembrava agli occhi della borghesia una semplice crisi contingente si è rilevata la più grave recessione del Giappone dalla fine della seconda guerra mondiale. Una recessione che trova le proprie origini sia in contraddizioni interne ma soprattutto nella più generale crisi del capitalismo mondiale, e che nel Giappone ha uno dei punti più critici dell'intero sistema.

Nell'ultimo anno con l'aggravarsi della situazione dell'economia mondiale in Giappone le enormi capacità produttive, già notevolmente sotto-utilizzate, sono ulteriormente frenate. Per un paese come quello del Sol Levante, la cui economia è strutturata verso le esportazione, la domanda internazionale è un fattore importantissimo negli equilibri macro economici; infatti, se l'economia mondiale si trova in una fase espansiva i vantaggi per il Giappone sono enormi, viceversa se l'economia internazionale batte la fiacca, come negli ultimi 24 mesi, per l'economia nipponica sono veramente guai. La seconda potenza economica mondiale vive la stridente contraddizione di essere la più potente macchina industriale del pianeta ma nello stesso tempo di dipendere dal mercato internazionale, in particolare dagli Stati Uniti. Nelle fasi in cui la domanda internazionale tende a contrarsi l'unico strumento che possiede il Giappone per bilanciare questa situazione di crisi è la svalutazione della propria moneta. Nell'ultimo anno lo yen si è svalutato rispetto al dollaro del 14%, grazie ad una maxi vendita di yen da parte del governo nipponico per un ammontare pari a 24 miliardi di dollari.

Nonostante la svalutazione della moneta giapponese, le esportazioni negli ultimi 12 mesi si sono contratte pericolosamente; per fare un solo esempio l'export nel settore trainante delle macchine utensili è diminuito nel corso del 2001 addirittura del 40%. Tale risultato ha inciso negativamente sulla produzione industriale del paese tanto che lo scorso anno è stato toccato il punto più basso negli ultimi 14 anni.

La scelta della borghesia giapponese di svalutare lo yen se da un lato è funzionale ai suoi interessi immediati, per rendere più competitive le proprie merci sui mercati internazionali, da un altro punto di vista accresce la dipendenza giapponese dagli altri poli imperialistici. Infatti, se la politica della svalutazione monetaria nel breve periodo riesce a dare dei vantaggi al capitalismo giapponese, grazie appunto ad una maggiore competitività delle proprie merci sui mercati mondiali, nel medio e lungo periodo rischia di determinare una preoccupante dipendenza dagli Stati Uniti da un punto di vista finanziario. Dopo lo scoppio della bolla speculativa dei primi anni novanta e i successivi e continui tagli ai tassi d'interesse nipponici, l'enorme massa di capitale finanziario giapponese non trovando impieghi remunerativi sul territorio nazionale è stata investita sui mercati statunitense. Nell'ultimo decennio si è così creato un meccanismo in base al quale gli investitori giapponesi hanno finanziato l'enorme debito pubblico americano e nello stesso tempo alimentato la crescita del mercato borsistico statunitense. La scelta strategica degli Stati Uniti di imporre il proprio dominio sul terreno finanziario, liberalizzando completamente le contrattazioni azionarie e creando di sana pianta nuovi strumenti d'investimento altamente speculativi, come per esempio i futures, ha imposto agli altri paesi di ubbidire alla logica di dominio statunitense. Le prime vittime di tale strategia sono stati paesi come il Messico, il Brasile, la Russia, la Turchia e per ultima l'Argentina. Il fallimento di questi paesi, pur nelle diverse realtà nazionali, è stato determinato dalla scelta delle proprie borghesie nazionali di ancorare le proprie economie al dollaro e quindi all'economia e finanza statunitense. Le necessità americane di drenare capitali da ogni angolo del pianeta ha imposto al resto del mondo di uniformarsi alle proprie scelte, sia esportando capitali negli Stati Uniti sia attraverso la politica della dollarizzazione dell'economia.

Il Giappone per tutto un periodo ha avuto interessi convergenti con gli Stati Uniti, in quanto da un lato conveniva svalutare la propria moneta per aumentare le esportazioni verso gli USA, dall'altro interessava attrarre nel proprio ambito l'enorme massa di capitali nipponici. Dopo dieci anni di crisi dalla quale non riesce a tirarsi fuori, il Giappone si trova ora davanti al pericolo di vedersi risucchiato totalmente nell'orbita statunitense, con la conseguenza di assistere ad un forte ridimensionamento del proprio peso imperialistico internazionale. Se gli europei per opporsi al dominio incontrastato del dollaro hanno dato vita all'euro e costituito nello stesso tempo un mercato di 300 milioni di potenziali consumatori, il Giappone non solo non ha un mercato interno di dimensioni sufficienti ad assorbire l'enorme capacità produttiva ma svalutando la propria moneta per assecondare il proprio apparato produttivo, pur essendo il maggior risparmiatore del pianeta, rischia di perdere la propria autonomia finanziaria. Se aggiungiamo che l'area regionale di riferimento giapponese, il sud-est asiatico, è letteralmente in ginocchio dopo la crisi del 1997, possiamo immaginare le difficoltà del Giappone nel costituire uno spazio economico sufficientemente grande nel quale esercitare il proprio dominio imperialistico.

Nell'attuale fase del capitalismo possedere una moneta in grado di contrastare il dominio del dollaro significa anche poter disporre di uno strumento in grado di accaparrarsi di una quota importante di rendita finanziaria internazionale. Il Giappone con le sue continue svalutazioni monetarie, nel breve periodo ha dei vantaggi nelle maggiori esportazioni, ma alla lunga è destinato a perdere la sfida sul terreno finanziario con conseguenze catastrofiche anche per gli stessi Stati Uniti.

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Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.