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Sul movimento dei consigli
Abbiamo già detto della frammentarietà dell'opera complessiva di Gramsci, ma dobbiamo riconoscere che essa è percorsa nel suo interno da un motivo cardine che sorregge il tutto in una visione d'insieme il cui filo conduttore è l'egemonia con tutte le sue implicazioni e sfaccettature contingenti e contraddittorie che perviene alla sua logica conclusione chiarendo, senza equivoci, la sua natura ideale che non si identifica né con la metodologia marxista né tanto meno con il fine rivoluzionario della classe. Ed è questo nodo centrale che deve essere sciolto una volta per sempre per dare a Gramsci, non mistificato, quel che in realtà è di Gramsci.
Per Gramsci il problema centrale è il modo di uscire dalla lunga serie delle scissioni originate dal moto molecolare di aggregazione e di disgregazione delle forze sociali, dal susseguirsi delle rivoluzioni passive e dalle guerre di posizione. È qui il centro focale di tutta la tematica Gramsciana che dovrebbe concludersi con l'egemonia delle forze sociali, la nuova classe fondamentale, dando il via ad un ordine nuovo. Quale e soprattutto come? C'è in Gramsci, costante, una irrequietezza spirituale, la mania di concludere, costantemente inappagata, e una inestinguibile ansia del potere: il problema dello Stato. Si era nel primo dopoguerra; la situazione portava in sé tutti i motivi di una crescente disgregazione; le istituzioni in parte spezzate e quelle rimaste in piedi non erano in grado di darsi un programma e tanto meno di metterlo in esecuzione; un cumulo di contraddizioni, di impotenza e di disperazioni in cui tutto e il contrario di tutto era possibile che accadesse.
Su tutto e su tutti incombeva il trauma della Rivoluzione d'Ottobre, enorme spinta psicologica positiva per chi aveva tutto da rivendicare e da conquistare, negativa e fatta di paura per chi temeva di perdere le proprie posizioni di privilegio.
I centri di produzione erano centri di scontri e di agitazioni disarticolate e permanenti: non mancavano iniziative sindacali ma nel contempo era in discussione la validità dello stesso sindacato come strumento di azione politico-sindacale: i vecchi partiti apparivano in stato di profondo disorientamento nel ritrovare la propria identità ideologica e politica. Come per il sindacato anche per i partiti tutto era messo in discussione con la tendenza prevalente a estremizzare sia a destra che a sinistra. Notevoli i conati per esperienze nuove anche nel grembo delle vecchie strutture dei partiti tradizionali, come il Partito Socialista Italiano nel quale trovarono terreno fertile per una distinta area d'azione i due poli di maggior spicco ideologico e di più matura e approfondita elaborazione dottrinaria del marxismo: il gruppo del Soviet della corrente della Sinistra italiana e il gruppo dell'Ordine Nuovo della corrente consigliarista. È questa l'esperienza dei Consigli che interessa il nostro esame.
Nel cuore della guerra, nell'ampiezza e profondità della prima guerra imperialista, i Consigli avevano dato la dimostrazione, soprattutto nell'esperienza aperta dalla rivoluzione d'Ottobre, d'essere gli organi del potere reale. L'organizzazione dei Consigli nel grande complesso industriale torinese ha ben altra origine e formazione, ha obbedito più ad una suggestione imitativa di una formula politica nuova che a spinte oggettive tradotte in termini perentori d'azione rivoluzionaria che non si è verificata più per la insipienza degli organi dirigenti del partito socialista - che avrebbero dovuto capire la situazione e guidare le masse all'azione - che per l'immaturità delle condizioni obiettive. Sotto questo rapporto i Consigli dell'esperienza torinese, non saldati al moto rivoluzionario, non erano né potevano essere che organismi di un potere fittizio e delimitato nel tempo.
Il fatto della disponibilità delle Commissioni interne dei maggiori complessi industriali ad una politica antiriformista, e quindi già inclini ad accettare iniziative della sinistra, non è motivo sufficiente e tantomeno valido perché tali organismi, sorti in funzione sindacale, si trasformassero in organismi del potere operaio, quali sono i Consigli, senza che questo potere esistesse né in potenza né di fatto.
All'atto rivoluzionario non si perviene con atti notarili del genere che segnano, semmai, un banale passaggio da una ragione sociale ad un'altra, sempre nell'ambito sindacale, ma dal salire impetuoso dal basso di immense forze sociali, coagulo di sofferenze immani di sfruttati, di potenza distruttiva, di rabbia troppo a lungo repressa, persino di odio con la volontà, precisa e irrimandabile, di spezzare una volta per tutte le strutture di una classe corrotta, quella capitalistica, perché storicamente finita.
Prefigurare la città futura e operare su questo piano di irrealtà non rientra nella logica del socialismo né in sede di dottrina e tantomeno in sede della pratica politica; sarebbe come riproporre un ritorno al socialismo utopistico nel momento stesso in cui il proletariato rivoluzionario sta vivendo la conferma storica della verità effettuale del socialismo scientifico. Non deve destare meraviglia se dopo ogni sconfitta nel conflitto di classe, con un proletariato prostrato e incapace d'azione propria di difesa e di offesa nei confronti del nemico di classe, si dia spazio all'azione fantastica, alla fantapolitica dei sognatori, degli acchiappanuvole anche se, in buona parte, in perfetta buona fede. È la inevitabile e quanto mai pericolosa epoca delle inversioni di tendenze improvvise e mai giustificate, dei contorcimenti strani e dei crolli paurosi; vi predomina costante un ibrido nichilismo fatto ora di distruzioni e ora di patologiche mitiche costruzioni che durano lo spazio di un mattino.
Nella prefigurazione della città futura Gramsci ha dato il meglio della sua opera di studioso e di politico, ma ha anche dato l'avvio a forme devianti a volte dalle sue stesse premesse, predominanti oggi in quello che fu anche il suo e nostro partito.
“L'ottimismo della volontà”, aforisma derivato dalla filosofia del neospiritualismo francese, egli deve averlo concepito dopo un esame introspettivo della sua stessa esperienza che si conclude nell'arco di tempo che va dal '19 al '26, cioè dall'epoca dei Consigli alla promulgazione delle leggi eccezionali, che relega il partito e la sua direzione nelle galere e nei campi di concentramento o all'espatrio clandestino da cui prende inizio il secondo periodo di storia a cui si legherà, completandolo, l'altro aforisma più realistico e dolorosamente vissuto, quello del “pessimismo della intelligenza”.
Puntualizziamo i tratti di questa volontà protesa a realizzarsi non sui dati obiettivi d'un dato momento della crisi della società capitalista ma sotto la spinta emotiva quale può essere espressa da un certo grado di ottimismo; volontà e ottimismo riecheggiano nelle pagine dell’Ordine Nuovo; argomento di fondo: i Consigli, come cellule viventi d'una nuova società. Sentiamo, come è nostro metodo interpretativo, lo stesso Gramsci:
La dittatura proletaria può incarnarsi in un tipo di organizzazione che sia specifico dell'attività propria dei produttori e non dei salariati, schiavi del capitale. Il Consiglio di fabbrica è la cellula prima di questa organizzazione [...] sua ragion d'essere è nel lavoro, è nella produzione industriale in un fatto cioè permanente e non già nel salario, nella divisione delle classi, in un fatto cioè transitorio e che appunto, si vuole superare [...].
Il Consiglio di fabbrica è il modello dello Stato proletario. Tutti i problemi che sono inerenti all'organizzazione dello Stato proletario sono inerenti all'organizzazione del Consiglio [...].
La solidarietà operaia che nel sindacato si sviluppa nella lotta contro il capitalismo, nella sofferenza e nel sacrificio, nel Consiglio è positiva, è permanente, è incarnata anche nel più trascurabile dei momenti della produzione industriale, è contenuta nella coscienza gioiosa di essere un tutto organico, un sistema omogeneo e compatto che lavorando utilmente, che producendo disinteressatamente la ricchezza sociale, afferma la sua sovranità, attua il suo potere e la sua libertà [...].
L'esistenza del Consiglio dà agli operai la diretta responsabilità della produzione, li conduce a migliorare il loro lavoro, instaura una disciplina cosciente e volontaria, crea la psicologia del produttore, del creatore di storia [...].
L'organizzazione per fabbrica compone la classe (tutta la classe) di un'unità omogenea e coesa che aderisce plasticamente al processo industriale di produzione e lo domina per impadronirsene definitivamente. Nell'organizzazione per fabbrica si incarna dunque la dittatura proletaria, lo Stato comunista che distrugge il dominio di classe nelle superstrutture politiche e nei suoi ingranaggi generali. (13)
L'esperienza, più teorica che pratica, dei Consigli, verrà affossata ufficialmente da Gramsci al convegno della frazione comunista di Imola (1920) e non se ne parlerà più nei termini ipotizzati dagli ordinovisti, come organi del potere proletario; spetterà ai futuri epigoni, i manovali della degradazione del partito nato a Livorno, di abbassare ancor più il ruolo dei Consigli riducendolo a strumento permanente della politica sindacale che, per sua natura, non va oltre la pratica del rivendicazionismo, obiettivamente corporativo, al di fuori d'ogni pratica e prospettiva rivoluzionaria.
AI culmine della crisi che si avrà con l'occupazione delle fabbriche, il proletariato industriale non è ancora la forza egemone ma ancora forza soggetta, se non uscirà dalle fabbriche occupate per attaccare frontalmente lo Stato e colpire così nel cuore il capitalismo. Il fatto che la Fiat sia occupata da maestranze che lavorano non si sa per chi e per che cosa e la facile soddisfazione di sapere che un bravo compagno, il metallurgico Parodi, siede sulla poltrona di Agnelli, non assicurano davvero dignità alla funzione egemone del proletariato industriale quando lo Stato mantiene comunque intatte le sue strutture e l'industriale Agnelli è sempre padrone della Fiat. E gli avvenimenti di questo periodo storico hanno dato ragione alla linea della Sinistra italiana che per bocca di Bordiga affermava che il nodo da sciogliere non era quello di occupare la fabbrica per rimanervi prigionieri se non si conquistano e non si spezzano le strutture dello Stato.
Gramsci non riteneva che tale ruolo potesse essere assegnato al PSI ma non poneva, come prospettiva immediata, la necessità del partito rivoluzionario; lui che sentiva tutta l'urgenza di un organo di guida alle spinte molteplici, contraddittorie e in parte irrazionali che salivano dal basso, affidava ai consigli, ideologicamente e politicamente immaturi con tutte le influenze negative e inceppanti dello spirito di categoria a sfondo corporativo, il compito immane di portare a compimento l'eversione rivoluzionaria che non è solo atto di violenza, ma è costruzione di una nuova società, e tutto questo in una sola città, sia pure industriale come Torino.
La sconfitta operaia dell'occupazione delle fabbriche chiude di fatto e miseramente l'esperienza dei Consigli. Ed è il fascismo.
Sarebbe impensabile una tale sequenza di errori di impostazione tattica e di strategia se il tutto non fosse sorretto da una idea madre, costante, che in Gramsci assume forma ossessiva allorché considera i Consigli come la prefigurazione dell'egemonia della classe consolidantesi sulle strutture stesse degli organi istituzionali dello Stato capitalista. Il progressivo e il regressivo coesistono e concrescono nello Stato come due momenti della stessa realtà. In questa vicenda di crescita e di decrescita i riflessi sono visibili nella maggiore o minore influenza e determinazione che verrà esercitata sugli organi dello Stato, palestra materiale del conflitto tra le forze egemoni della storia.
Nasce da qui il problema del come Gramsci considerava lo Stato.
Funambolismo ideologico
Anche la constatazione che stiamo per formulare sembra esprimere una strana contraddizione che è solo apparente: il marxismo, come dottrina, è esigenza universalmente sentita e un inevitabile punto di approdo di tutta la cultura filosofica e politica del nostro tempo; tuttavia, mai come ora, esso è stato sottoposto, anche nella formulazione del linguaggio, alle interpretazioni più arbitrarie e accomodanti e ne è venuto fuori un marxismo di maniera, buono cioè a tutti gli usi anche i più illeciti e aberranti.
Se da un lato tutto ciò si spiega con certe esigenze di basso mercantilismo politico, dall'altro serve come misura di un certo livello morale e della degradazione a cui è stato piegato il ruolo della cultura.
E se la constatazione è ovvia se riferita all'intelligenza borghese democratica, non dovrebbe esserlo per chi, come i teorizzanti del PCI, afferma a destra e a manca di attingere al marxismo rivoluzionario come a fonte ideale nella elaborazione della propria ideologia e nella definizione della propria condotta politica.
Nella storia, quella vera, di questi cinquant’anni dell'Unità, questa appare come un arco teso a ritroso verso ideologie che riportano al premarxismo, al superamento d'ogni tematica marxista per un sempre più vasto inserimento del proletariato nel dispositivo capitalista come la marciante punta avanzata della spinta progressista del composito fronte borghese. È quanto sta, infatti, accadendo, in modo più o meno palese, sotto i nostri occhi. Bisogna proprio riconoscere che anche la via percorsa dall'opportunismo ha obbedito alle esigenze tattiche del progressismo.
Ricordiamone le tappe più significative.
L'onore di aver dato l'avvio spetta indiscutibilmente a Gramsci che già nella complessità e vastità della sua preparazione filosofica maturata nel clima suggestivo e corruttore del neo spiritualismo francese dei Bergson, dei Sorel e di quello italiano dei Croce, portava questa predisposizione e inclinazione intellettuale ai valori della contingenza, al senso del concreto e al gioco alterno della sperimentazione anche se non sempre aderenti ai veri, reali interessi del proletariato, quello, si intende, dei grandi centri come Torino, dove erano vive e operanti le punte avanzate del moderno capitalismo.
Chi ha avuto modo di conoscere Gramsci nel vivo della sua personalità intellettuale e umana, sa quanto del suo mondo, ch'egli credeva saldamente ancorato nel cuore delle masse operaie nella fabbrica, fosse vissuto invece fantasticamente, per quella sua facoltà di soggettivizzare tutto, le sue idee, i suoi sentimenti, le stesse vicende della lotta operaia e della politica militante.
Chi non ha afferrato questo lato della personalità intellettuale e politica di Gramsci non può aver capito l'essenza dell'“ordinovismo” nei pochi lati positivi della sua breve esperienza, ma soprattutto nei suoi lati negativi lasciati a sedimentare, purtroppo, nel folto stuolo degli epigoni.
Ed è proprio per questa tendenza che era portato a pensare e a operare sotto la spinta di una volontà realizzatrice ad ogni costo; giovanissimo, affidava un potere quasi taumaturgico e in ogni caso determinante alla teoria e alla pratica dei “consigli”; fatto più adulto e passato alla direzione del Partito Comunista, considerava la tattica dell'inserimento nella lotta politica come un tuffarsi nella realtà quotidiana per trarre da questa il materiale umano da convogliare nella linea politica del partito e le suggestioni che avrebbero a loro volta influenzato il dato soggettivo della stessa azione politica.
Tali premesse teoriche, a cui Gramsci faceva seguire iniziative anche sul piano organizzativo, non si allacciavano in nessun modo con una visione dialettica del conflitto delle classi, con la legge, cioè, della determinazione che affida al sostrato economico una funzione preminente negli accadimenti della sovrastruttura, il ruolo della volontà umana determinato anch'esso e a sua volta determinante nel suo ritorno sulla base della stessa determinazione; in una parola l'essenziale della tematica marxista gli era allora quasi del tutto estranea se non ostile.
L'esperienza torinese dei Consigli di fabbrica porta i segni evidenti di questa ideologia improntata a intuizionismo mistico, ad acceso volontarismo “creatore” più che alle ferree leggi del materialismo dialettico del marxismo.
L'eclettismo - afferma Lenin - è sostituito alla dialettica; nei confronti del marxismo questa è la cosa più consueta, più frequente nella letteratura socialdemocratica ufficiale dei nostri giorni. Questa sostituzione non è certo una novità; si poté osservarla persino nella storia della filosofia greca classica. Nella falsificazione opportunista del marxismo, la falsificazione eclettica della dialettica inganna con più facilità le masse, dà loro un'apparente soddisfazione, finge di tener conto di tutti gli aspetti del processo, di tutte le tendenze dello sviluppo e di tutte le influenze contraddittorie, ecc; ma in realtà non dà alcuna nozione completa e rivoluzionaria dello sviluppo della società. (14)
Senza nessi ideali con la tradizione socialista delle masse prese nel loro insieme di classe, senza una saldatura con le forze del partito socialista, le sole che allora rappresentavano anche se in modo manchevole le aspirazioni e la forza organizzata dei lavoratori italiani, l’“ordinovismo” doveva precludersi ogni possibilità di seria guida rivoluzionaria e concludersi come episodico tentativo ideologico-politico fecondo solo per i futuri revisionisti di destra del movimento operaio.
Con questi precedenti e data la sua notevole statura politica, Gramsci doveva apparire ai dirigenti bolscevichi del periodo post-leninista, l'uomo a cui affidare proficuamente il compito di dirigere il partito nella fase, assai complessa e delicata, della “bolscevizzazione” che avrebbe dovuto adeguare, anche strutturalmente, il partito nato a Livorno nel solco della tradizione della Sinistra italiana alle mutate esigenze dello Stato russo, imposte dal nuovo corso della sua economia e della sua politica. Bolscevizzare il partito voleva significare frazionarlo, spezzare la sintesi delle sue varie componenti sociali e di categorie, spersonalizzarlo e disperderlo nelle fabbriche, sui posti di lavoro con l'inconfessato obiettivo di dominarlo dall'alto con una salda rete funzionaristica e spegnere in esso ogni capacità di visione critica, d'iniziativa e di spinta di classe.
Spettava a Togliatti, numero uno della mala compagnia degli epigoni, di portare alle estreme conseguenze, deformandole il più delle volte, certe formulazioni teoriche che la sorte non ha consentito a Gramsci di vedere tradotte in prassi politica e organizzativa.
È del periodo di Gramsci, è forma embrionale del suo “blocco storico” la politica del fronte-unico antifascista, ma Togliatti si servirà poi dell'apporto quantitativo dato da questa politica antifascista per farne un suo strumento di lotta incanalandolo sul piano della seconda guerra imperialista, della guerra di liberazione nazionale e del moto partigiano, chiamando tutto ciò guerra popolare rivoluzionaria per il compimento del secondo Risorgimento italiano.
Ma il capolavoro tattico e strategico di Togliatti sarebbe stato il secondo e definitivo esperimento del Gramsciano “blocco storico”, quello del potere, con la scalata al governo della Repubblica da parte della variopinta sinistra parlamentare.
Che tale piano riesca o no, non avrà in sé e per sé gran peso, ma potrà produrre un fatto positivo: la fine cioè del partito di Togliatti come partito “per eccellenza” della classe operaia e d'ogni richiamo propagandistico, che possa ancora avere presa, alla ideologia di classe, al marxismo rivoluzionario e alla dittatura del proletariato. Questo futuro “partito nuovo”, sarà il partito che esprimerà più concretamente gli interessi del neocapitalismo e del capitalismo di stato e come tale sarà al governo in rappresentanza di questo settore avanzato del capitalismo monopolistico e della sua matrice sociale che è la borghesia progressista.
Se non altro, la tendenza bloccarda di Gramsci, se trovava una sua validità storica in questo suo riallacciarsi allo spirito federativo così vivo e ricco di fermento nelle tendenze politiche risorgimentali e nello spirito regionalistico della nostra gente, non lasciava certo supporre la concezione del partito unico operaio come federazione dei partiti comprendente la democrazia laica e clericale.
Ricordiamo a questo proposito l'appassionata insistenza con cui Gramsci considerava il fallimento della borghesia e poneva come non dilazionabile la necessità storica che il suo ruolo di guida passasse al proletariato, ciò che è in evidente contrasto con l'imparaticcio teorico e l'estrema banalità con cui Togliatti ieri e Berlinguer ed epigoni oggi, questa stessa borghesia rivalorizzano in ogni loro atto. Un partito così variamente composito sarà senza principi, un abborracciamento di ideologie contrastanti, cucite insieme con il filo nero dell'opportunismo e del miraggio del potere.
Bisogna riconoscere che il cretinismo parlamentare in un trentennio di esperienza democratica è divenuto davvero adulto se si considera forza capace di far da trincea avanzata contro il temuto assalto del proletariato rivoluzionario sotto la guida del partito di Lenin, il solo che turba la coscienza degli opportunisti e pone nel dispregio che meritano i valori della democrazia e delle istituzioni parlamentari che costituiscono per loro i pilastri imperituri della civiltà occidentale borghese e cristiana.
Egemonia e democrazia
Tra i tanti significati di democrazia, quello più realistico e concreto mi pare si possa trarre in connessione col concetto di “egemonia”. Nel sistema egemonico, esiste democrazia tra il gruppo dirigente e i gruppi diretti, nella misura in cui lo sviluppo dell'economia e quindi la legislazione, che esprime tale sviluppo, favorisce il passaggio (molecolare) dai gruppi diretti al gruppo dirigente. (12)
Tra i non pochi frammenti e appunti sul concetto dell'egemonia, la cui frequenza e insistenza ricorrenti nell'opera stanno a dimostrare come l'argomento fosse al centro dell'attenzione dell'autore e ne condizionasse in parte la formulazione teorica e la decisione pratica, in evidente contrasto con il marxismo della sua militanza politica, abbiamo scelto Egemonia e democrazia che riteniamo più significativo e più completo, pur nella sua schematicità.
Forse il maggior impegno di elaborazione teorica di tutta l'opera Gramsciana, il punto focale della sua dottrina va ricercato in questo tentativo di approfondimento critico, che è poi l'egemonia, quel turbinoso processo molecolare che rende possibile il passaggio da gruppi o classi diretti a gruppi o classi dirigenti.
È proprio in questo nucleo di pensiero che prende via via corpo l'idea della “egemonia” che finisce per trovare la sua vera, anche se mai completa, collocazione prima nei Consigli come prefigurazione della futura società comunista, quindi nel partito concepito su base cellulare di fabbrica, e infine nel ruolo “prioritario” affidato agli intellettuali e in genere alle classi medie nella visione del blocco storico.
Incominciamo con i Consigli. Per la verità ci siamo più volte, e per ragioni polemiche, riferiti a questi punti nodali della dottrina dei Consigli soprattutto per ciò che concerne la tesi cara a Gramsci del carattere di prefigurazione della società comunista che si voleva attribuire a questo tipo di organizzazione già inserito nel contesto delle strutture della vecchia società che si voleva distruggere.
I termini della nostra polemica con Gramsci allora sottintendevano l'interpretazione che del ruolo dei Consigli sarebbe stata data dall'opportunismo: i consigli (soviet) sono sorti e sorgono storicamente come organi del potere operaio in perfetta sintonia col partito rivoluzionario, nascono quindi da una spaccatura rivoluzionaria e mai da un processo riformista di riconciliazione tra le classi. È proprio per questo netto spartiacque teorico posto dalla nostra lontana disputa, quanto mai viva e attuale, che ogni rilettura di Gramsci deve essere fatta criticamente, alla luce cioè di quanto viene fatto oggi dai tardi epigoni del Gramscismo in nome del suo insegnamento.
Il Consiglio di fabbrica - scrive Gramsci - è il modello dello Stato proletario. Tutti i problemi che sono inerenti alla organizzazione dello Stato proletario sono inerenti alla organizzazione del Consiglio. Nell'uno e nell'altro il concetto di cittadino decade e subentra il concetto di compagno: la collaborazione per produrre bene e utilmente, sviluppa la solidarietà, moltiplica i legami di affetto e di fratellanza. Ognuno è indispensabile, ognuno è al suo posto e ognuno ha una funzione e un posto. Anche il più ignorante e il più arretrato degli operai, anche il più vanitoso e il più “civile” degli ingegneri finisce col convincersi di questa verità nelle esperienze dell'organizzazione di fabbrica: tutti finiscono per acquistare una coscienza comunista per comprendere il gran passo in avanti che l'economia comunista rappresenta sull'economia capitalista. (13)
Par di leggere un brano preso di sana pianta da una pagina di un qualsiasi scrittore del periodo del socialismo utopistico tanto la crescita d'una coscienza del gruppo soggetto è intrisa di "collaborazione per produrre bene" e "utilmente sviluppa la solidarietà, moltiplica i legami di affetto e di fratellanza", e il passaggio molecolare al gruppo dirigente è tanto palesemente indolore.
Gramsci conclude il suo pensiero in questi termini:
II Consiglio è il più idoneo organo di educazione reciproca e di sviluppo del nuovo spirito sociale che il proletariato sia riuscito a esprimere dalla esperienza viva e feconda della comunità di lavoro. La solidarietà operaia che nel sindacato si sviluppava nella lotta contro il capitalismo, nella sofferenza e nel sacrifizio, nel Consiglio è positiva, è permanente, è incarnata anche nel più trascurabile dei momenti della produzione industriale, è contenuta nella coscienza gioiosa di essere un tutto organico, un sistema omogeneo e compatto che lavorando utilmente, che producendo disinteressatamente la ricchezza sociale, afferma la sua sovranità, attua il suo potere e la sua libertà creatrice di storia [...].
L'esistenza del Consiglio dà agli operai la diretta responsabilità della produzione, li conduce a migliorare il loro lavoro, instaura una disciplina cosciente e volontaria, crea la psicologia del produttore, del creatore di storia. (13)
Trascurando in questa sede ciò che invece Gramsci non trascurava affatto, cioè la ricerca dell'effetto che chi scrive cerca di ottenere dall'uso o abuso di un certo mezzo espressivo, quel che colpisce in questa nostra rilettura è l'impressionante assenza, nella funzione dei Consigli, d'una pur minima comprensione dei termini di una contrapposizione di classe che nel biennio 1919-20 aveva raggiunto i suoi punti limite con la Rivoluzione d'Ottobre in Russia e con la sconfitta del moto spartachista in Germania.
Ma vediamo più da vicino il problema dei Consigli nella esperienza personale di Gramsci. E a Torino che egli ne vive il suo maggiore episodio teorico-pratico: una rapida fioritura di Consigli avutasi nel settore più avanzato dell'industria metallurgica, sotto la spinta stimolante degli avvenimenti della rivoluzione russa, fa da supporto pratico-organizzativo al gruppo di Ordine Nuovo che ne diviene il centro di elaborazione teorica.
I Consigli dell'esperienza torinese, più che di una situazione nazionale dove era inesistente una fase d'azione immediatamente rivoluzionaria, erano il riflesso di una situazione internazionale che manteneva tuttora delle possibilità di sviluppi in senso rivoluzionario, era quindi inevitabile che tutta l'impostazione inizialmente data ai Consigli, notevole per apporto intellettuale e per un certo malcelato afflato mistico più che per ponderata analisi dei dati obiettivi, dovesse finire con giravolte teorico-tattiche di non facile giustificazione.
Nella situazione italiana, pur non essendo all'ordine del giorno una prospettiva immediatamente rivoluzionaria, nel suo complesso era tuttavia viva una fase montante nella quale i Consigli potevano trovare ossigeno sufficiente per vivere nella ipotesi di una possibile e non lontana prospettiva di soluzione rivoluzionaria. Ma avevano i Consigli una struttura, una organizzazione nazionale, una rete efficiente di quadri intermedi e soprattutto una raggiunta omogeneità organica tra teoria e pratica? L'originalità dell'Ordine Nuovo e della prima esperienza dei Consigli è stata quella torinese e non ha oltrepassato nella pratica, triste esperienza italiana, i limiti della provincia.
Nella ricerca, tra il 1917 e il 1919, di una egemonia valida alle esigenze della situazione ancora piena di incognite, Gramsci si è dovuto accontentare delle false egemonie o delle egemonie imperfette.
L'errore di fondo di tutta la tematica Gramsciana va individuato in quella sua pretesa, del tutto idealistica, di attribuire agli organi di fabbrica, per loro natura contingenti, mutevoli e ancorati ad interessi particolari, funzioni permanenti e statiche che sono proprie del partito di classe.
L'organizzazione per fabbrica - scrive Gramsci, nella chiusa dello stesso articolo - compone la classe (tutta la classe) in una unità omogenea e coesa che aderisce plasticamente al processo industriale di produzione e lo domina per impadronirsene definitivamente. (13)
Che l'organizzazione dei Consigli non sia riuscita negli anni dell'esperienza ordinovista (1917-20) a comporre la classe (tutta la classe) in una unità omogenea e coesa, lo dimostra il fatto della sua organica incapacità a recepire una funzione di egemonia politica pur nei confronti di un partito come quello socialista non certo concorrenziale sul piano della lotta rivoluzionaria; e infine, come ipotetici organi del potere proletario, i Consigli, nati asfittici, hanno potuto avere una fine onorevole al Convegno di Imola (1920) che, oltre a gettare le basi del partito di classe, è stato anche la naturale sede di approdo e di autoliquidazione delle due maggiori egemonie imperfette esistenti nello schieramento politico italiano, divenuto ormai adulto nello spazio vitale del Partito Socialista: quella dell'Ordine Nuovo, con la fine dei Consigli e quella del Soviet, con la fine dell'astensionismo.
E nel partito che si formerà a Livorno Gramsci porterà, era inevitabile che ciò avvenisse, la sua forma mentis consigliarista, la concezione cioè di un partito che basa la sua egemonia su di una struttura cellulare di fabbrica.
Subito si confonderà, ma senza compromettersi troppo, con la sinistra tradizionale del partito per attendere, dal conflitto latente tra alcune posizioni fondamentali tipiche della “Sinistra italiana” e le esigenze russe del centro della Internazionale, la messa in moto di un processo interno di spostamento di forze (il passaggio molecolare) che avrebbe favorito la formazione di una nuova direzione.
Lo scontro avverrà sul falso e opportunistico problema della scissione (Comitato d'Intesa, 1925) ma all'ordine del giorno del vasto e a volte violento dibattito erano in realtà la politica del fronte unico e la trasformazione della organizzazione del partito dalla sua base territoriale a quella cellulare di fabbrica.
Portare la caratteristica di fabbrica propria dei Consigli nelle strutture del partito, significava per la sinistra contaminarne ideologicamente la natura di organismo unificante le varie e a volte contraddittorie istanze che dal seno della classe salgono fino al partito in un processo di lenta decantazione socio-politica, dalle categorie alla classe, sotto il pungolo costante della vasta gamma delle lotte rivendicazioniste tra capitale e lavoro di cui veramente si sostanzia una propedeutica autenticamente rivoluzionaria.
Nella fabbrica dominano gli interessi che le sono propri e che per loro natura non vanno oltre la rivendicazione corporativa e a questa piegano l'attenzione, i desideri, il comportamento degli operai che vi lavorano.
Portare il partito nella fabbrica significava per noi spezzare il nesso dialettico che deve sempre intercorrere tra partito e classe.
Si voleva dare il valore di scoperta, combattere ogni tendenza corporativa portando il partito nelle fabbriche e si è finito poi con l'immiserire il partito costringendolo sul binario opposto a portare avanti cioè una politica corporativa (comitati di gestione, ecc).
La nuova direzione improntata alla linea gramsciana che guiderà il partito fino alle leggi eccezionali (novembre 1926) sarà ancora un pallido esempio di egemonia imperfetta, data l'incapacità del vertice di riuscire ad allargare la sua base di influenza potenziando l'apparato dei funzionari ma perdendo sempre più credito dalla parte della reale maggioranza del partito che, ad onta delle manovre condotte senza scrupoli e delle protezioni internazionali sfruttate da buoni mercanti della politica, era tuttora sentimentalmente sul terreno della sinistra.
Tuttavia va riconosciuto a Gramsci la capacità di avere seguito in questo arrembaggio al potere, molto da vicino e con acuto e spregiudicato senso politico, la fase del processo molecolare interno di cui ci stiamo occupando, dimostrando nella pratica, anche col perfido ricatto amministrativo, di sapere attingere più ai metodi appresi dalle pagine di Machiavelli che da quelle di Marx e Lenin.
Del resto non ebbe titubanza nel riconoscerlo rispondendo ad una nostra amara constatazione fattagli in proposito.
Nella storia del movimento operaio si tornerà a parlare dei Consigli ma in modo più dimesso e in termini meno esaltanti, svuotati del contenuto originario che Gramsci attribuiva loro e che di fatto non avevano mai avuto, quello cioè di...
essere un tutto organico, un sistema omogeneo e compatto che lavorando utilmente, che producendo disinteressatamente la ricchezza sociale, afferma la sua sovranità, attua il suo potere e la sua libertà creatrice di storia. (13)
Questa egemonia i Consigli non l'hanno mai raggiunta né quando Gramsci scriveva queste righe né tanto meno, come organi del potere rivoluzionario, ridotti ormai dagli epigoni al rango di organi permanenti del sindacato di fabbrica, una specie di sostituto, forse più rappresentativo, delle vecchie commissioni interne. Nessuno nega che non si sia verificata con ciò una crescita di potere egemonico, ma a favore dell'apparato sindacale, in nessun caso dei delegati al Consiglio anche se questi sono stati eletti dalla base con tutto il rispetto delle regole democratiche.
Si tratta comunque di una egemonia sviluppatasi su un piano di gerarchia sindacale che solo il fervore di certi epigoni e di certo pressapochismo culturale, oggi in auge, possono considerare nel quadro dell'originaria concezione Gramsciana.
Non vorremmo che si pensasse, con questo nostro richiamo, alle esperienze più recenti, ad un nostro tentativo di servircene come dimostrazione pratica di errori che troverebbero la loro matrice ideale nel pensiero di Gramsci, o più esattamente nella sua frammentarietà; ma è nostra cura mettere in evidenza questa fase dei Consigli che precede la conquista del potere, che sta tutta entro la dinamica del conflitto di classe e che vede il proletariato e i suoi organi di lotta, compresi i Consigli, in condizione, per usare la terminologia di Gramsci, di gruppo diretto (noi diremmo di classe soggetta e subalterna). In questo passaggio molecolare, più o meno celebre, tipico del periodo di crisi profonda in cui sorgono i Consigli, ipotizzare un loro processo di sviluppo organico sul tronco marcio del sistema capitalista, che la rivoluzione dovrà distruggere, è una formulazione per lo meno mitizzante in quanto non trova alcun legame con la realtà del contesto socio-economico. Due momenti diversi per tattica e per strategia che non possono essere confusi.
A proposito di metodologia ci piace ricordare ciò che scrive Lenin di Marx:
In Marx non vi è traccia del tentativo di inventare di sana pianta delle utopie, di fare vane congetture su quel che non si può sapere. Marx pone la questione del comunismo come un naturalista porrebbe, per esempio, la questione dell'evoluzione di una nuova specie biologica, una volta conosciuta la sua origine e la linea precisa della sua evoluzione. (14)
Consigli e controllo operaio
Era inevitabile che il revisionismo più deteriore del secondo dopoguerra si impossessasse e facesse sua l'arma dei Consigli rifacendosi, si capisce, all'ordinovismo del primo dopoguerra secondo l'elaborazione teorica e l'impostazione politica datane da Gramsci. Tuttavia il vizio di origine, quello di considerare la fabbrica come la "cellula d'un organismo", nella quale "l'economia e la politica confluiscono", nella quale "l'esercizio della sovranità è tutt'uno con l'atto della produzione" e nella quale "si realizzano embrionalmente tutti i principi che informeranno la costituzione dello stato dei consigli", è presente in questa riedizione dei consigli e consegue, come in Gramsci, ad una sottovalutazione se non addirittura ripulsa della funzione storica del partito di classe. Ma con questa fondamentale differenza: la strutturazione dei Consigli, il loro inserimento nel processo produttivo, la loro abilitazione tecnica, la loro stessa politica produttivistica erano visti da Gramsci nella fase del primo Ordine Nuovo (1919/20) in funzione della conquista del potere, come momento iniziale e formativo dell'esercizio della dittatura di classe del proletariato, mentre per i revisionisti tutto ciò è visto come naturale, pacifico, democratico inserimento delle forze del lavoro nello Stato; il problema del potere si concretizzerebbe così in una crescente abilitazione di queste forze alla gestione del potere in collaborazione con quelle storiche del capitalismo che di fatto detengono questo potere in posizione di forza egemonica e intendono sì accettare quelle collaborazioni che servono in definitiva a conservare e rafforzare il potere economico esistente, ma non intendono spartirlo con chi mirasse ad incidere sui diritti acquisiti d'una egemonia di classe. Sotto questo rapporto si giudichi oggi la politica del preteso controllo operaio tentata, con i risultati che tutti conoscono, attraverso i comitati di gestione e le teoriche postulazioni della cogestione, che è servita a spingere gli operai a produrre il maggiore sforzo produttivo nella fase più delicata e difficile del riassestamento del potenziale economico capitalista. Di fatto i comitati sono finiti nel ridicolo, spazzati via dal processo produttivo nel momento in cui i padroni hanno ritenuto che la loro opera di collaborazione era stata portata a compimento e potevano perciò sentirsi di nuovo veramente padroni.
È interessante seguire il tentativo di teorizzare il problema del controllo operaio che
deve esercitarsi attraverso istituti sorti nella sfera economica, laddove è la fonte reale del potere [...] La sua funzione dovrebbe consistere nel contrapporre alla democrazia aziendale, di marca padronale, la rivendicazione della democrazia operaia [per] spostare sempre più il centro della lotta sul terreno del potere reale e delegante, facendo maturare e avanzare gli istituti nati dal basso, la cui natura sia già affermazione del socialismo.
La lotta del proletariato servirebbe così...
ad acquistare giorno per giorno nuove quote del potere, nel senso di contrapporre al potere borghese la richiesta, l'affermazione e le forme di un potere nuovo che venga direttamente e senza deleghe dal basso.
La derivazione dal pensiero di Gramsci è evidentissima in questa impostazione dovuta ad alcuni giovani dell'apparato del PSI (“Sette tesi sulla questione del controllo operaio”, Mondo Operaio n. 2, 1958). Ma più evidente è il distacco che separa questo schema, intellettualistico e dilettantistico insieme, dalla visione finalistica e di superamento rivoluzionario del primo Gramsci.
In questi giovani è vivo l'impegno idealistico che li porta a concepire la questione del controllo operaio in astratto, senza tener conto dell'esperienza che essi stessi hanno fatto, negativamente, nella milizia attiva delle formazioni politiche che si richiamano al proletariato. Essi concepiscono infatti fabbriche ideali e ideali legami organizzativi di fabbriche sul piano nazionale; concepiscono istituti a cui affidano il compito di scavare in profondità nel terreno economico-sociale del capitalismo, azione che dovrebbe comportare una evidente lacerazione nel suo diritto di proprietà, e postulano nuovi diritti basati su conquiste operaie che aumenterebbero di potenza materiale in misura proporzionale all'aumento del grado di conoscenze strumentali; prospettano insomma una realtà capitalistica d'interessi economici ben determinati che si fa realtà socialista per virtù insite al processo produttivo, specie di slancio perenne di vita che si articolerebbe per di dentro dalla singola fabbrica al complesso delle fabbriche su su fino al vertice dello stato; molecola di natura socialista della fabbrica dilatata fino a divenire realtà socialista nello stato. Avviene così che:
il passaggio pacifico al socialismo invece che verificarsi attraverso il parlamento, va verificandosi ogni giorno, in questo maturare della classe [senza scosse violente, senza rivoluzione, insomma - nda] attraverso l'opera di questi nuovi istituti di fabbrica.
Par quasi che questi compagni non siano mai entrati in una fabbrica e non conoscano, anche per sentito dire, in quale clima di costrizione morale e di paura gli operai siano oggi costretti a vivere. Non è tanto il ricorso poliziesco al “reparto confino” istituito nei grandi complessi industriali, che esprime l’animus del capitalismo, quanto l'obiettiva possibilità di cui questo liberamente dispone di cambiare, quando e come vuole, la stessa natura sociale delle proprie maestranze, mettendo al posto dell'operaio qualificato di origine e tradizione proletaria, lavoratori reclutati nelle tante zone depresse dell'economia italiana, quando non lavoratori più adatti a spezzare gli scioperi che a far funzionare una macchina.
Va da sé che in questa concezione - in cui un progressismo indefinito delle conquiste operaie si alterna ad una propedeutica riformista della lotta e tutte e due si completano su di un piano nel quale dialettica, metodologia marxista e visione catastrofica del salto rivoluzionario sono del tutto banditi - il partito non poteva ridursi che a semplice...
funzione di strumento della formazione politica del movimento di classe (strumento cioè, non di una guida paternalistica, dall'alto, ma di sollecitazione e di sostegno delle organizzazioni nelle quali si articola l'unità di classe).
Ma le teorie che non coincidono con la realtà sono teorie “fasulle”. E riportiamoci alla realtà.
Anche là dove i Consigli e il controllo operaio hanno avuto recenti realizzazioni, hanno vissuto giornate di potenza e di gloria nel clima arroventato dell'insurrezione come in Ungheria e in Polonia, o vengono stroncati dal ritorno offensivo del regime contro cui questi organismi erano sorti e insorti (Ungheria) oppure vengono accortamente svuotati di ogni contenuto classista e rivoluzionario e piegati alle esigenze del regime imperante (come sarebbe avvenuto in Ungheria, se Imre Nagy avesse avuto la possibilità materiale di instaurare il suo regime così come in Polonia ha operato Gomulka, così come in Jugoslavia ha operato Tito).
Dunque anche il controllo operaio esercitato dai Consigli o esplica il suo compito nel momento dell'azione rivoluzionaria in quanto arma di battaglia o si riduce ad un mezzo banalissimo di conciliazione per allestire la solita truffa riformista.
Mentre Gramsci aveva concepito questi organismi di fabbrica, a parte la critica da noi formulata alla loro impostazione teorica, nel quadro di una prospettiva rivoluzionaria, gli epigoni di Gramsci li hanno concepiti e li concepiscono tuttora nel quadro di una prospettiva riformista e dichiaratamente controrivoluzionaria.
Concludiamo il nostro esame affermando che i Consigli sono gli organi del potere e opereranno come tali quando la questione del potere proletario sarà posta all'ordine del giorno della storia.
Ma anche allora non potranno operare da soli, non diventeranno autosufficienti per virtù di nessuna costrizione teorica; non perverranno cioè agli obiettivi per cui sono sorti se non funzioneranno da canali vettori dell'ondata rivoluzionaria imbriglianti l'impeto disordinato e irrazionale delle grandi masse in movimento alle quali tuttavia viene a mancare la coscienza storica del fine e la concezione universale della rivoluzione che sono proprie del partito della classe operaia.
La rivoluzione dell'Ottobre russo fu possibile perché ebbe il partito bolscevico più i Consigli.
La rivoluzione dell'Ottobre ungherese è fallita perché ebbe i Consigli meno il partito bolscevico.
La crisi della IV Repubblica ha fatto riemergere De Gaulle perché il proletariato francese si è trovato davanti a questa svolta senza partito bolscevico e senza Consigli.
Correnti d'opinione e la nuova metafisica
Una corrente d'opinione che intenda rimanere tale, che volutamente eviti di legarsi ad una esperienza e neghi ogni partecipazione attiva e conseguente agli accadimenti di ordine economico, sociale e politico quali la storia va perennemente intessendo, potrà anche dar adito ad una problematica ingegnosa e forse interessante nel mondo della pura cultura ma è destinata a durare lo spazio d'un mattino e rimanere praticamente infeconda come sono risultate infeconde nella storia del pensiero anche le più ardite costruzioni metafisiche. E di metafisica è lecito parlare ogni qualvolta la trama d'una costruzione teorica non si intenda far coincidere con la trama delle vicende umane, quando cioè si ipotizza un mondo di idee astratte, geometricamente ordinate, una specie di Città del Sole con in più richiami, intelligentemente vagliati, ai classici del marxismo e una fitta, aggiornatissima scelta di dati statistici.
Vogliamo dire in sostanza che una corrente di opinione che si estranea per principio dal vivo degli accadimenti e non conferma la validità di ciò che afferma come dato teorico al fuoco delle lotte che caratterizzano il nostro tempo, si preclude ogni possibilità di trasformarsi in una minoranza operante, inserita concretamente nel solco degli avvenimenti, capace di sentirne le esigenze sul piano di classe e di tradurle in termini di lotta rivoluzionaria.
Una corrente di opinione così concepita e articolata, anche quando si richiama alla ortodossia marxista, non può essere considerata che “tendenzialmente” marxista perché svuota questa dottrina nel suo più alto contenuto, facendo della dialettica una semplice astrazione, un gioco di idee puramente formale e dimentica che nella mente degli uomini vivono riflesse tutte le contraddizioni che sono proprie della società organizzata sul modo di produzione capitalista.
Nei primi anni del secolo questa tendenza si materializzò nelle forme di un empirismo operaistico “schifato” della politica quietista e parlamentare dei partiti e finì per perdersi tra gli ingranaggi di un grigio corporativismo di categoria come avvenne per il sindacalismo barricadiero dei Corridoni e dei De Ambris condotto sul filo dell'anarchismo o per quello dei Labriola ed Enrico Leone, improntato ad un estremismo volontarista.
Più vicina a noi è significativa l'esperienza ordinovista dei Consigli di fabbrica, che ebbe il suo centro d'attrazione a Torino, più particolarmente nel complesso industriale Fiat, per quel tanto ch'essa elaborò in sede di dottrina e tentò sul piano organizzativo al di là e contro il Partito Socialista, che si riteneva strutturalmente vecchio e incapace di una iniziativa rivoluzionaria, nella illusione che non nei quadri di un partito e nella forma della sua organizzazione ma sul posto di lavoro e nel cuore delle masse industriali potessero autoformarsi la coscienza e le forze di una eversione rivoluzionaria congeniali al proletariato moderno.
L'errore commesso dall'ordinovismo consiste nell'aver voluto considerare sul piano d'una teoria generale ciò che era soltanto una esperienza di categoria e fare della fabbrica il microcosmo in cui si riflettesse tutto il complesso e contraddittorio moto della economia.
Muovendo dalla fabbrica - scriveva Gramsci - vista come unità, come atto creatore di un determinato prodotto, l'operaio assurge alla comprensione di sempre più vaste unità, fino alla nazione che è nel suo insieme un gigantesco apparato di produzione [...].
Ma questo concrescere della coscienza operaia negli organi dello sviluppo strumentale del capitalismo serve più a legare strettamente l'operaio al processo della produzione che a favorirne la liberazione. Gramsci vedeva infatti l'unità laddove avrebbe dovuto vedere il punto nevralgico del contrasto di classe e trovare lì le ragioni obiettive per le quali le forze del lavoro alienato poste contro quelle che impongono tale alienazione tendono a negare e a rompere questa falsa unità. Era implicito l'invito agli operai da parte di questa corrente di considerare la fabbrica come se fosse casa loro. Su questo errore di prospettiva sarà poi orientata la politica socialcomunista della guerra di liberazione antifascista che costringerà le masse operaie a battersi per esercitare un controllo diretto sulla produzione (comitati di gestione) e, quel che è peggio, a difendere le fabbriche, le macchine e a ricostruire quelle distrutte dalla violenza della guerra.
Che poi l'ordinovismo si sia ridotto ad un semplice tentativo nel quadro di un insorgente neoidealismo allora di moda senza alcuna seria rilevanza sul piano di una nuova strategia proletaria, è materia che meriterebbe d'essere studiata al lume d'una più severa critica marxista.
E sintomatico comunque, e non farà meraviglia, che l'ordinovismo debba più tardi trovarsi a suo agio al vertice del Partito Comunista uscito dal Congresso di Livorno per servire da veicolo cosciente a quella bolscevizzazione che doveva aprire la fossa alla rivoluzione d'Ottobre e sbarrare la strada ad ogni seria ripresa di classe su scala internazionale. In posizione polemica con quella torinese dell'ordinovismo si situa l'esperienza realizzata attorno al Soviet di Napoli per la quale il toccasana infallibile risiedeva nell'astensionismo come reazione al parlamentarismo cafone, corrotto e corruttore che dominava la politica italiana e particolarmente quella meridionale.
Aver creduto nell'astensionismo come ad un correttivo di classe capace di preservare le masse operaie e il Partito Socialista da ogni contaminazione parlamentaristica, era quanto di più arbitrario, astratto e malinconicamente intellettualistico poteva capitare tra i piedi del proletariato italiano.
Si è trattato ancora una volta di ridurre un modesto e contingente, pur se necessario, momento di tattica, quello astensionista, a canone politico sempre vero e sempre valido, di costringerlo a camminare sulle malferme stampelle dell'idealismo, commettendo così un madornale e imperdonabile errore: quello di vedere i problemi del partito e della rivoluzione partendo dall'angusto angolo visuale dell'astensionismo e non inversamente.
Nell'ordinovismo come nell'astensionismo, per non riferirci che ad episodi di maggior peso, la politica di classe non è uscita dal gabinetto di analisi teorica e ognuna di queste esperienze, a modo suo, è servita in definitiva a ritardare il processo di formazione del partito che avrebbe dovuto operare in quella fase storica come l'indispensabile motore della rivoluzione socialista.
Da allora e per questi motivi, il corso del movimento operaio italiano è stato faticoso nel suo procedere, distorto e contraddittorio, fino a condurci alla presente, grave stagnazione. Un movimento politico di classe non sorge mai come semplice corrente di opinione ed è partito di classe non tanto per quel che pensa e dice di pensare ma per la dimostrata volontà e capacità di passare concretamente dalla teoria alla pratica riducendo l'enunciato teorico a termine d'azione di classe nei limiti obiettivi della sua realizzabilità.
Il marxismo, si sa, non è mai stato un corpo di dottrine di tipo illuministico, non ha mai preteso di impersonare l'assoluto vero e non si è mai attribuito carattere di indiscriminata universalità ma la sua interpretazione è strettamente legata alla contingenza e alla relatività, dialetticamente espresse, del momento capitalista.
C'è qualcosa di “necessitato”, di organico, di strutturalmente inevitabile e inconfondibile nell'atto del sorgere, quale che sia il momento della storia in cui si inserisce, di un movimento dal complesso della classe e che alla classe si richiami per averne fatte proprie le esigenze, i metodi e gli obiettivi.
A questo riguardo è particolarmente notevole e significativo un esame del nostro movimento (15), il solo che nelle tormentate e mutevoli vicende della politica italiana sia rimasto ancora, a volte con la forza della disperazione, alle ragioni storiche del proletariato e alla ideologia rivoluzionaria del marxismo.
È tanto più significativa questa constatazione quando si sa che tutto ciò avveniva in mezzo alla violenza della II Guerra Mondiale, a cui doveva poi far seguito l'attuale abbrutimento delle masse operaie operato dalla ideologia borghese della democrazia parlamentare cui si sono piegati i partiti ad origine cosiddetta operaia, i quali vorrebbero ora dar ad intendere alle masse che questa democrazia rappresenta una fase storicamente necessaria, sulla cui base il socialismo germoglierà spontaneamente come frutto maturo della più vigorosa e feconda pianta della libertà cresciuta sul terreno del capitalismo e concimata col sudore e col sangue del proletariato.
(4) Plekhanov, Les questions fundamentales du marxisme.
(6) Engels, Ludovico Feuerbach.
(7) Gramsci, II materialismo storico e la filosofia di B. Croce.
(8) Marx, Prefazione a: Per la critica dell'economica politica.
(9) Lenin, Materialismo e empiriocriticismo.
(10) Marx, Il Capitale, "Poscritto alla II Edizione".
(11) Gramsci, Passato e Presente.
(12) Gramsci, Note sul Machiavelli.
(13) Gramsci, L'Ordine Nuovo, articolo apparso sul n. 21 dell'ottobre 1919.
(14) Lenin, Stato e Rivoluzione.
(15) Ci si riferisce alla nascita del Partito Comunista Internazionalista, sorto nel 1943 quale unica risposta alla degenerazione del PCI e alla Seconda Guerra Mondiale.
(16) Gramsci, Lettere dal Carcere.
(17) Gramsci, Il Risorgimento.
(18) Badaloni, Il marxismo di Gramsci, Einaudi, Torino 1975.
(19) Labriola, Del materialismo storico.
(20) Lenin, Opere complete, Editori Riuniti, Roma 1966.
(21) Lenin, La Rivoluzione Proletaria e il rinnegato Kautsky.
(22) Marx-Engels, Opere Scelte, Editori Riuniti, Roma 1952.
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