Il sonno della rivoluzione genera mostri

La crisi capitalista si avvita su se stessa e la classe che dovrebbe scioglierla, abbattendo il capitalismo, tace e subisce. La dinamica delle cose del capitalismo - che determina il modo d'essere della stessa classe dominante - accelerata e resa caotica dalla crisi, corre incontrollata alla barbarie e genera le mostruosità che sono sotto gli occhi di tutti.

L'allucinante succedersi dei massacri alle feste della democrazia referendaria a Timor Est è uno dei tanti episodi di barbarie incipiente disseminanti nel mondo in questo scorcio di secolo.

Entreremo, col prossimo numero, nel dettaglio della crisi indonesiana e dei suoi riflessi su Timor Est, perché le radici del conflitto brutalmente esploso fra lo stato d'Indonesia e le forze indipendentiste di Timor-est risiedono proprio negli aspetti che la crisi di ciclo assume nella regione indonesiana.

Quel che va subito rilevato è il cinismo della diplomazia occidentale e della Nazioni Unite che hanno finto di garantire un referendum indipendentista, sapendo perfettamente che mai l'Indonesia avrebbe potuto rinunciare facilmente (grazie a delle schede di voto!) a ciò che si era annesso, con la violenza, nel 1967, l'ex-colonia Portoghese di Timor Est, e che la superpotenza americana non si sarebbe certo indignata di eventuali genocidi commessi dalle forze indonesiane, ufficiali o meno.

D'altra parte l'annessione violenta del '67 non era stata riconosciuta, ma neppure minimamente osteggiata dagli attuali cantori della democrazia e dell'umanitarismo.

C'era l'Urss, allora e il colpo di stato del 30 novembre del '65, capeggiato da Mohamed Suharto - che condusse una delle più selvagge repressioni che la storia del dopoguerra abbia mai conosciuto - immise l'ex colonia olandese, l'Indonesia, nel circuito protetto dell'altro fronte imperialista, capeggiato dagli Usa.

Il fronte Nato, allora più compatto d'oggi, disapprovò a parole ma gioì e appoggiò nei fatti. Era ufficiale: un paese sottratto all'influenza sovietica era una vittoria di libertà e democrazia e se lasciar massacrare trecentomila comunisti e lasciar annettere un altra ex-colonia era il prezzo, bisognava pagarlo.

Nacque allora il Fretilin (il Fronte di liberazione nazionale di Timor Est). C'è sempre e ovunque, piccola o grande, una corrente di piccola borghesia che coltiva nel nazionalismo la pochezza delle sue prospettive e la povertà del pensiero.

Una guerriglia trentennale ha fronteggiato in precario equilibrio una azione continua di repressione da parte dello stato indonesiano, senza che nulla di rilevante potesse accadere per almeno 10 anni. Il ciclo di accumulazione tirava, i proletari sgobbavano e facevano pressoché la fame in entrambe le ex-colonie, i capitalisti locali si pascevano della crescita assicurata dall'essere inseriti nel circuito imperialista occidentale.

Poi è venuta la crisi e ancor più dura sulle spalle delle vecchie "tigri asiatiche", Indonesia compresa. Quale è la risposta dei borghesi, in questi casi? Compattarsi nell'immediato intorno su quel che appare l'interesse fondamentale da difendere contro gli altri, parimenti borghesi e... contro tutti i proletari.

Questa risposta prende varie forme, a Timor Est e in Yugoslavia, nel Nord-Est italiano e in Cecenia - ma al fondo la fenomenologia è la stessa.

La condizione perché possa verificarsi è sempre che il proletariato non sia in grado di elevarsi a soggetto e di far sentire l'indipendenza e l'antagonismo dei suoi interessi rispetto a quelli della borghesia.

Così il nazionalismo di Timor Est è cresciuto, si è esteso alla classe sfruttata, priva di altri riferimenti più propri, ed è cresciuto fino a imporsi all'attenzione della famosa comunità internazionale. La quale non è poi tanto comunitaria, covando al suo interno nuovi e potenti divergenze di interessi fra i grandi i quali, ciascun per sé, mestano nel torbido.

Ecco allora gli osceni balletti diplomatici che portano al referendum, scontato tanto nella vittoria quanto nei suoi sanguinosi esiti. Il risultato del bagno di sangue sarà essenzialmente un nuovo disegno degli equilibri di forza nel Pacifico, fra Usa, Australia, Cina e la stessa Indonesia.

Quella è una regione delicata per tutti: c'è tanto petrolio (prima voce di esportazione), del quale gli Usa non vogliono perdere il controllo che tanto spiace agli altri; e ci sono formidabili investimenti di tutti sul bassissimo costo della mano d'opera. È o potrebbe diventare il "giardino di casa" - non importa se irrigato col sangue - dell'Australia, che benedì a suo tempo le feroci repressioni di Suharto così come si servì dei Timoresi come carne da cannone anti-giapponese nella Seconda Guerra mondiale. Non è un caso che sia stata proprio l'Australia a premere per l'intervento "pacificatore" e a proporsi come forza di comando dell'intervento stesso.

Anche in questa regione dello scacchiere si gioca la complessa partita che va ridisegnando i fronti contrapposti dell'imperialismo che dovranno scontrarsi nella "soluzione finale" della crisi: la guerra generalizzata. Ed è questa la partita che genera i mostri.

Quali risposte dà chi si indigna ai massacri?

In Australia, come - anche se in tono minore - in Italia, i radical-riformisti premono per l'intervento "umanitario", scoprendosi per quel sono: fiancheggiatori a oltranza della conservazione borghese e delle sue mene reazionarie. E si schierano: o con l'Indonesia o con Timor Est.

Ci par di sentire il democratico che sconcertato ci chiede: e allora che si dovrebbe fare? Lasciare che i massacri vadano avanti?

È la stessa domanda che l'idiota si ripeteva davanti all'intervento in Kosovo. E noi diamo la stessa risposta: fino a che la classe operaia non riprenderà nelle proprie mani i suoi destini e non inizierà, per cominciare, a reagire ai pesanti attacchi che ha ricevuto e continua a ricevere dal capitale in crisi, la borghesia continuerà nei suoi giochi al massacro e i democratici continueranno a rincorrere vanamente soluzioni tanto pacifiche quanto impossibili. E allora bisogna darsi da fare, sì, ma per aiutare la classe a ritrovar se stessa contro tutti i fronti dell'imperialismo, contro il capitale.

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.