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Home ›L'euro ai suoi minimi storici
La borghesia europea fa finta di dolersene e reclama nove stangate in cambio della New Economy, l'ultima delle terre promesse
Nel suo primo anno di vita, l'euro ha subito una svalutazione rispetto al dollaro di oltre il 16 per cento ed è ormai quotato stabilmente alcuni punti al di sotto della parità. L'opinione dominante sbandierata da tutti i mezzi di informazione è che la debolezza della moneta unica sia dovuta alla maggiore competitività dell'economia statunitense. Grazie ai maggiori investimenti nelle tecnologie dell'informazione (IT, Information Techonology) e alle riforme che hanno enormemente accresciuto la flessibilità del mercato del lavoro, gli Usa starebbero oggi raccogliendo i frutti della cosiddetta New Economy, l'economia cioè che ruota attorno al mondo delle telecomunicazioni e in special modo a Internet nella quale detengono il primato assoluto. La tesi è talmente radicata e diffusa che è assunta come vera a prescindere da qualunque riscontro con la realtà. Il governatore della banca d'Italia, Fazio, nel recente Forum di Davos in Svizzera, per esempio, avendola fatta propria al pari del dogma cristiano sulla fede, ha ribadito la sua ferma convinzione che senza tagli significativi alle pensioni e un'ulteriore liberalizzazione del mercato del lavoro l'Europa non potrà mai uscire dalle sue attuali difficoltà e vincere la battaglia contro la disoccupazione. Nella stessa occasione, il primo ministro britannico Blair - ci informano i resoconti giornalistici sulle giornate di Davos - raccogliendo la sfida lanciata dall'amministratore delegato del colosso statunitense dell'informatica Dell Computer, Maichael Dell, "...L'ha rilanciata immediatamente agli altri governi del Continente: basta col Welfare degli anni sessanta, per trapiantare in casa nostra il dinamismo della Nuova Economia dobbiamo riformare lo stato sociale e migliorare la flessibilità" (La Repubblica del 29/1 u.s.). E su questa scia il ministro degli esteri Fassino, è giunto a pronosticare, in un'intervista televisiva, benessere e sviluppo anche per i cosiddetti paesi del terzo mondo se solo sapranno far propri i dettami della globalizzazione e della Nuova Economia, dimenticando che nella maggior parte di essi elettricità e telefoni appartengono ancora al mondo della fantascienza.
Per il pensiero economico dominante, insomma, se l'Europa dell'euro vuole vincere la sua battaglia contro la disoccupazione e la stagnazione economica e battere il superdollaro deve senza indugi far proprio il modello statunitense e votarsi ai dogmi della Nuova Economia, con le iniziali rigorosamente in maiuscolo come si conviene a ogni religione. I lavoratori, dunque, non solo non devono opporsi alle riforme del Welfare, ma devono sostenerle nel loro stesso interesse; chi si oppone, anche se lo fa in loro nome, è in realtà nient'altro che un becero conservatore.
Stranamente, solo qualche settimana prima del Forum di Davos si è tenuta a Boston la più importante riunione di economisti di tutto il mondo, l'Aea (American Electronics Association) in cui, fra l'altro si è discusso proprio dell'impatto degli investimenti in nuove tecnologie (IT) sulla produttività del lavoro. Benché a discuterne fosse la créme del pensiero economico di tutto il mondo, il dibattito non è approdato ad alcuna conclusione. Anzi, secondo i dati attualmente disponibili, sembrerebbe che "...I settori, ed anche i paesi, in cui si è investito di più nelle tecnologie dell'informazione sono quelli in cui la produttività non mostra di crescere più rapidamente. In Giappone, come segnala l'economista Shinozaki, nonostante negli anni Novanta la quota degli investimenti rappresentata da computer e software sia elevata, il contributo delle IT al miglioramento della produttività del lavoro risulta relativamente modesto." (La repubblica - Affari & Finanze 24/01 u.s.) Secondo altri, invece, essa è consistente solo se allo sviluppo delle nuove tecnologie si accompagnano " riforme profonde, dirette a rendere flessibili i metodi produttivi, l'organizzazione del lavoro e le sue mansioni.." (ib). Tutti invece hanno convenuto che, comunque, gli attuali sistemi di misurazione e rilevazione statistica sono inadeguati al compito; infatti è rimasto non chiarito se a incrementare la produttività del lavoro siano le nuove tecnologie o le riforme che, introducendo maggiore flessibilità, favoriscono l'intensificazione dello sfruttamento della forza-lavoro; tanto più che mentre le IT occupano nel mondo produttivo una nicchia ancora marginale, le riforme, una volta realizzate, valgono per tutti i settori produttivi. Comunque, alcuni dati disponibili consentono già ora di escludere che i lavoratori possano trarre grandi vantaggi dall'applicazione del nuovo paradigma economico. Negli Stati Uniti, il paese dove esso ha già trovato pratica applicazione, i risultati sono inequivocabili: nel corso dell'ultimo decennio, mentre l'indice Dow Jones è passato dai 2.753,20 punti del primo gennaio 1990 agli 11.134,80 del 31 dicembre 1999, il costo del lavoro, depurato dell'inflazione, è rimasto immutato nonostante una crescita media del Pil del 3 per cento. "Questo andamento del costo del lavoro - secondo una recente analisi del Center Budget and Policy Prioritie e dell_'Economy Policy Institute_ - mentre per le aziende...ha rappresentato una manna, per i lavoratori si è risolto il più delle volte in una catastrofe economica... le disparità fra ricchi e poveri si sono approfondite attraverso tutti gli anni 90. Risultato: alla fine del decennio, le condizioni di vita non solo dei poveri ma anche dei "meno ricchi" sono nettamente peggiorate che non alla fine degli anni 80, e ancora peggio se si guarda alla fine degli anni 70" tanto che, commenta Jared Bernestein, uno degli economisti che vi ha collaborato: "Per i meno abbienti sembrano non esserci speranze e il fatto che tanti cittadini pur contribuendo con il loro lavoro all'attuale fase di prosperità non ne condividano i benefici, è sicuramente il nostro (degli Usa n.d.r.) problema più grave". Infatti, il presupposto che l'economia statunitense stia vivendo un fase espansiva che ha il suo fulcro sulla crescita delle attività industriali, sia pure quelle dell'alta tecnologia, e dell'occupazione mal si concilia con la caduta progressiva dei salari. È più plausibile invece che a trainare la crescita del Pil siano le attività connesse alla crescita della sfera finanziaria. In questo caso, infatti, è la natura stessa dell'investimento finanziario a generare questo apparente paradosso poiché è questo tipo di investimento che genera: da un lato, e in misura estremamente ridotta, occupazione qualificata, quella appunto che utilizza le cosiddette IT e dall'altro il lavoro servile o scarsamente qualificato e perciò mal retribuito. Non è dunque il poderoso sviluppo delle nuove tecnologie che fa crescere le quotazioni del dollaro, ma è piuttosto vero il contrario; queste crescono favorite dalla crescita della sfera finanziaria che a sua volta poggia sul grande potere imperialistico degli Usa di cui il dollaro ne è l'espressione più compiuta. D'altra parte, se fosse vero - come ha scritto ancora Rampini nel suo resoconto già citato - che "Il ruolo della moneta è marginale" e che "Il superdollaro non impedisce a Microsoft e Intel di inondare il mondo con i loro prodotti" ovvero che gli Usa sono il paese più competitivo del mondo, è del tutto inspiegabile che esso faccia registrare un deficit commerciale che macina record storici uno dopo l'altro.
In verità, in Europa era noto a tutti che le quotazioni del dollaro erano destinate a salire. Gli Usa all'insorgere dei primi segnali inflazionistici hanno rialzato i tassi di interesse e soprattutto operato militarmente affinché crescesse il prezzo del petrolio che, come BC ha più volte sottolineato, equivale a un rialzo supplementare dei tassi stessi. Ciò non poteva non ripercuotersi sulle quotazione dell'euro a meno che la Bce (come avrebbero fatto, per evitare di imbarcare inflazione, le singole banche centrali europee se non ci fosse stata la moneta unica) non avesse deciso di seguire la Fed sulla strada del rialzo dei tassi strozzando sul nascere ogni possibilità di ripresa economica. Contrariamente a quanto comunemente si pensa, dunque, il fatto che la Bce (Banca Centrale Europea) sia riuscita a contenere il rialzo dei tassi prova che la nuova moneta, benché ancora ai suoi esordi e nonostante la fragilità politica della Ue, è meno debole di quanto appaia dalla sola lettura aritmetica delle sue quotazioni rispetto il dollaro. La borghesia europea fa finta di dolersene, ma in realtà mira a prendere i due famosi piccioni del vecchio adagio con una fava: favorire le proprie esportazioni verso i paesi extracomunitari e nel contempo assestare altre stangate ai propri lavoratori perché, come abbiamo visto, nuova o vecchia economia che sia, al di qua o al di là dell'Atlantico, a pagare è sempre il proletariato.
Battaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #2
Febbraio 2000
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