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Home ›Dieci anni che dovevano pacificare il mondo
La caduta del muro di Berlino, le guerre e l'immiserimento della classe operaia sono frutto della medesima crisi del capitalismo
Sono passati dieci anni dalla caduta del muro di Berlino, considerato il simbolo stesso del confine tra libertà e oppressione, tra benessere e scarsità, e i mezzi d'informazione non si sono tirati indietro nel mostrare i vincitori celebrare nella nuova capitale tedesca il loro trionfo sull'ex "impero del male" e ricordarci, tra coppe di champagne e avveniristiche architetture, che il "comunismo", il frutto peggiore di questo secolo, è morto e sepolto per sempre. Ma la memoria dei vincitori è, come si sa, truccata e selettiva e nessuno, tra le schiere di pennivendoli prezzolati, ha osato rinfacciare ai "grandi" le loro ipocrite previsioni sulla fine della storia, distribuite con l'arroganza di chi si sente strapotente: secondo quest'ultimi il 9 novembre 1989 avrebbe finalmente dischiuso all'umanità un'epoca di pace e prosperità mai vista. Invece la storia di questi anni ha inevitabilmente sbugiardato gli interessati ottimismi dell'Ottantanove; inevitabilmente, perché tutto l'impianto teorico era falso, a cominciare dalle premesse. Ciò che ad Est è crollato non è stato il comunismo, ma una sua mostruosa caricatura, un regime a capitalismo di Stato che, questo sì, aveva ben poco da invidiare alle più feroci e aperte dittature antioperaie che hanno costellato il Novecento. Altro che socialismo reale: una diversa forma giuridica dello sfruttamento capitalistico --, la statalizzazione di mezzi di produzione - era spacciata per socializzazione e le ricchezze estorte alla classe operaia servivano per alimentare una borghesia di stato che al momento opportuno ha saputo riciclarsi e rimanere quasi ovunque al potere. Di fronte allo sfacelo economico indotto dalla crisi mondiale del capitalismo apertasi quasi trent'anni fa, chi occupava le alte cariche del partito ossia chi aveva in mano le leve dell'economia, della burocrazia, dell'esercito, ci ha messo poco a sbarazzarsi delle falci e martello e delle bandiere rosse, i simboli con cui per decenni hanno ingannato generazioni di proletari di tutto il mondo. E mentre i "Prodi"e i "Demattè" russi, iugoslavi, rumeni, bulgari hanno continuato come e più di prima ad arricchirsi in maniera scandalosa, gli operai e gli strati sociali più deboli sono via via sprofondati nella miseria e nel degrado; non si contano le fabbriche chiuse perché capitalisticamente inutili, cioè incapaci di reggere la concorrenza del capitalismo "occidentale" e, di conseguenza, i milioni di lavoratori ridotti alla disperazione: disoccupazione e salari letteralmente da fame regnano sovrani. E siccome miseria fa miseria, ecco riapparire nei territori dell'ex impero sovietico flagelli che sembravano appartenere alla durissima storia della classe operaia ottocentesca: la sottoalimentazione, la malnutrizione, il venir meno dei più elementari "comfort" occidentali, uniti alla disintegrazione del sistema sanitario fanno da potente supporto alla diffusione di vecchie e nuove malattie quali la tubercolosi o l'AIDS; contemporaneamente si abbassa a livelli, appunto, ottocenteschi l'aspettativa di vita, e si moltiplicano per mille i casi di bambini affetti da malformazioni dovute solo ed esclusivamente alla miseria. Così, intanto che il proletariato rumeno o ucraino, bulgaro o russa affronta la sua quotidiana guerra per la sopravvivenza tra povertà e malattie, droga e prostituzione, ai vertici della società le rispettive borghesie si scannano per strapparsi l'un l'altra anche le briciole della ricchezza succhiata alla "loro" classe operaia, quando, e non è raro, si prestano volentieri ai maneggi degli imperialismi più forti. L'esplosione dei cosiddetti nazionalismi che ha mandato in frantumi la carta geografica disegnata a Yalta nel '44 ha qui, nell'antagonismo tra opposti interessi imperialisti la sua unica origine; il resto, sono chiacchiere. La traccia interminabile di sofferenze, dolore e sangue che si lasciano dietro le lunghe code di ceceni, in fuga sotto la neve dai cannoni russi, così come le misere masse di profughi croati, bosniaci, serbi o kosovari, stuprati e massacrati tanto da patriottiche milizie quanto da bombe "umanitarie", sono il prodotto dello scontro planetario per il controllo della rendita finanziaria del prezzo del petrolio e non di generose aspirazioni di stampo nazionalistico o, peggio, religioso. Dietro le "guerre sante" combattute da masse immiserite e facilmente fanatizzate da chi promette loro un paradiso certo - ancorché nell'aldilà - in cambio di quello che sarebbe fallito (il "socialismo reale") c'è immancabilmente l'oro nero. Il più reazionario, bestiale e ignorante medioevo dei "pazzi di Allah" è un'ottusa, e non sempre docile, pedina dello zio Sam che per il bene del dollaro invoca tanto i versetti del Corano quanto le cristianissime bibbie sulle quali giura e si mette mille volte sotto i piedi i diritti umani di cui si erge campione. La guerra del Golfo, scoppiata quando la sbornia per la caduta del muro non era ancora stata smaltita, non fu forse scatenata - si diceva - per proteggere il Kuwait e l'Arabia Saudita, islamici integralisti per eccellenza, dall'ex amico dell'Occidente Saddam Hussein? L'embargo che ha mietuto e miete centinaia di migliaia di proletari irakeni, specialmente bambini, non è un permanente e criminale attentato ai cosiddetti diritti umani? In realtà, ormai anche certi settori della borghesia ammettono apertamente che tutto questo è parte della strategia statunitense di attacco al capitalismo europeo e giapponese, intensificatosi in seguito all'eclissi politico-militare del fu impero sovietico.
E mentre in questi dieci anni la guerra si è minacciosamente avvicinata alla metropoli del capitale, un intero continente, l'Africa, prosegue la sua deriva nel mare della disperazione. Dall'immane macello ruandese del '94 all'interminabile guerra angolana, a tutte le altre guerre dimenticate dai democratici mass media, ma non dai milioni di diseredati che ne subiscono gli orrori, la regia è sempre di un pugno di potenze imperialiste, le quali, tramite le altrettanto sudicie e colpevoli borghesie locali (avvolte nelle bandiere di un nazionalismo che ha i terminali nei futures e nei fondi pensione delle borse mondiali) lottano a morte per accaparrarsi materie prime, più favorevoli posizioni geostrategiche, rendite finanziarie cioè, alla fine, il plusvalore del proletariato di "colore".
Nemmeno il meraviglioso giardino zoologico un tempo esibito con arrogante orgoglio dalla propaganda borghese sta tanto bene: tigri e dragoni del lontano oriente sono ancora intontiti dallo shock inferto da una crisi finanziaria devastante, che ha elevato a potenza la disoccupazione, il sottosalario, la violenza al dettaglio e all'ingrosso. Ma anche dall'altra parte dell'oceano le rinate "democrazie" delle borghesie latinoamericane fanno sprofondare in un abisso di miseria e di barbarie masse enormi di popolazione per colmare le voragini prodotte da un boom economico fondato sugli illusori miraggi della speculazione finanziaria.
Nel vortice della crisi capitalistica che sta devastando il mondo, solo "l'occhio del ciclone", là dove hanno origine la guerra e la miseria ossia la metropoli del capitale, sembra godere di pace e tranquillità. In realtà, dietro l'euforia dell'economia statunitense, dietro il complesso processo di costruzione dell'Europa dell'Euro o l'affannoso arrancare del gigante giapponese c'è la colossale ipoteca del capitale fittizio. Impossibilitata, per le leggi stesse del capitalismo, a rianimare tassi del profitto in declino, la borghesia mondiale, semplice interprete di quelle leggi, crede o vuol far credere che la Borsa possa creare e moltiplicare ricchezza all'infinito come la favola dei pani e dei pesci, ma in fondo sa che solo dallo sfruttamento della classe operaia può nascere quella ricchezza necessaria per alimentare tanto il profitto industriale quanto una rendita finanziaria di dimensioni sempre più mostruose. Così, è proprio dallo sforzo e dalla lotta per pompare prima più plusvalore possibile dalla fatica operaia e poi per strapparsi l'un l'altro questo plusvalore sotto forma di rendita finanziaria che si spiegano, da una parte, lo stravolgimento dell'organizzazione del lavoro, la precarietà crescente e accelerata, il (tendenziale) livellamento verso il basso delle condizioni di vita e di lavoro della classe operaia mondiale, attraverso le mille e "moderne" forme di sottosalario e di sfruttamento garantite da governi tutti uguali e da sindacati totalmente integrati nel sistema di dominio antioperaio; dall'altra parte, l'irruzione di conflitti fin sotto le finestre di casa del Centro capitalistico che fanno presagire ancor più spaventosi scenari di guerra imperialista.
Dunque, se la caduta del muro di Berlino ha trascinato con sé le bardature ideologiche sopravvissute di un'altra epoca storica del capitalismo, unificando anche formalmente la borghesia del mondo intero, gli allori del suo trionfo non sono pace e prosperità, bensì guerra e miseria, sofferenza e fame, malattie e sfruttamento. Ancora disorientati dal crollo dei falsi miti del "socialismo reale", istupiditi dall'azione congiunta degli integralismi religiosi e della martellante propaganda borghese, messi alle corde dagli attacchi che a ondate incessanti la borghesia sferra alle loro condizioni di vita, i proletari e i diseredati del pianeta finora paiono incapaci di reagire.
Tuttavia, anche la demoralizzazione prima o poi dovrà fare i conti con le pance vuote, le bombe all'uranio, una vita e una vecchiaia all'insegna dell'incertezza e della precarietà, ma se non saremo riusciti, noi, esigua minoranza e quelli che ancora stanno alla finestra esitanti, a dare alla classe il suo partito rivoluzionario, allora la borghesia trascinerà con sé nella barbarie il pianeta e chi lo abita.
cbBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #12
Dicembre 1999
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