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Corea del Sud
I lavoratori del settore dell'energia in sciopero in Corea del Sud hanno rifiutato l'ultimatum del governo che intimava loro di tornare immediatamente al lavoro oppure andare incontro al licenziamento. L'ultimatum era parte dei più ampi provvedimenti annunciati dal presidente Kim Dae-jung al consiglio dei ministri, orientati a colpire lo sciopero ad oltranza di più di 5.000 operai delle cinque centrali elettriche della Korea Electric Power Corp (KEPCO) e a proseguire la ristrutturazione delle utility a proprietà statale.
Il consiglio dei ministri ha intanto deciso di sospendere il pagamento dei salari e di trattenere il pagamento dei contributi (non escludendo licenziamenti di massa, il blocco dei conti bancari e persino il sequestro delle abitazioni degli scioperanti!) per compensare la KEPKO delle perdite dovute agli scioperi, pari a circa 19 milioni di dollari. I ministri hanno anche programmato l'addestramento di oltre 400 soldati da utilizzare già nei prossimi giorni per garantire l'attività produttiva nelle centrali assieme ad amministratori, soliti crumiri, ex dipendenti in pensione ed altri lavoratori assunti alla bisogna.
Negli ultimi giorni si sono registrati scontri fuori dall'università di Yonsei a Seoul, quando 1400 poliziotti hanno tentato di sgomberare il campus, nel cui anfiteatro all'aperto si erano riuniti circa 3.000 operai. Le proteste e le astensioni dal lavoro erano cominciate il 25 febbraio in opposizione ai progetti governativi di cedere ai privati la propria partecipazione, pari al 54% delle azioni, nelle cinque centrali. L'azienda ha già licenziato 197 operai per essersi rifiutati di obbedire ad un precedente ordine di tornare al lavoro.
Mentre il governo usa la mano pesante con i lavoratori, i sindacati del settore e la loro principale federazione, la FKTU, hanno lasciato i lavoratori soli a fronteggiare la dura repressione statale. Dopo aver indetto una votazione per lo sciopero tra i 3.700 lavoratori della Korea Hydro and Nuclear Power Company, i dirigenti sindacali hanno infatti sostenuto l'impossibilità di procedere alle votazioni a causa delle pesanti interferenze dell'azienda, che ha spostato arbitrariamente numerosi lavoratori in diverse locazioni. Anche volendo accettare questa argomentazione, dobbiamo però notare che mentre i sindacati continuino a non mostrare alcuna fretta: "riprenderemo le votazioni in seguito, anche se al momento non è ancora chiaro quando", lo sciopero non viene proclamato.
Anche prima di questo episodio, la FKTU ha lasciato gli operai del settore energetico nel loro limbo. Infatti, mentre all'inizio hanno proclamato lo sciopero dei lavoratori del gas e dei ferrovieri ottenendo una paralisi del paese - specie nei trasporti - quasi totale, nel giro di 48 ore i dirigenti dei sindacati di queste due categorie hanno ritirato gli scioperi e ritagliato accordi separati, attraverso i quali in sostanza hanno lasciato via libera alla privatizzazione delle ferrovie e della rete del gas.
Anche il secondo sindacato coreano per dimensioni, la KCTU, che conta più di 50.000 iscritti e pretende di essere più combattivo, ha contribuito ad isolare lo sciopero degli operai delle centrali elettriche. I leader della KCTU avevano promesso di proclamare uno sciopero di migliaia di operai delle industrie automobilistiche a sostegno dei lavoratori delle utility ma poi hanno organizzato solo proteste circoscritte, indicendo uno sciopero di sole quattro ore negli stabilimenti della Hyundai Motors e della Kia Motors.
Cina
Nel mese di marzo decine di migliaia di lavoratori licenziati hanno dato vita nelle provincie settentrionali della Cina ad una delle maggiori ondate di protesta degli ultimi anni.
Nel bacino petrolifero di Daqing, nella provincia dello Heilongjiang, i lavoratori in esubero del settore petrolchimico hanno preso parte fin dai primi giorni di marzo alle proteste per ottenere i sussidi dovuti dal loro vecchio padrone, la Daqing Petroleum, sussidiaria della compagnia di bandiera Petro China. Circa 86.000 lavoratori, principalmente di età tra i 40 e 50 anni, sono stati espulsi dall'azienda a partire dal 1999, molti a Daqing. I licenziamenti sono parte delle misure di contenimento dei costi associate alla quotazione della PetroChina sulle borse di Honk Kong e New York. Oltre all'assistenza sanitaria, gli operai rischiano di perdere i sussidi per il riscaldamento durante il freddissimo inverno del nord est cinese e di dover pagare quote più alte per la pensione.
Numerose manifestazioni si sono susseguite a partire dal primo marzo, arrivando a coinvolgere fino a 50.000 lavoratori nelle giornate seguenti al 4 marzo. La reazione statale è stata fino a questo momento abbastanza cauta, con la polizia che si è limitata a circondare gli edifici della compagnia, ma nella città la tensione si sta acuendo visto chel'azienda, preoccupata di rassicurare gli azionisti sull'efficacia della ristrutturazione, rifiuta ogni negoziato. L'obiettivo principale dell'iniziale cautela era il contenimento delle proteste nella zona di Daqing. Durante la prima settimana, dimostrazioni e proteste si sono ripetute fin nei lontani bacini petroliferi della provincia occidentale dello Xinjiang, come pure nelle provincie di Hebei, Liaoning, Jilin e Shandong. Notizie di repressioni avrebbero potuto alimentare azioni di solidarietà.
Nonostante gli sforzi di contenere il malcontento, il pericolo di una insurrezione dei disoccupati nella vicina provincia dello Liaoning resta reale. Una volta cuore pulsante della industria pesante cinese, Liaoning è stata tra quelle provincie che più hanno sofferto della ristrutturazione delle imprese a proprietà statale perseguita da Pechino. Negli ultimi 5 anni molte imprese non profittevoli hanno dichiarato bancarotta, mentre altre hanno ridotto la forza lavoro per aumentare la produttività e i profitti, lasciando per strada almeno 40 milioni di lavoratori. Le maggiori città sono afflitte da disoccupazione cronica e problemi sociali diffusi: oltre il 50% dei lavoratori sono disoccupati e vivono con sussidi mensili che, quando pagati dalle imprese in fallimento, ammontano a circa 22 dollari.
Oltre 10.000 minatori licenziati nella zona di Fushan hanno bloccato strade e ferrovie dalla metà di marzo per l'inadeguato pagamento dei sussidi.
L'11 e il 12 marzo,7.000 operai licenziati dalle 7 maggiori industrie di Liaoyang hanno dimostrato davanti al municipio chiedendo il pagamento dei salari non pagati, i sussidi dovuti, l'accesso gratuito ai servizi sanitari e l'allontanamento del sindaco, responsabile di frodi sui fondi pensionistici degli operai licenziati. Molti erano vecchi operai della Ferro-Alloy di Liaoyang che avevano preso parte alle proteste di ottobre e novembre contro la chiusura degli impianti.
Anche se le due giornate di protesta si sono svolte senza reazioni del governo, l'arresto di uno dei rappresentanti scelti dai lavoratori, avvenuto il 17 marzo, ha avuto come risposta una marcia di 30.000 lavoratori provenienti da dozzine di luoghi diversi che chiedevano il suo rilascio. Il venerdì successivo 10.000 lavoratori hanno fronteggiato i reparti antisommossa della polizia e un migliaio di loro è riuscito ad entrare nei palazzi del governo locale, mettendoli a soqquadro alla ricerca del loro compagno. Altri tre arresti hanno provocato ulteriori dimostrazioni nei giorni seguenti.
La situazione già grave in tutta la Cina (secondo un rapporto ufficiale preparato per il gruppo politico al potere, in Cina hanno luogo più di 300 proteste o scioperi ogni giorno) rischia di aggravarsi ulteriormente visto che lo stesso governo prevede che la disoccupazione urbana, in gran parte sottostimata, crescerà quest'anno di almeno 1,9 milioni, portando il numero dei lavoratori disoccupati ad oltre 8,5 milioni.
MicBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #4
Aprile 2002
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