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Ora è ufficiale, l'economia statunitense è in piena recessione, la prima del nuovo millennio. Solo pochi mesi addietro i corifei del capitale esaltavano gli spettacolari risultati ottenuti dalla new economy, gli incrementi di produttività, la crescita della ricchezza ottenuta grazie alle attività finanziarie ed alcuni economisti si spingevano addirittura nell'ipotizzare la fine dei cicli economici. Grazie ad Internet ed alla telematica sarebbe stato possibile garantire al capitalismo una fase espansiva ininterrotta; come dire un'economia senza più cicli e sempre proiettata verso lo sviluppo e il benessere generalizzato. Il sogno, come sappiamo, è durato giusto il tempo necessario affinché le contraddizioni economiche accumulate in questi anni d'euforia finanziaria si manifestassero determinando la più grave crisi di questo secondo dopoguerra dell'economia statunitense e mondiale.
I più accesi sostenitori di questo barbaro sistema di produzione, pur di non accettare l'idea che il capitalismo è un sistema economico soggetto a cicli e quindi anche a violente crisi e recessioni, sostengono che le responsabilità di questa recessione debbano essere attribuite esclusivamente ad Osama bin Laden e alla sua criminale azione terroristica dello scorso undici settembre. Per questi pennivendoli borghesi ovviamente la crisi non è quindi il risultato delle contraddizioni economiche accumulate nel processo di produzione, ma è il terrorismo islamico di bin Laden e dei suoi protettori talebani ad aver scaraventato l'economia statunitense nell'attuale recessione. Come sempre la borghesia pur di perpetuare il proprio dominio di classe sull'intera società cerca di nascondere anche le cose più evidenti. La crisi dell'economia americana ha radici molto lontane ed è iniziata molto prima dell'undici settembre scorso. Gli attacchi terroristici alle torri gemelle di New York ed al Pentagono e la successiva guerra in Afghanistan non sono la causa di questa recessione economica ma semmai una loro diretta conseguenza. I legami dialettici che intercorrono tra le crisi e le guerre sono una caratteristica della storia del capitalismo; ogni guerra, dietro la cortina fumogena delle giustificazioni ideologiche, si genera e si sviluppa unicamente per le contraddizioni economiche del capitalismo.
La guerra in Afghanistan è una guerra imperialistica combattuta dagli Stati Uniti non per vendicare i morti di New York e sconfiggere il terrorismo, così come ci vuole far credere la propaganda della classe dominante, ma è combattuta solo ed esclusivamente per controllare un'area strategica per il passaggio dell'oleodotto che dovrà trasportare il petrolio estratto dalla regione del Caspio e del Caucaso. Per gli Stati Uniti controllare il petrolio dell'Asia centrale ha assunto un significato vitale visto che proprio tramite la commercializzazione dell'oro nero in dollari la borghesia americana trae una rendita parassitaria per un valore annuo di 500 miliardi di dollari. Rischiare di perdere questa rendita, derivante dal fatto che il petrolio così come le altre materie prime sono commercializzate in dollari, non è ipotizzabile per un'economia in piena recessione come quella statunitense.
Per evitare il crollo degli indici azionari della borsa di New York e l'ulteriore caduta dei consumi, il presidente della Federal Reserve s'appresta a tagliare per la settima volta dall'inizio dell'anno il tasso di sconto. Secondo le previsioni degli analisti, la necessità di sostenere una domanda interna alquanto fiacca, nei prossimi giorni i tassi americani dovrebbero attestarsi al 2%, quando solo nel gennaio scorso erano pari al 6,5%. Un intervento così deciso da parte della banca centrale statunitense testimonia della gravità della recessione della locomotiva dell'economia mondiale. Pochi dati bastano per osservare il deterioramento dell'economia statunitense: nel primo semestre dell'anno il tasso di crescita è sceso allo 0,3%; la produzione industriale è calata di quasi il 5% rispetto al duemila; i licenziamenti determinati dalla crisi dei settori tecnologicamente più avanzati hanno superato nei primi dieci mesi dell'anno i 770 mila. Nel terzo trimestre, quindi ben prima dell'attacco terroristico, il prodotto interno lordo statunitense è calato dello 0,4% mentre secondo le statistiche ufficiali del ministero del lavoro americano il numero dei disoccupati ha superato nel mese di settembre 2001 gli otto milioni (in realtà sappiamo degli artifici statistici utilizzati dagli Stati Uniti per nascondere una disoccupazione che interessa non otto milioni ma quasi 18 milioni di americani), portando il tasso di disoccupazione al 5,5%. Per un'economia come quella statunitense, il cui Pil è basato per il 65% sui consumi interni, la caduta della fiducia dei consumatori può avere degli effetti devastanti. Il Napm, l'istituto che elabora l'indice delle attività economiche sulla base dei dati raccolti tra migliaia d'aziende americane, ha fornito i risultati relativi allo scorso mese di ottobre: l'indice si è attestato a 39,8, mentre il mese di settembre era a quota 47. Secondo quest'istituto quando l'indice scende sotto la soglia dei 50 punti significa che l'economia è in piena recessione.
Subito dopo l'undici settembre il presidente americano Bush, prevedendo un ulteriore peggioramento della situazione economica, ha predisposto un piano d'intervento statale a favore dell'economia. Sconfessando il suo credo liberista in base al quale l'economia se non è vincolata dalla burocrazia statale è in grado di offrire benessere a tutti, il presidente Bush con la collaborazione dell'opposizione democratica ha elaborato un mega intervento statale per un valore pari a 200 mila miliardi di lire. Attualmente il piano è all'esame del congresso e dovrebbe essere approvato nei prossimi giorni, dopo che i vari rappresentati della borghesia si saranno accordati sulle modalità per dividersi la torta. A prima vista sembra che ci troviamo di fronte ad un ritorno alla politica economica keynesiana, con un intervento deciso dello stato nell'economia per attenuare gli squilibri generati dal mercato. Ora se è vero che lo stato non ha mai smesso d'intervenire nei meccanismi economici neanche per un istante anche durante il cosiddetto neo-liberalismo, la svolta di Bush non significa un ritorno pedissequo a Keynes. Infatti, mentre l'intervento dello stato nell'economia di tipo keynesiano prevedeva un sostegno alla domanda aggregata attraverso il finanziamento in deficit dell'economia, l'attuale intervento dello stato si concretizza esclusivamente con un sostegno all'offerta. L'intervento dello stato nell'economia fino agli anni settanta è consistito sia nella gestione diretta di settori produttivi a bassi saggi di profitto o che richiedevano una massa di capitali troppo grande per singoli capitalisti, sia attraverso una politica d'integrazione dei salari ed in definitiva della domanda aggregata. A partire dagli anni ottanta le mutate condizioni dei processi d'accumulazione hanno imposto allo stato non di abbandonare a se stessa l'economia, ma di modificare le modalità d'intervento. La crisi di ciclo che si è aperta nei primi anni settanta determinata dalla caduta dei saggi di profitto industriali, come più volte abbiamo sottolineato è all'origine della crescita delle attività finanziarie e dell'indebitamento dell'economia. In questa fase di crisi del sistema capitalistico lo stato interviene sempre a sostegno del capitale ma tale sostegno si concretizza in finanziamenti diretti alle imprese. In altri termini, se in passato il mondo del lavoro riceveva delle briciole ora è completamente dimenticato dall'intervento dello stato, anzi deve subire quotidianamente attacchi alle proprie condizioni di vita e di lavoro. Il tanto decantato piano d'intervento americano di 100 miliardi di dollari prevede che l'80% della somma sia destinata a finanziari gli sgravi fiscali a pochissime grandi imprese come la Microsoft e la restante somma è destinata all'industria militare. Lo stato non interviene nell'economia per rilanciare quindi la produzione, così come avveniva attraverso la politica keynesiana, ma utilizza le proprie risorse esclusivamente per compensare la caduta dei profitti del grande capitale. La crisi del capitalismo statunitense e internazionale è così grave che ogni giorno la borghesia è costretta a tagliare i salari e le pensioni, togliere la sanità a milioni di persone, scatenare guerre negli angoli più disparati del pianeta pur di poter continuare ad accumulare profitti.
plBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #11
Novembre 2001
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