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Con l'esaurirsi del mito dei Consigli per l'intima e organica incapacità di irradiarsi su scala nazionale e limitatamente al settore industriale, il ruolo egemonico, così come concepito da Gramsci e dal gruppo ordinovista, si sposta nel partito attraverso un processo di formazione che Gramsci non ricerca nella storia del movimento operaio e nella tematica marxista, ma nell'intuizione non estatica, non lirica, non artistica ma soltanto politica attinta alle fonti del neoidealismo francese (Bergson).
L'intuizione politica non si esprime nell'artista ma nel “capo” e si deve intendere per “intuizioni” non la “conoscenza degli individuali” ma la rapidità di connettere fatti apparentemente estranei tra loro e di concepire i mezzi adeguati al fine, per trovare gli interessi in gioco e suscitare le passioni e indirizzare questi a una determinata azione [...] D'altronde, il “capo” in politica può essere un individuo, ma anche un corpo politico più o meno numeroso [...]. Se si dovesse tradurre in linguaggio politico moderno la nozione di “principe” così come essa serve nel libro di Machiavelli, “principe” potrebbe essere un capo di stato, un capo di governo ma anche un capo politico che vuole conquistare uno stato o fondare un nuovo tipo di stato: in questo senso principe potrebbe tradursi in lingua moderna “partito politico”. (12)
Sempre sullo stesso argomento Gramsci attenua la funzione del “capo” e pone l'accento sull'“organismo” preoccupato forse della precarietà del singolo più soggetto ad azione compiuta, a processi di erosione per l'arroventarsi delle passioni e del fanatismo che possono distruggere il carattere “carismatico” del condottiero, come la storia largamente dimostra. Scrive:
II moderno principe, il mito-principe, non può essere una persona reale, un individuo concreto; può essere solo un organismo; un elemento di società complesso nel quale già abbia iniziato il concretarsi di una volontà collettiva riconosciuta e affermatasi parzialmente nell'azione. Questo organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il partito politico: la prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a divenire universali e totali. (12)
Questo precostituirsi e immedesimarsi nel divenire stato è al centro del pensiero di Gramsci il quale precisa ancora meglio tale visione politica del partito-stato:
II partito politico ha “il potere di fatto”, esercita la funzione egemonica e quindi equilibratrice di interessi diversi nella “società civile, che però è talmente intrecciata di fatto con la società politica che tutti i cittadini sentono che esso invece regna e governa. In questa realtà, che è in continuo movimento, non si può creare un diritto costituzionale, del tipo tradizionale, ma solo un sistema di princìpi che affermano come fine dello stato la sua propria fine, il suo proprio sparire, cioè il riassorbimento della società politica nella società civile”. (12)
Non è di secondaria importanza notare il nesso esistente tra le due concezioni del potere: al vecchio principe di Machiavelli affidava il compito di liberare l'Italia dal dominio straniero dando così inizio allo stato moderno, precisando le norme, lecite o no, purché atte a mantenere lo stato; mentre al nuovo principe, cioè il partito politico, non la classe che lo esprime, Gramsci affida il compito della trasformazione della società. La sola affinità in questo paradossale accostamento consiste nel tipo di esercizio del potere che nell'un caso o nell'altro è basato sulla dittatura dall'alto sia nella persona di un capo sia in quella di un partito politico. Aleggia su tutta l'impostazione teorica del principe-partito politico, come nebulosa, il principio leninista della dittatura proletaria la cui funzione egemonica di classe finisce per attenuarsi e svanire in una funzione "egemonica e quindi equilibratrice di interessi diversi", in una mistificazione vera e propria tipica come in un qualsiasi stato di diritto della tradizione democratico-borghese.
Per avere una conoscenza più approfondita di come Gramsci senta il problema dello stato bisogna riandare a quella forma-sintesi del suo “blocco storico” in cui si attua la socializzazione della scienza politica e della scienza economica. In un passo delle Lettere dal carcere Gramsci, nel tentativo di precisare il concetto di intellettuali in quanto mediatori del consenso indispensabile ad ogni esercizio di egemonia, scrive:
Io estendo molto la nozione di intellettuale e non mi limito alla nozione corrente che si riferisce ai grandi intellettuali. Questo studio porta anche a certe determinazioni del concetto di Stato che al solito è inteso come società politica (o dittatura o apparato coercitivo per conformare la massa popolare secondo il tipo di produzione e l'economia di un momento dato) e non come un equilibrio della società politica con la società civile (o egemonia di un gruppo sociale sull'intera società nazionale esercitata attraverso le organizzazioni cosiddette private, come la Chiesa, i sindacati, le scuole, ecc.) e appunto nella società civile specialmente operano gli intellettuali (Benedetto Croce, per esempio, è una specie di papa laico ed è uno strumento efficacissimo di egemonia anche se volta per volta possa trovarsi in contrasto con questo o quel governo ecc). Da questa concezione della funzione degli intellettuali, secondo me, viene illuminata la ragione o una delle ragioni della caduta dei comuni medievali, cioè del governo di una classe economica, che non seppe crearsi la propria categoria di intellettuali e quindi esercitare un'egemonia oltre che una dittatura [il corsivo è nostro]. (16)
Prima ancora di prendere in esame la distinzione gramsciana tra egemonia e dittatura, ci preme chiarire il perché della nostra sottolineatura fatta nel brano sopra citato e lo facciamo con le parole di Lenin che definisce in modo lapidario e per noi definitivo, la reale natura dello Stato:
Per Marx lo Stato è l'organo del dominio di classe, un organo di oppressione di una classe da parte di un'altra; è la creazione di un ordine che legalizza e consolida questa espressione, moderando il conflitto tra le classi. Per gli uomini politici piccolo-borghesi l'ordine è precisamente la conciliazione delle classi e non l'oppressione di una classe da parte di un'altra; attenuare il conflitto vuoi dire per essi conciliare e non già privare le classi oppresse di determinati strumenti e mezzi di lotta per rovesciare gli oppressori. (14)
Dal che si deduce in linea di massima, che chi dissente da questa visione dello stato propria di Marx e di Lenin non ha i piedi nel marxismo e conseguentemente non potrà né aspirare né operare in funzione di prospettive storiche quali sono ipotizzate dalla dottrina e dalla prassi rivoluzionaria rigidamente di classe proprie del marxismo.
Tutto Gramsci è da esaminare partendo dall'angolo visuale della classe fondamentale, ciò che la miriade di intellettuali che si sono cimentati fin qui ad esaminare le mille facce del gramscismo non hanno fatto.
Il problema dello stato, a cui approdano necessariamente tutte le filosofie politiche, mette a nudo il vero volto del gramscismo nel suo contenuto impregnato di neo-moderatismo e di pragmatismo a sfondo pedagogico. E la logica conclusione d'una faticosa, sofferta e a volte distorta concettualità che avrebbe voluto mirare, senza riuscirvi, alla definizione d'una nuova visione del mondo a cui mancava un suo particolare e caratteristico retroterra culturale e politico, un nucleo teorico originale e unitario, fortemente radicato in una realtà viva da plasmare, imposta da una svolta nuova e concretamente feconda della storia, quella viva e creatrice che attende, per esprimersi, il suo profeta. Ma non di un profeta che si orpellasse del ciarpame liberaldemocratico d'un pur grande Croce e dello spiritualismo mitico e decadente dei Bergson e dei Sorel.
Rifacciamo a ritroso l'iter percorso dal pensiero di Gramsci. Inizia con l'idea che è l'organizzazione dei Consigli, come prefigurazione della società futura, la forza motrice della rivoluzione; poi questa idea-forza si sposta nel partito di classe, quale che sia il modo gramsciano di concepirne l'organizzazione. Fin qui la fase che si chiude col crollo del partito per la promulgazione delle leggi eccezionali fasciste. Nel carcere inizia la seconda fase, quella del ripensamento critico sorretto dall'approfondimento della sua già vasta cultura, il tutto filtrato attraverso gli alti e bassi di una cupa e dolorosa solitudine che ha in buona parte condizionato ed esasperato quella potente macchina pensante, ch'era il suo cervello, in un organismo sempre più corroso dal male. È questo il periodo fecondo della sua maggiore e più smarrita elaborazione in cui è evidente il segno di una visione teorica che vien fuori da acute e attentissime letture più che da una realtà effettuale: teoria della scissione, processo molecolare, rivoluzione passiva, guerra di posizione, consenso, egemonia e blocco storico come momento di sintesi del lungo processo di sviluppo democratico che si identifica e si placa nello spirito assoluto, punto limite della filosofia-politica che vedrebbe così risolto il passaggio dal regno della necessità e della coazione al regno della libertà che si concretizza nel governo dei produttori.
C'è chi ha osato definire questo schema come la “nuova, originale ed organica via al socialismo” cosa che sul piano dottrinario non può neppure essere definita revisionismo al marxismo scientifico, neppure teoricamente ad esso parallela, ma come la sua fondamentale contrapposizione.
Nei Quaderni del carcere Marx e Lenin assumono pressappoco la stessa importanza d'un qualsiasi abate Bresciani.
È quindi sul problema dello Stato che avviene la verifica della validità d'una dottrina filosofico-politica. In contraddizione a Marx e Lenin, Gramsci scrive:
Compito educativo e formativo dello Stato, che ha sempre il fine di creare nuovi e più alti tipi di civiltà [anche lo Stato capitalista? notiamo noi], di adeguare la “civiltà” e la moralità delle più vaste masse popolari alle necessità del continuo sviluppo dell'apparato economico di produzione, quindi di elaborare anche fisicamente dei tipi nuovi di umanità. Ma come ogni singolo individuo riuscirà a incorporarsi nell'uomo collettivo e come avverrà la pressione educativa sui singoli ottenendone il consenso e la collaborazione, facendo diventare “libertà” la necessità e la coercizione? (12)
In un altro passo affronta il problema della concezione del diritto a mezzo del quale lo stato esprime l'essenzialità vitale del suo essere stato:
Se ogni stato tende a creare e a mantenere un certo tipo di civiltà e di cittadino (e quindi di convivenza e di rapporti individuali), [...] il diritto sarà lo strumento per questo fine (accanto alla scuola ed altre istituzioni ed attività) e deve essere elaborato affinché sia conforme al fine [...]. (12)
E insiste a martellare questi stessi concetti-base intorno allo stato che considera come ente a cui attribuisce il compito primario d'ordine pedagogico:
In realtà, lo stato deve essere concepito come “educatore”, in quanto tende appunto a creare un nuovo tipo o livello di civiltà [...] e, in quanto opera soprattutto sulle “forze economiche” e su quelle della sovrastruttura anche in questo campo è uno strumento di “razionalizzazione, di accelerazione e di taylorizzazione” [per concludere che] il diritto è dunque repressivo e negativo (nella misura che preme, incita, sollecita e 'punisce') di tutta l'attività positiva di incivilimento svolta dallo stato. (12)
Ma si tratta d'una lezione di diritto costituzionale sempre e comunque valida e a cui bisogna non solo credere ma anche sottostare, sulla base del rispetto personale, ad una storiografia integrale, anche se in questo contesto è evidente il contrasto con le verità parziali ed episodiche che tale diritto negano in quanto fittizio e del tutto inesistente?
Quando Gramsci scriveva tutto ciò sul diritto in una cella del carcere fascista, vittima del conflitto di classe, aveva forse coscienza di dare il sacrificio di se stesso e di tanti altri come momento espiatorio dovuto a tutta l'attività positiva di incivilimento svolta dallo stato? Questa specie di statolatria, così ricorrente negli scritti di Gramsci, è dovuta al bisticcio teorico sul modo di concepire la storia, tra una storia “integrale” cioè universalisticamente intesa, e una storia “polemica” quindi unilaterale; appunto critico, quest'ultimo, che lo stesso Gramsci faceva ad esempio al volume di Salvemini sulla Rivoluzione Francese, ma soprattutto al persistere in lui della tendenza al convogliamento delle nuove forze sociali emergenti (consigli, partito) sull'asse portante dell'attività positiva di “incivilimento” che egli attribuisce allo stato e il loro concrescere con tale attività. Aveva infatti scritto:
La supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi, come “dominio” e come “direzione intellettuale e morale”. Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che tende a “liquidare” o a sottomettere anche con la forza armata ed è dirigente dei gruppi affini e alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere e anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere anche “dirigente”. (17)
È un riecheggiamento dei motivi di fondo già sostenuti all'epoca dei Consigli con l'idea fallace del loro coinvolgimento e crescita sul tronco dello stato.
È ora di iniziare, in questo nostro excursus del pensiero di Gramsci, a tirare i remi in barca e a formulare le prime conclusioni critiche.
Le considerazioni intorno ad un incompiuto Risorgimento con un capitalismo appena incipiente, senza una seria connotazione di classe, senza un proletariato moderno con precisa fisionomia economica e politica, perciò confuso genericamente nel popolo, ancora esso stesso popolo, con la pluralità diversamente caratterizzata delle classi medie e degli intellettuali, in una parola un Risorgimento nazionale senza una vera e propria coscienza nazionale e soprattutto senza la capacità obiettiva di darsi le idee quindi i mezzi d'una rivoluzione democratica borghese. Tali considerazioni risospingono Gramsci alle influenze culturali gobettiane e a certe loro affinità intellettuali, con questa differenza: che l'intuizione politica di Gobetti era assai più ardita, lineare e conseguente di quanto non lo fosse quella di Gramsci; l'uno affidava al proletariato il ruolo di protagonista della rivoluzione liberale; l'altro era culturalmente irretito nella permanenza d'una rivoluzione passiva e della guerra di posizione, caratteristiche del Risorgimento italiano, che poteva al massimo concludersi in una Costituente repubblicana sempre quindi nel quadro istituzionale borghese. Motivi ideali e politici che riemergeranno nel cuore della II Guerra Mondiale con protagonisti diversi ma con non diversa conclusione.
Tutta l'opera di Gramsci, pur nella sua disorganicità e incompiutezza, dà l'impressione d'una ammirevole girandola di problemi di filosofia, di politica, di letteratura, un po' meno di economia, di cui preferiva esaminare i riflessi sovrastrutturali che non offrono la possibilità di sintesi organica da cui trarre un preciso insegnamento. Eppure gli anni che stiamo vivendo portano in buona parte il segno della sua personalità forse perché, più d'ogni altro è rimasto imbrigliato nella rete non solo culturale della decadenza capitalista, incapace perciò di vederne i segni premonitori del superamento rivoluzionario.
Ma due trattazioni caratterizzano in pieno il suo mondo ideologico e politico, quella sua “egemonia” a cui ci siamo ampiamente riferiti e quella della “guerra di posizione” che rimangono i pilastri su cui poggiano più o meno validamente le sue più rilevanti conclusioni politiche.
Tutto il periodo di tempo preso in esame da Gramsci è la storia risorgimentale la cui connotazione maggiore è quella della rivoluzione passiva che ha per corollario, in termini “militari”, la guerra di posizione in cui il proletariato gioca il ruolo di classe sottoposta che tende all'egemonia come fine storico ma non è né può essere egemone; anzi come classe antagonista è aperta al conflitto di classe per difendere il diritto alla sopravvivenza e sotto questo rapporto la lunga serie delle lotte rivendicative hanno più carattere corporativo che di vera e propria lotta di classe, aperta perciò tanto agli slanci offensivi fino all'uso episodico della violenza quanto alle repressioni feroci e ad ogni forma di contaminazione ideologica, politica e religiosa esercitata dagli intellettuali e dal clero, strumenti tradizionali dell'avversario di classe.
Non vi è dubbio che, in questo inarrestabile conflitto di classe, il proletariato è protagonista essenziale quanto lo è il capitalismo, ma non è egemone dal punto di vista del potere reale e quindi dello stato che lo esprime perché è fuori e contro questo stato in quanto antagonista della sua classe dirigente che tende a sopraffare per di venire esso stesso dirigente.
Il perenne processo molecolare di aggregazione e disgregazione che ora ristagna, ora ribolle entro gli argini della rivoluzione passiva, se da una parte dà l'impressione di un supposto immobilismo storico, dall'altra parte è scarsamente decifrabile quali siano, in questo mare magnum della politica italiana che va dal Risorgimento ad oggi, i fattori progressivi e quali i regressivi. Se, ad esempio, l'esperienza fascista è posta da Gramsci sul piano delle forze progressive della rivoluzione passiva e non su quello della controrivoluzione, sul perché aveva intravisto un embrione di grandismo monopolistico nell'ambito dell'industria di stato.
In quest'ampio spazio temporale il processo molecolare trova la molla del suo procedere in un disordinato susseguirsi di piccole scissioni nessuna delle quali perviene ad una vera e propria scissione tale da cambiare il corso della storia cui gli spostamenti di forza danno senso e contenuti nuovi. In una parola, per Gramsci siamo tuttora imprigionati in una guerra di posizione in cui la tattica è tutto e la strategia è nulla.
È tuttavia chiaro che il gioco, del tutto formale, delle piccole scissioni che caratterizzerebbero la fase della rivoluzione passiva non ha nulla a che vedere con la teoria marxista del perenne conflitto, con le sue inevitabili alterne vicende, tra le due classi fondamentali protagoniste in tutto l'arco storico del capitalismo, dalla fase della sua ascesa a quella attuale del deperimento e della crisi insanabile che Gramsci non aveva previsto, nei termini almeno, che sono propri della previsione marxista.
La stessa egemonia, nella formulazione gramsciana, dà adito a interpretazioni varie e tra loro contraddittorie: ora si afferma l'egemonia della classe fondamentale che la esercita già prima ancora della conquista del potere, ora la classe fondamentale la si vede esercitare il potere dello stato e non è dittatura e si tace sul come e con quali mezzi si passa dalla rivoluzione passiva a quella attiva che distrugge e crea, dalla guerra di posizione a quella di movimento.
Il passaggio avverrà per via pacifica e parlamentare, a suon di voti, per una specie di osmosi politica lenta e senza colpo ferire oppure lo scontro storico tra le due classi egemoni, una in fase calante e l'altra in fase ascendente, avrà il suo epilogo in una insurrezione armata e quindi nella conquista violenta del potere che comporta la distruzione dello stato e l'instaurazione d'un nuovo ordine?
Gramsci procede per accenni su questi problemi di fondo ed elude ogni impegno di approfondimento. E soprattutto evita, volutamente, lo scioglimento del nodo teorico dell'egemonia della classe fondamentale che come tale non può essere che una (fase dei consigli e del partito) in confronto al blocco storico di forze e ideologie diverse che, per sua natura, è molteplice.
E proprio della mistica religiosa l'uno e trino, e più in generale l'inconciliabilità tra unità e molteplicità, l'uno potrà fondersi e annullarsi nel molteplice ma non inversamente se non si vuoi tornare alla scolastica.
In termini politici se l'uno si identifica con la classe fondamentale, il proletariato, il suo affermarsi come classe egemone che esercita transitoriamente la sua egemonia (dittatura del proletariato) tende a superare se stessa con tutte le sue strutture, sovrastrutture che sono gli strumenti dell'esercizio della sua dittatura. Nella tematica gramsciana tale ipotesi non trova posto per la elementare constatazione che il suo blocco storico è per sua composizione, non uno ma molteplice, non è d'una sola classe, pur con le sue diversificazioni strutturali, ma d'una alleanza di forze di ispirazioni diverse per natura e grado socio-economico che, data la sua forma composita, obbedisce alla dinamica del pluralismo.
Chiuso nel groviglio delle contraddizioni, un concentrato sovra-strutturale di idee diverse, di diversi comportamenti e impulsi che non trovano soluzione in un punto d'unità concettuale, Gramsci è l'intellettuale classico che rivive dentro di sé, volta a volta, le influenze di ciò che esamina e se ne impossessa come d'una sua creazione originale e non certo il politico che si avvale dei dati offertigli da un esame critico dei fenomeni che emergono dal tessuto sociale e politico in continuo movimento per riunirli in una visione d'insieme per la realizzazione d'una politica che, comunque, anche nelle sue pagine, non è mai di classe, di quella classe che porta in sé la ragione storica e la forza strutturale del superamento rivoluzionario. Teorizza una visione del mondo basata su un indistinto movimento molecolare in un perenne intreccio di forze emergenti e di quelle destinate a scomparire, che per Gramsci è la fase della rivoluzione passiva affossata nelle salde trincee della guerra di posizione. Ne risulta un progredire degli uomini e delle cose ad infinitum, lungo una linea mediana di piccole scissioni che si ricompongono senza un punto terminale di sintesi, neppure come ipotesi di lavoro, che concretizzi l'atto chirurgico della violenza rivoluzionaria. Tradotto in termini di politica attiva, tutto si riduce ad un processo lineare di democrazia progressiva che nel contingente può avere il suo momento catartico nella Costituente repubblicana che placa l'ansia del suo Storicismo assoluto, modulato su quello crociano, nel quadro istituzionale del capitalismo, al di fuori e al di sopra d'ogni trauma che un trapasso rivoluzionario inevitabilmente porterebbe con sé.
Lo stesso Nicola Badaloni, che così appassionatamente e faticosamente ha tentato l'opera di ricomposizione politica d'un supposto marxismo di Gramsci, posto di fronte all'interpretazione del duplice senso dello “storicismo” quale emergenza politica d'una nuova civiltà (il socialismo) finisce con l'individuare il senso più ovvio e conseguente scrivendo:
Nel secondo senso lo storicismo, che dal punto di vista delle classi dominanti è teoria della rivoluzione passiva, rischia dal punto di vista della nuova classe fondamentale, di riconfondersi con un processo evolutivo lineare [il corsivo è nostro] [...]. Questo secondo senso dello storicismo è in realtà presente in Gramsci solo perché in ogni situazione storica (cioè ad ogni nuovo configurarsi dei rapporti di forza) il problema della emergenza si pone in modo specificamente corrispondente. Per questo lato, si tratta di una particolare utilizzazione di strumenti leninistici il cui punto d'arrivo può non essere in contrasto colla conclusione del tardo Togliatti che il processo di emergenza esige una teoria del prolungamento storico delle “situazioni democratiche” e consente la transizione, attraverso di esso, alla nuova civiltà. (18)
Passaggio dunque indolore, democratico, parlamentare al socialismo o ricorso obbligato all'uso della violenza rivoluzionaria? Andiamo a sondare ciò che è avvenuto in certi momenti della storia del conflitto tra le classi e l'insegnamento che ne hanno tratto i maggiori studiosi dei fenomeni socio-economici della scuola marxista.
Se l'ideologia borghese, riflettendo la tendenza alla unificazione capitalista, ha proclamato il progresso dell'uman genere, il materialismo storico, invertendo e senza proclamazioni, ha scoperto che nell'antitesi fu fino ad ora la causa ed il movente di ogni accadimento storico. E perciò il moto della storia, preso in generale, ci si rivela come oscillante, o meglio ci pare si svolga sopra una linea spezzata, che cambia spesso di direzione e di nuovo si spezza [...] un vero zig, zag.
Procedere in linea retta, non andare che da una parte, con l'andatura da fantoccio, secondo la pratica, da ciechi del soggetivismo; ecco i procedimenti e le maniere ideologiche dell'idealismo. (19)
E Plekhanov:
La storia è costantemente occupata a preparare “salti” e “rovesciamenti”. Essa fa quest'opera assiduamente e imperturbabilmente; lavora lentamente, ma i risultati dei suoi sforzi (salti e catastrofi politiche) sono ineluttabili e inevitabili.
Lentamente si compie la “trasformazione del tipo” della borghesia francese, il cittadino dell'epoca della Reggenza non assomiglia al cittadino dell'epoca di Luigi XI [...] Esso è divenuto più ricco, più istruito, più esigente, ma non ha cessato d'essere un plebeo che deve sempre e comunque cedere il passo all'aristocrazia. Ma ecco che arriva l'anno 1789, il borghese alza fieramente la testa. Passano ancora alcuni anni e diviene il padrone della situazione, ma in che modo! “con dei torrenti di sangue, al suono dei tamburi” accompagnato dalle “detonazioni della polvere” se non della dinamite che non era ancora inventata. Esso obbliga la Francia ad attraversare un vero “periodo di distruzione” [...]. (20)
Lo stesso cittadino dovrà difendere sulle barricate nelle giornate di luglio 1830 i diritti della sua classe contro il potere assolutistico dell'antico regime.
Lo stesso cittadino, fatto ora operaio dell'industria, prima espressione del moderno proletariato, difenderà da solo ancora sulle barricate parigine del 1848 la sua ragione di vita, il divenire dello stesso proletariato internazionale di fronte all'assalto della stessa borghesia divenuta, nella sua essenza politico-sociale e al vertice della sua organizzazione, conservatrice e alleata contro di lui con le forze della nobiltà e del clero.
E si batterà nella Comune di Parigi (1871) fatto ormai adulto alla scuola del socialismo scientifico, della I Internazionale e della guerra civile; in coerenza quindi con le istanze permanenti della rivoluzione continuerà a battersi nella grande Rivoluzione Russa che dal 1905 al 1917 ha espresso i caratteri e il fondamento della rivoluzione internazionale del proletariato ponendolo definitivamente all'ordine del giorno della storia del mondo.
In questo profilo degli accadimenti la linea generale di sviluppo può sembrare la linea ascendente d'una evoluzione verso un tipo superiore di vita sociale e politica; in realtà questa linea assomma una serie di urti di forze in contrasto in cui il passaggio da una fase all'altra non avviene per effetto di un'armonica conciliazione dei termini contrapposti, ma per effetto d'un loro superamento dialettico che ogni volta implica lacerazione e ogni lacerazione implica violenza. E un accumularsi in ogni caso di ondate confluenti tutte in una immensa, irrefrenabile ondata sulla cui cresta è condensata la violenza di tutte le contraddizioni che ogni periodo dato della storia porta nel suo seno.
I cambiamenti quantitativi - ammonisce Plekanov - accumulandosi a poco a poco, divengono finalmente cambiamenti qualitativi. Queste transizioni si compiono per salti e non possono compiersi altrimenti [...] L'evoluzione economica conduce necessariamente alla rivoluzione politica e quest'ultima sarà, a sua volta, l'origine di cambiamenti importanti nel regime economico della società. (4)
La trasformazione del modo di produzione sarà il risultato d'un rovesciamento compiuto con la violenza. Non esiste epoca storica in cui la violenza non sia apparsa come la sola inevitabile levatrice della storia e soprattutto non esiste cambiamento di regime fatto con altri mezzi che non siano quelli della distruzione delle fondamenta di una società che ha portato a compimento la sua esperienza e non ha più nulla da dire nella storia del progresso umano. Sta di fatto che nessuna società, nessuna classe è disposta a rinunciare al proprio ruolo dirigente. Da qui torrenti di sangue, da qui la violenza che inevitabilmente chiama altra violenza.
Provino i teorici del revisionismo a dimostrare un diverso cammino delle vicende umane e soprattutto ci diano i precedenti storici che al lume della dialettica marxista dimostrino la possibilità obiettiva d'una coesistenza pacifica e competitiva tra capitalismo e proletariato che renda superfluo, inutile e soprattutto impossibile l'uso della violenza rivoluzionaria.
La tesi di questi signori per cui l'esistenza d'un vasto e consolidato “campo” di economia socialista in pieno sviluppo nel cuore dell'economia capitalistica, è sufficiente per evitare guerre e rivoluzioni, dato e non concesso che tale campo esista, dovrebbe semmai legittimare la prospettiva d'una soluzione catastrofica del dualismo per la inconciliabilità di due regimi i cui interessi sono spinti ad annullarsi vicendevolmente e mortalmente e in nessun caso quella dei placidi tramonti cari ai politici delle riforme.
E siamo alle conseguenze pratiche del capovolgimento operato in sede dottrinaria, che consiste nel conquistare una salda maggioranza nel parlamento e trasformarlo da organismo della democrazia borghese in quello della volontà popolare: strumenti di lotta la competizione elettorale e la scheda.
Per giustificare l'ennesima svolta si è fatto appello nientemeno che a Marx e più precisamente al suo discorso tenuto alla sezione dell'Internazionale dell'Aja l'8 settembre 1872 con il quale affermava che:
la rivoluzione è inutile là dove il proletariato abbia modo di far valere la propria voce con mezzi democratici,
citando a titolo di esempio alcuni paesi (Stati Uniti, Inghilterra e probabilmente altri). E chi ha scritto queste righe aveva la piena coscienza di barare ai danni della serietà dottrinaria del marxismo e d'una sua esatta interpretazione.
Si gioca sulle parole, si ricorre al sillogismo al posto d'una valutazione dialettica, si va alla ricerca dell'episodio in sostituzione alla visione d'insieme dell'esperienza di classe e degli strumenti di difesa e di offesa offerti alla classe dirigente dall'esercizio del potere basato su un enorme potenziale di autorità e di violenza.
Di tutta la vasta e complessa opera di Marx, di tutti gli insegnamenti che costituiscono quel complesso monolitico del suo pensiero cui, a dire di Lenin non si può togliere nessuna premessa fondamentale, nessuna parte essenziale senza allontanarsi dalla verità oggettiva, senza cadere nella reazionaria menzogna borghese, i neorevisionisti vanno a tirar fuori il congresso dell'Aja per coprire nel nome di Marx l'avariatissima mercée della “molteplicità delle vie del socialismo” che per loro è poi, in definitiva, la sola via parlamentare.
Non importa che il richiamo a Marx ci riporti al 1872, in evidente e fondamentale contrasto con la fase storica attuale; non importa che Marx stesso abbia nel contempo fornito il modo della sua esatta interpretazione; non importa nemmeno che tutto il pensiero filosofico, storico-politico di Marx prima del 1872 e dopo, come la sua stessa opera d'uomo politico e di rivoluzionario contrasti violentemente con l'interpretazione che han voluto darne i politici del parlamentarismo della II Internazionale e i tardi epigoni dell'odierno e assai peggiore parlamentarismo, ancora più corrotto e corruttore.
Conosciamo in proposito l'interpretazione di Lenin:
Nell'epoca in cui Marx faceva questo rilievo, in Inghilterra e in America appunto, e appunto nel decennio 1870-1880 quelle istituzioni [militarismo e burocrazia - nda] non esistevano (oggigiorno invece esistono tanto in Inghilterra quanto in America). (21)
Ed è per lo meno curioso che Lenin facesse questa constatazione in polemica con Kautsky, quando lo stesso Kautsky, sempre sullo stesso argomento, scriveva nella prefazione alla quinta edizione tedesca (1904) del suo Programma socialista:
Quando nacque il programma di Erfurt, la possibilità che il proletariato conquistasse il potere politico senza catastrofi, appariva, in parecchi Paesi, per esempio in Inghilterra, molto più verosimile che non oggi.
Si era nel 1904, agli inizi cioè, della politica imperialista nel mondo.
Ma ai “cafoncelli” della cultura in genere e di quella marxista in particolare, va ricordato che al Marx del Manifesto, al Marx della visione dialettica della storia e del rovesciamento della prassi e dell'analisi critica della Guerra civile in Francia, non si possono in nessun caso riferire le teorie della coesistenza pacifica e competitiva tra capitalismo e proletariato, la pluralità delle vie del socialismo, e l'avvento del socialismo col rispetto della legalità democratica quale sancita dalla costituzione quando si è opposizione e quando si è maggioranza. Queste teorizzazioni sono i miasmi che appartengono ad una società putrescente qual'è il capitalismo nella fase attuale della sua decadenza sia esso nella forma di capitalismo di Stato russo come in quella del capitalismo americano.
I nostri “cafoncelli” si sono dimostrati al di sotto dello stesso opportunismo di Kautsky.
Ma è bene precisare che neppure nel famoso discorso tenuto alla sezione dell'Internazionale dell'Aja, Marx ha voluto dare alle sue parole il significato che l'opportunismo internazionale ha voluto loro attribuire.
Ci riferiamo ai dati storici di quel periodo che i neo-revisionisti fingono di ignorare. L'8 Settembre, il giorno dopo la chiusura del Congresso dell'Aja, ad Amsterdam si ebbe una riunione della sezione regionale. Vi presero la parola Marx, Engels, Lafargue, Sorge ed altri. Nel suo discorso Marx così riassumeva i risultati del Congresso:
Esso ha proclamato la necessità, per le classi operaie, di combattere sul terreno politico come sul terreno sociale, la vecchia società che sta crollando. L'operaio deve conquistare un giorno il supremo potere politico per garantire la nuova organizzazione del lavoro, egli deve rovesciare la vecchia politica che sostiene le vecchie istituzioni.
L'Internazionale è decisa alla lotta politica, essa ha definitivamente respinto l'astensione pseudo-rivoluzionaria.
Ma non abbiamo affatto preteso che per giungere a questo fine i mezzi dovranno essere identici. Conosciamo la parte che bisogna attribuire alle istituzioni, ai costumi, alle tradizioni dei diversi paesi e non possiamo negare che vi sono dei paesi come l'America e l'Inghilterra, in cui i lavoratori possono conseguire il loro scopo con mezzi pacifici. Se ciò è vero, dobbiamo anche riconoscere che nella maggior parte dei paesi del continente è invece la forza che dovrà essere la leva delle nostre rivoluzioni; è appunto alla forza che, per un certo tempo, bisognerà far appello, per stabilire la sovranità del lavoro.
Nel 1881 Marx precisava il suo pensiero a Hyndman con queste parole:
Se voi affermate di non condividere le opinioni del mio partito nei confronti dell'Inghilterra, io posso rispondervi soltanto che questo partito non considera la rivoluzione in Inghilterra necessaria ma, in ragione dei precedenti storici, possibile. Se l'evoluzione inevitabile prende la forma di una rivoluzione, ciò avverrà non solo per colpa delle classi dominanti ma anche per colpa della classe operaia. Tutte le concezioni parifiche della classe dominante sono state strappate in seguito a “pressioni esterne”; la loro azione è stata in rapporto con tali pressioni, e se queste sono andate via via indebolendo, ciò è avvenuto solo perché la classe operaia inglese non sa usare né della sua forza né della libertà che sono legalmente in suo possesso. In Germania la classe operaia ha avuto coscienza, dagli inizi del movimento, del fatto che non ci si può sbarazzare di un dispositivo militare se non con una rivoluzione. L'Inghilterra è uno dei Paesi nei quali una rivoluzione pacifica è possibile ma - aggiunse dopo un momento di silenzio - la storia non ce lo dice [il corsivo è nostro]. (22)
Engels ripigliava qualche anno dopo la morte di Marx lo stesso argomento nella prefazione alla traduzione inglese del Capitale.
Certamente in un momento simile, bisognerebbe prestare ascolto alla voce di un uomo la cui teoria è il risultato di una vita consacrata allo studio delle condizioni economiche dell'Inghilterra; tale studio ha portato a concludere che, per lo meno in Europa, l'Inghilterra è il solo paese in cui l'inevitabile rivoluzione sociale potrebbe effettuarsi con mezzi completamente legali e pacifici. Egli non dimenticava mai di aggiungere che non si aspettava che le classi dominanti dell'Inghilterra si sottoponessero senza “ribellione schiavista” ad una simile rivoluzione pacifica e legale [il corsivo è nostro].
(4) Plekhanov, Les questions fundamentales du marxisme.
(6) Engels, Ludovico Feuerbach.
(7) Gramsci, II materialismo storico e la filosofia di B. Croce.
(8) Marx, Prefazione a: Per la critica dell'economica politica.
(9) Lenin, Materialismo e empiriocriticismo.
(10) Marx, Il Capitale, "Poscritto alla II Edizione".
(11) Gramsci, Passato e Presente.
(12) Gramsci, Note sul Machiavelli.
(13) Gramsci, L'Ordine Nuovo, articolo apparso sul n. 21 dell'ottobre 1919.
(14) Lenin, Stato e Rivoluzione.
(15) Ci si riferisce alla nascita del Partito Comunista Internazionalista, sorto nel 1943 quale unica risposta alla degenerazione del PCI e alla Seconda Guerra Mondiale.
(16) Gramsci, Lettere dal Carcere.
(17) Gramsci, Il Risorgimento.
(18) Badaloni, Il marxismo di Gramsci, Einaudi, Torino 1975.
(19) Labriola, Del materialismo storico.
(20) Lenin, Opere complete, Editori Riuniti, Roma 1966.
(21) Lenin, La Rivoluzione Proletaria e il rinnegato Kautsky.
(22) Marx-Engels, Opere Scelte, Editori Riuniti, Roma 1952.
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