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Premarxismo filosofico
Può sembrare inopportuno e tutt'altro che agevole parlare del pensiero filosofico e politico di Gramsci in un momento in cui i chierici del neoumanesimo hanno posto il suo nome, dopo la recente e dolorosa vicenda della sua vita, sull'altare dell'esaltazione più irriverente e della credenza più irrazionale e acritica: soprattutto in una situazione in cui questo suo pensiero ha trovato e trova tuttora la giustificazione storica della sua affermazione.
Tuttavia ci imponiamo questa messa a punto critica del gramscismo come un dovere che va inteso e compiuto al di sopra d'ogni sentimento anche se umano e giustificato.
Si è ubbidito ad una specie di sacro furore che a volte ha rasentato la mania nel riunire ed affastellare gli scritti di Gramsci che man mano vengono alla luce. Uno di questi, e precisamente Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce è apparso particolarmente interessante perché ci consente di trarre alcune considerazioni conclusive rispetto al modo e ai fini con cui Gramsci ha trattato la filosofia della prassi.
Per la verità il lavoro si presenta quanto mai frammentario ed eclettico: non precisa un vero e proprio corpo di dottrine filosofiche ma offre tuttavia sufficienti note orientative per rintracciare la vera anima di Gramsci, quella almeno che avevamo avuto agio di conoscere, di ammirare anche ed anche criticare e respingere ai tempi della comune milizia politica.
Se viene perciò a mancare una visione d'insieme, quella di scorcio è pur viva; come facilmente individuabile è il filo conduttore di quello stato spirituale che anima il libro e che, in Gramsci, uomo di cultura e di avvertita sensibilità, è tutto.
Se fosse preliminarmente necessario situare la posizione dottrinaria di Gramsci nella geografia del pensiero filosofico, noi la collocheremmo senza alcuna perplessità in quel solco del pensiero europeo che ha preso le mosse dall'idealismo hegeliano ed ha trovato la propria continuità nell'indirizzo neoidealistico dello storicismo, dopo aver attinto nutrimento e stimolo dalla potente affermazione della filosofia della prassi che, sorta da questo stesso solco, è apparsa come negazione dialettica in confronto a tutta la filosofia e come suo superamento.
Dopo Marx non è pensabile infatti un filosofare che rifletta una esigenza storica ed esprima una particolare visione del mondo in cui gli interessi materiali e le forze politiche e sociali della classe non appaiano spinte all'esplosione rivoluzionaria.
La concezione marxista della storia mette fine alla filosofia nel campo della storia, così come la concezione dialettica della natura rende altrettanto inutile quanto impossibile ogni filosofia della natura. Da ogni parte ormai non si tratta più di escogitare dei nessi nel pensiero ma di scoprirli nei fatti. Alla filosofia, cacciata dalla natura e dalla storia, rimane soltanto il regno del pensiero puro, nella misura in cui esso continua a sussistere [...]. (6)
In questo senso il pensiero di Gramsci non devia dal marxismo per defluire nel solco della filosofia tradizionale; non compie lo sforzo di rompere con essa ma si serve di tutte le sue premesse ritenute criticamente valide per orientarsi in qualche modo verso una particolare interpretazione del marxismo. Come si vedrà più innanzi la vera matrice di questo pensiero non si trova nell'affermazione della dialettica rivoluzionaria di Marx-Engels, ma in quelle correnti anti intellettualiste e di reazione allo scientismo positivista che pur essendo sorte dopo Marx si riannodano per mille capi all'idealismo pre-marxista; il neorealismo filosofico e politico è andato invece alimentandosi, e assai abbondantemente, alle scuole, da Bergson a Croce, che si erano poste il problema di riabilitare i diritti della ragione e sotto questo rapporto di trovare la connessione tra pensiero e vita.
Gramsci stesso precisa, delimita, localizza quasi il suo pensiero quando afferma che:
solo la filosofia della prassi sia la concezione conseguentemente "immanentistica". Sono specialmente da rivedere e criticare tutte le teorie storicistiche di carattere speculativo. Si potrebbe scrivere un nuovo Anti-Dühring che potrebbe essere un “Anti-Croce” da questo punto di vista, riassumendo non solo la polemica contro la filosofia speculativa, ma anche quella contro il positivismo e il meccanicismo e le forme deteriori della filosofia della prassi. (7)
Afferma in altre parole che la filosofia della prassi non soltanto è la sola conseguente in confronto a tutta la filosofia immanentistica ma serve da testa di ponte nella lotta su due fronti, contro la filosofia speculativa da una parte e contro ogni formulazione di positivismo e di materialismo deterministico dall'altra.
Precisa inoltre la derivazione della filosofia della prassi dalla concezione immanentistica,
ma depurata questa da ogni aroma speculativo e ridotta a pura storia o storicità e a puro umanesimo [...]. Non solo la filosofia della prassi è connessa all'immanentismo ma anche alla concezione soggettiva della realtà, in quanto appunto la capovolge, spiegandola come fatto storico. (7)
Ma allora tutta la filosofia ereditata dal Rinascimento è allo stesso modo immanentistica e soggettiva: l'infinità dei mondi di Bruno, il razionalismo di Cartesio e l'empirismo, la monade di Leibniz, l'illuminismo e la filosofia classica tedesca; tutte queste correnti di pensiero sono pervase dalla concezione immanentistica e soggettiva perché immanentisticamente e soggettivamente si è espressa l'esigenza del moto della moderna borghesia e l'epoca storica del formarsi delle moderne nazionalità. Allo stesso modo è immanentistica e soggettiva la dialettica formale dello storicismo che concepisce la storia come svolgimento, come corrente e come flusso perenne entro cui ininterrotta circola l'attività della provvidenza o, che è lo stesso, dello spirito di cui è sempre così pieno l'immanentismo umanistico.
D'altro canto come può considerarsi immanentistica e soggettiva la dialettica rivoluzionaria che il singolo annulla fondendola nel collettivo, che alla continuità e al progressivo contrappone l'urto, l'eversione e il superamento violento?
Gli è che la dialettica formale dello storicismo è concezione propria del moto borghese, mentre la dialettica rivoluzionaria - concezione di una nuova società la cui apparizione come forza egemonica sarà il risultato di una profonda radicale lacerazione nel mondo delle cose prima ancora che nel mondo degli uomini - afferma che nella storia umana non vi è conciliazione di termini opposti, ma il loro contrasto in cui l'un termine deve necessariamente negare l'altro perché ne scaturisca una ulteriore affermazione di vita. "La contraddizione è ciò che spinge innanzi" ha scritto Hegel, ed è esatto.
C'è nel libro un pullulare di definizioni della filosofia della prassi: "Essa è il materialismo (quello francese del secolo XVIII) perfezionato dal lavoro della stessa filosofia speculativa e fusosi con l'umanesimo"; più plasticamente "...è uguale ad Hegel più Davide Ricardo"; e con più precisione filosofica "...è il rapporto tra la volontà umana (sovrastruttura) e la struttura economica". Nelle quali la concezione immanentista non poteva essere espressa con maggiore evidenza e precisione.
Donde si origina per Gramsci la filosofia della prassi? Forse dall'apparizione del proletariato come classe e dal suo divenire di forza rivoluzionaria in contrasto con la classe del capitale che lo ha originato e potenziato nell'ambito stesso del proprio sviluppo? Forse dall'aver visto i termini di questa realtà storica in Marx ed Engels che hanno elaborato i principi di questa teoria che veniva a costituire lo strumento più preciso e più valido non solo del pensiero e della conoscenza umana ma della stessa conquista rivoluzionaria?
Non faceva del resto Engels, erede della filosofia classica tedesca, proprio il movimento operaio tedesco?
Ma ben altro è il suo processo formativo. Secondo Gramsci la filosofia della prassi è nata...
da tutto un passato culturale i cui termini più noti e salienti sono la Rinascenza e la Riforma, la filosofia tedesca e la rivoluzione francese, il calvinismo e l'economia classica inglese, il liberalismo laico e lo storicismo che è alla base di tutta la concezione moderna della vita.
E due erano i compiti che egli poneva a questa filosofia; quello di combattere le ideologie moderne nella loro forma più raffinata per poter costituire il proprio gruppo di intellettuali indipendenti e quello di educare le masse popolari la cui cultura era medioevale. Questa visione della prassi come esigenza di cultura e come riforma popolare moderna in Gramsci si amplifica e si definisce, col metodo dato dall'intuizione ricardiana del “posto che”, della premessa che da una certa conseguenza si pongono i termini d'una nuova gnoseologia. Il concetto di “necessità storica” è strettamente connesso a quello di “razionalità”; ed esiste necessità quando esiste una premessa efficiente e attiva, la cui consapevolezza negli uomini sia divenuta operosa, ponendo dei fini concreti alla coscienza collettiva. E chiarisce ulteriormente:
Nella premessa devono essere contenute, già sviluppate o in via di sviluppo, le condizioni materiali necessarie e sufficienti per la realizzazione dell'impulso di volontà collettiva; ma è chiaro che da questa premessa materiale calcolabile quantitativamente, non può essere disgiunto [il corsivo è nostro] un certo livello di cultura, un complesso cioè di atti intellettuali e da questi un certo complesso di passioni e sentimenti imperiosi, cioè che abbiano la forza di indurre all'azione a tutti i costi. (7)
Quel “disgiunto” non è stato messo lì a caso, che troppo grande era in Gramsci il senso e il valore da attribuire all'uso dei vocaboli, ed esprime con chiarezza il fondo del pensiero gramsciano più di qualsiasi dissertazione. Il concepire perciò il complesso di atti individuali e di passioni e sentimenti non disgiunto dalla premessa materiale è sì concepire immanentisticamente, ma in nessun caso è porre un'istanza dialettica e tantomeno deterministica.
In tal modo il senso della storia non è dato da quel procedere dal basso, dalla struttura, dal mondo delle cose e dalla tecnica e dagli interessi legati a questo mondo, e infine dai rapporti di classe che ne caratterizzano la vita sociale, politica e culturale, ma ciò che nella storia è realmente vivo, ciò che conta, anche se riferito al materiale e al quantitativo, per giungere ad una concezione storicistica del razionale, deve provenire da quel complesso e fluido mondo della cultura, degli stimoli intellettuali, dei sentimenti e passioni a cui attinge la volontà, che in definitiva è la sola atta ad indurre all'azione “a tutti i costi”. Nella quale concezione è del resto assai palese l'influenza esercitata su Gramsci da quella nuova metafisica sorta dal pensiero filosofico francese degli ultimi decenni dell'Ottocento.
Nell'opera di Gramsci le classi, queste tragiche protagoniste della storia, i loro interessi economici, il complesso dei loro rapporti sociali, la dinamica del loro procedere e del loro regredire non appaiono che in ombra, mentre la nota dell'individualità, della conoscenza e volontà individuale vi è dominante.
Anche quando esamina l'uomo in rapporto con gli altri uomini questa nota della individualità non si attenua ma vi trova motivo di potenziamento.
L'uomo è concepito come una serie di rapporti, e questi sono concepiti attivi e coscienti, corrispondenti cioè ad un grado maggiore o minore d'intelligenza che di essi ha il singolo uomo.
Perciò si può dire che ognuno cambia se stesso, si modifica, nella misura in cui cambia e modifica il complesso di rapporti di cui egli è il centro di annodamento [il corsivo è nostro].
Più oltre e più chiaramente:
Ogni individuo non solo è la sintesi dei rapporti esistenti, ma anche della storia di questi rapporti, cioè il riassunto di tutto il passato. Si dirà che ciò che ogni singolo può cambiare è ben poco in rapporto alle loro forze.
Ciò è vero fino a un certo punto. Poiché il singolo può associarsi con tutti quelli che vogliono lo stesso cambiamento e se questo è razionale, il singolo può moltiplicarsi per un numero imponente di volte e ottenere un cambiamento, ecc. (7)
Momento “catartico” cioè passaggio dalla necessità alla libertà visto e sentito non in funzione della socialità e della classe ma in funzione sempre del singolo.
Non vi è dubbio alcuno che la società è formata da individui e che ogni fenomeno sociale è la risultante di volontà, di atti, di sensazioni e di sentimenti individuali. Ogni fenomeno sociale è cioè la risultante di fenomeni individuali.
Ad esempio, nella determinazione del prezzo delle merci sul mercato, noi ci troviamo di fronte ad un fenomeno sociale che risulta dall'incontro di volontà particolari, quelle del venditore e quelle del compratore. Ma questo è un fenomeno sociale che non esprime più nel suo generalizzarsi il desiderio e lo stimolo relativo a questo o quel venditore, a questo o quel compratore. Allo stesso modo avvengono tutti i fenomeni sociali che Marx ritiene indipendenti dalla coscienza, dal sentimento e dalla volontà degli uomini; e non c'è centro di annodamento che possa limitare o annullare questa indipendenza! Al contrario sentite come Gramsci idealizza la sua concezione del singolo:
Bisogna elaborare una dottrina [la postulazione è giustissima in quanto quella di Marx è un'altra e ben diversa dottrina, n.d.a.] in cui tutti questi rapporti sono attivi e in movimento, fissando ben chiaro che sede di questa attività è la coscienza dell'uomo singolo che conosce, vuole, ammira, crea in quanto già conosce, ammira, crea, ecc. e si concepisce non isolato ma ricco di possibilità offertegli dagli altri uomini e dalla società delle cose di cui non può non avere una certa conoscenza. (7)
Non si poteva segnare con più evidenza il limite estremo di questo pensiero nella sua caratterizzazione dal marxismo. Rifacciamoci ora alla nota formulazione di Marx:
Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L'insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale determina il processo della vita sociale, politica e spirituale in generale. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, è al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. (8)
A questa formulazione estremamente precisa di Marx, divenuta motivo conduttore della vera filosofia della prassi, Gramsci arzigogola questa nota di commento:
La proposizione contenuta nell'introduzione alla Critica della Economia politica che gli uomini prendono coscienza dei conflitti di struttura nel terreno dell'ideologia deve essere considerata come una affermazione di valore gnoseologico e non puramente psicologico e morale. (7)
Così il pensiero di Marx evirato del motivo profondo ed essenziale che è il prius deterministico rappresentato dalla struttura, viene ricacciato nella paccottiglia della filosofia immanentistica tradizionale.
Una volta eliminata l'idea madre della determinazione non restava a Gramsci che rifarsi alla reciprocità dei fattori della storia. Sentitelo:
La struttura e la superstruttura formano un “blocco storico”: cioè l'insieme complesso, contraddittorio e discorde della soprastruttura è il riflesso dell'insieme dei rapporti sociali di produzione.
Ed esemplifica:
Se si forma un gruppo sociale omogeneo al 100% per l'ideologia, ciò significa che esistono al 100% le premesse per il rovesciamento, cioè che il “razionale” è reale attuosamente e attualmente. [Sia benedetta la memoria di Hegel!, n.d.a.]. Il ragionamento si basa sulla reciprocità necessaria tra struttura e sovrastruttura [reciprocità che è appunto il processo dialettico reale - nda]. (7)
Questa idea del “blocco storico” assume per Gramsci quasi l'importanza d'una scoperta filosofica, tanto che ci ritorna su per precisare che le forze materiali sono il “contenuto” e le ideologie la “forma”. E che ciò possa avere valore di scoperta e suggestione di novità, noi davvero non diremmo.
Troppo spesso, troppo appassionatamente anche se non sempre giustamente, Gramsci sì fa scudo del sano realismo di Lenin.
Contro l'idea del “blocco storico” che logicamente consegue a quella della coscienza del singolo come sede dei rapporti sociali riportiamo le sferzate che, attraverso Bogdanov, Lenin dava agli immanentisti, agli empirocriticisti e agli empiromonisti:
Noi respingiamo - scriveva - di primo acchito tutte le premesse filosofiche comuni a questa trinità.
E confutando l'assunto idealistico per il quale “l'esistenza è la coscienza” esemplifica:
[...] il contadino che vende il suo grano, entra in "rapporto" con i produttori mondiali del grano sul mercato mondiale ma senza averne coscienza; senza aver coscienza dei rapporti che si stabiliscono in seguito a questi scambi. La coscienza sociale riflette l'esistenza sociale, questo è il pensiero di Marx. (9)
Il pensiero di Gramsci ci dà invece l'uomo economico che è nel contempo uomo etico; e in quanto conosce e crede e opera è anche uomo storia; come nel vasto processo di variabilità dei rapporti sociali egli torna a darci l'idea ossessiva dell'individuo, sempre dell'individuo quale loro centro di annodamento. Croce parla di nesso dei distinti in forma di circolarità, ma il senso ne è identico. Ma chi c'è oltre l'individuo?
Le stesse societas hominum e societas rerum sono termini astratti nell'epoca della massima e a volte terribile affermazione del collettivo. Oggi si pensa in termini di socialità e di classe. Il fatto che vivete, che avete un'attività economica, che procreate, che fabbricate prodotti, che li scambiate, determina una concatenazione oggettiva necessaria di avvenimenti, di sviluppi, concatenazione indipendente dalla vostra coscienza sociale che non può mai abbracciarla nella sua totalità. Il fine più nobile dell'umanità è quello di abbracciare questa logica oggettiva del processo economico nei suoi tratti generali e principali, onde adattarvi il più chiaramente e il più nettamente possibile, col più grande spirito critico, la sua coscienza sociale e la coscienza delle classi avanzate di tutti i paesi capitalistici. (9)
Vi è dunque una coscienza sociale che deve tradursi in volontà di realizzazione sociale; vi deve essere cioè un ritorno realizzatore della volontà sul complesso della struttura che l'ha suscitata.
La coscienza del divenire storico della classe è determinata, è vero, da quel particolare modo di essere delle condizioni materiali che ne costituiscono le premesse; ma se questa coscienza di classe non si traduce in una volontà di realizzazione di classe il momento dialettico dell'eversione non si opera, viene ancora rimandato nella storia.
Non si può affermare, ad esempio, che manchino oggi le premesse all'atto rivoluzionario; va soltanto constatato che il proletariato si mostra incapace a tradurre la coscienza più o meno completa del suo essere di classe in volontà di realizzazione rivoluzionaria. Ed è questa la ragione prima della crisi del nostro tempo.
Manca in una parola al pensiero di Gramsci la vibrazione della dialettica rivoluzionaria, il senso profondo dello "sdoppiamento di ciò che è uno e la conoscenza delle sue parti contraddittorie". (9) Soprattutto gli manca il senso drammatico dell'urto, dell'inevitabile lacerazione, del superamento che è nella filosofia della prassi in quanto è nella società umana divisa in classi e quindi nella storia.
E aggiungiamo con Lenin che:
non si può togliere nessuna premessa fondamentale a questa filosofia del marxismo fusa in acciaio, tutta d'un pezzo, senza allontanarsi dalla verità oggettiva, senza cadere nella reazionaria menzogna borghese [...]. O il materialismo conseguente fino in fondo o la finzione e la confusione dell'idealismo filosofico. (9)
L'aspra invettiva di Lenin è rivolta a tutti coloro che, come Gramsci, al posto di materializzare il dominio dei fenomeni sociali hanno inteso metafìsicizzare le condizioni materiali da cui quei fenomeni si producono.
Il dissenso tra gramscismo e marxismo, come si vede, è fondamentale; e i motivi in sede dottrinaria vanno ricercati nella posizione di contrasto tra il neo-idealismo storicistico e il materialismo dialettico che per noi esprime il contrasto insanabile, tra le due classi fondamentali della storia, che andiamo vivendo.
Presupposti teorici al gramscismo
Lo schema di Gramsci: “intellettuali, organizzazione del consenso, egemonia” che informa di sé e in modo determinante l'attuale neorevisionismo di tanta parte dei partiti comunisti dell'occidente europeo, non trova il suo presupposto teorico in nessuna scuola marxista degna di questo attributo ma è preso di sana pianta da tutta la metodologia e da alcuni principi filosofici del Croce. È lo stesso Gramsci a ricordarlo, precisando:
Nel febbraio del 1917, in un breve corsivo che precedeva la riproduzione dello scritto del Croce Religione e serenità allora uscito di recente nella Critica, io scrissi che come l'Hegelismo era stato la premessa di una ripresa della filosofia della prassi nel secolo XIX, alle origini della civiltà contemporanea, così la filosofia crociana poteva essere la premessa di una ripresa della filosofia della prassi nei giorni nostri, per le nostre generazioni [...].
Bisogna che l'eredità della filosofia classica tedesca sia non solo inventariata, ma fatta ridiventare vita operante e per ciò fare occorre fare i conti con la filosofia del Croce, cioè per noi italiani essere eredi della filosofia classica tedesca significa essere eredi della filosofia crociana, che rappresenta il momento mondiale odierno della filosofia classica tedesca [il corsivo è nostro]. (7)
Vogliamo concludere questo schema del pensiero di Gramsci con le considerazioni che lo stesso Gramsci esprime nel fare il punto a questo stesso schema già elaborato dal Croce che rappresenta nella concezione crociana della storia, come storia etico-politica, il punto nodale del suo pensiero filosofico e precisarne così i caratteri della ereditarietà ed assimilazione a discapito della tanto conclamata originalità Gramsciana.
Per la filosofia della prassi - scrive sempre Gramsci - lo stesso metodo speculativo non è futilità, ma è stato fecondo di valori “strumentali” del pensiero nello svolgimento della cultura, valori strumentali che la filosofia della prassi si è incorporati (la dialettica, per esempio).
Il pensiero del Croce deve dunque, per lo meno, essere apprezzato come valore strumentale, e così si può dire che esso ha energicamente attirato l'attenzione sull'importanza dei fatti di cultura e di pensiero nello sviluppo della storia, sulla funzione dei grandi intellettuali nella vita organica della società civile e dello Stato, sul momento dell'egemonia e del consenso come forma necessaria del blocco storico concreto.
Che ciò non sia “futile” è dimostrato dal fatto che contemporaneamente al Croce, il più grande teorico moderno della filosofia della prassi [è evidente l'allusione a Lenin, n.d.a.] nel terreno della lotta e dell'organizzazione politica, con terminologia politica, ha, in opposizione alle diverse tendenze “economistiche", rivalutato il fronte della lotta culturale e costruito la dottrina dell'egemonia [in questo caso egemonia è quella del proletariato, n.d.a.] come complemento della teoria dello Stato-forza [cioè della dittatura del proletariato, n.d.a.] e come forma attuale della dottrina quarantottesca della "rivoluzione permanente" [ipotizzata da Marx - nda]. (7)
Abbiamo voluto che fosse lo stesso Gramsci a dire di sé e della sua vicenda culturale e storico-filosofica; tra questo groviglio di correnti varie contraddittorie espresse in modo eclettico, ora è possibile trarre l'essenziale che caratterizza il nucleo teorico su cui Gramsci modellò il suo modo di concepire la politica in generale negli anni '20 e quella del partito rivoluzionario in particolare. Si tratta di un nucleo di formazione composita; vi si trova in origine Croce con i tre canoni fondamentali del blocco storico; intellettuali, organizzazione del consenso ed egemonia, che divengono fondamento della tematica Gramsciana con in più un pizzico di influenza di certo neoidealismo francese, soprattutto di Sorel.
Il marxismo nell'ispirazione e realizzazione leniniana, vi entra di scorcio, quasi per incidente e sempre come momento di curiosità intellettuale, quanto mai viva ed attenta in Gramsci, teso ad ogni forma di indagine speculativa.
Questo spiega il tentativo, del tutto arbitrario, di inserire persino l'esperienza teorico-politica, quella della rivoluzione di Ottobre, nel quadro del pensiero crociano come se la dittatura del proletariato, ad onta della sua transitorietà, degli "effetti disgreganti" del vecchio "blocco storico" non ancora completamente disgregato, fosse compatibile con l'assunto crociano della storia come storia della libertà, che considerava antistoria ogni forma di dittatura e conseguentemente estranea alla storia. E non è che Gramsci ignorasse che Marx teorizzò la necessità di una fase di transizione sulla base di una ferrea egemonia di classe, che è poi la dittatura del proletariato, insegnamento che ci proviene dalla Comune di Parigi e che Lenin realizzò con la rivoluzione d'Ottobre. Ma era necessario uscire da un'indagine soprattutto culturale ed imboccare la via di una valutazione di classe non sempre presente e mai prevalente nel mondo ideologico-politico gramsciano.
La parte più sconcertante in questo accostamento di Lenin a Croce fatto dal Gramsci non possiamo certo intenderlo futile in quanto ne deriva che Croce e quindi... Lenin "ha, in opposizione alle diverse tendenze economicistiche, rivalutato il fronte della lotta culturale" venendo così a spezzare il nesso tra i due termini della contraddizione, il dato obiettivo economico, il prius della determinazione e il mondo della sovrastruttura, dividendo così con un solco incolmabile la dialettica rivoluzionaria del marxismo dalla dialettica formale propria di tutti i trasformismi "innovatori".
A questo punto c'è da chiedersi non tanto quali e quanti sarebbero stati gli sviluppi ulteriori del pensiero filosofico e politico di Gramsci se una fine prematura e drammatica non ne avesse spezzato il corso ma, sulla base di un esame obiettivo degli scritti e del comportamento del dirigente politico, quali responsabilità gli vanno attribuite, a suo merito o demerito, per il nuovo corso imposto al PCI e realizzato, più o meno correttamente, in suo nome.
Se è vero che per noi italiani, come affermava Gramsci, essere eredi della filosofia classica tedesca significava "essere eredi della filosofia crociana che rappresenta il momento mondiale odierno della filosofia classica tedesca", bisogna dare atto a Gramsci che lo svolgimento degli accadimenti posteriori è la conferma viva dell'esattezza della sua previsione. Solo che è certamente vero in chiave idealistico-liberale, cioè croce-gramsciana, ma è certamente non vero in chiave marxista; l'una indica soluzioni liberal-riformiste, l'altra indica una soluzione rivoluzionaria.
La teoria del rovesciamento della prassi della sinistra hegeliana elaborata da Marx in modo sistematico segnò il ruolo prioritario e determinante del "materiale" sull'"ideale", del mondo strutturale dell'economia su quello sovrastrutturale delle idee e della volontà umana in un processo di interdipendenza, conquista questa d'importanza fondamentale per il suo contenuto rivoluzionario che affida al proletariato il compito di portarlo a compimento e che l'eclettismo teorico di Gramsci non può né oscurare né distorcere. Abbiamo detto eclettismo perché in definitiva in Gramsci il "problema della ricomposizione del marxismo" altro non è stato che una intelligente riappropriazione di più scuole e tendenze mai completamente fuse in unità. Bisogna allora sciogliere il nodo interpretativo in cui si è impigliato il pensiero di Gramsci e rifarsi alle fonti del materialismo dialettico per vedere il ruolo di fondo attribuito all'economico (mondo della struttura) nel nesso dialettico col pensiero umano (mondo della sovrastruttura). E cominciamo con un aforisma di Feuerbach "il vero non è ciò che è stato pensato ma ciò che è stato, nello stesso tempo che pensato, ugualmente visto, inteso e sentito".
Così Feuerbach poneva in essere concettualmente i termini del rovesciamento anche se poi perverrà all'errore di una determinazione materialistica, errore esattamente uguale ed opposto a quello del suo maestro Hegel, in una concezione materialistica assoluta priva di sviluppo per l'assenza di un vivificante rapporto dialettico.
Spetterà a Marx il compito di storicizzare il rovesciamento precisando, in confronto con la concezione hegeliana, la differenza esistente tra la dialettica materialistica e la dialettica idealista.
[...] Il mio metodo dialettico - afferma Marx - non solamente si distingue essenzialmente da quello di Hegel, ma gli è diametralmente opposto. Per Hegel, il processo del pensiero, che egli trasforma sotto il nome di idee, in un soggetto indipendente, è il demiurgo (creatore) della realtà, che non è che la manifestazione esteriore. Ma per me è giusto il contrario: l'ideale non è niente altro che il materiale tradotto e riordinato nel cervello dell'uomo.
Sotto la sua forma razionale, la dialettica non è agli occhi della borghesia e dei suoi difensori dottrinari che scandalo e errore perché alla comprensione positiva di ciò che esiste la dialettica aggiunge nel tempo stesso la comprensione della negazione, della rovina necessaria dello stato di cose esistente.
È sempre Marx che precisa:
la mistificazione alla quale soggiace la dialettica nelle mani di Hegel non toglie in nessun modo che egli sia stato il primo ad esporre ampiamente e consapevolmente le forme generali del movimento della dialettica stessa. In lui essa è capovolta. Bisogna rovesciarla per scoprire il nocciolo razionale entro il guscio mistico. (10)
L'atteggiamento tattico e l'obiettivo strategico del partito rivoluzionario di fronte agli intellettuali in genere e alle classi medie da cui gli intellettuali generalmente provengono, hanno in ogni epoca interessato, quando non appassionato, l'attenzione dei centri direzionali dei partiti che si sono susseguiti nelle varie fasi delle lotte del proletariato dissolvendosi, ogni volta, nelle nebbie di molteplici esperienze che non sono andate oltre l'utilitarismo politico più pragmatico e contingente dei blocchi e dei compromessi più o meno "storici" in un clima socio-politico come quello che ha sempre dimorato nel nostro paese in cui il pasticcio, l'intrigo, l'amore per l'aggregazione più sterile e opportunistica sono di casa.
Nella nostra storia più recente, gli anni 1919-26 assegnano la fase particolarmente più viva e significativa che consente di affondare nel concreto un'analisi del duplice processo di scissione e di aggregazione per quanto riguarda il ruolo degli intellettuali.
Per Gramsci sono gli anni della indecisione, della ricerca di un orientamento valido che fosse base e centro focale alla tormentata ansia d'una maturità ideologico-politica che si è avuta sì, ma su un piano diverso e per buona parte distorto in confronto a quello offerto dalla dottrina rivoluzionaria del marxismo, pagina certo singolare anche se parziale e inadeguata alle istanze della lotta operaia che stava per uscire dalle strettoie della guerra.
Conclusa la fase consigliarista del primo ordinovismo, indeciso sul problema di fondo del partito, Gramsci passa qui inosservato attraverso lo sforzo formativo del partito rivoluzionario tanto ad Imola che a Livorno, succube in buona o cattiva fede della potente e prepotente personalità di Bordiga. Ma la comunanza di lavoro e di responsabilità al centro del partito ebbe vita breve e non poteva accadere diversamente. A differenza di un Bordiga bonariamente estroverso, poliedrico, che nel dialogo andava al centro dei problemi sulla linea rigida della metodologia marxista e con la certezza assiomatica del matematico che non attende obiezioni ma solo di essere ascoltato, Gramsci all'opposto era per natura assai meno loquace, in tutto vegetativo ma con una prodigiosa capacità di vita interiore e di fervida e varia creatività spirituale sotto l'aspetto esteriore di un'estrema modestia e timidezza e, nel contempo, una sottaciuta volontà di potere personale, dati questi non necessari ma certo non fortuiti in chi ha poi dato la prova di avere appreso l'arte della politica in funzione dello Stato moderno dalle pagine del _Principe _di Machiavelli.
Lotta di classe e teoria dello “spirito di scissione”
In Gramsci l'analisi della storia, del corso cioè delle vicende umane, è particolarmente basata sull'osservazione dei processi molecolari che si sviluppano nell'interno della società in un succedersi di spinte di forze in movimento che provocano una serie ininterrotta di aggregazioni e disgregazioni, una visione immanentistica che egli definisce “spirito di scissione”.
Non siamo, è evidente, ad un tentativo di elaborazione teorica di un modo nuovo e organicamente definito di analizzare la storia e pervenire ad una diversa e originale visione del mondo ma è una costante negli scritti di Gramsci privilegiare il particolare, l'aneddoto, l'episodico come confluenti attivi e caratteristici nella formazione d'ogni seria spinta scissionistica in fase di crescita. Potrebbe essere questo un metodo valido di analisi del particolare, non fine a se stesso ma come approfondimento di conoscenza del ruolo che giocano le forze subalterne nel loro muoversi e polarizzarsi tra le due classi storiche che si contendono la supremazia:
[...] lo spirito di scissione - precisa Gramsci - deve tendere ad allargarsi dalla classe protagonista alle classi alleate potenziali; tutto ciò domanda un complesso lavoro ideologico, la prima condizione del quale è l'esatta conoscenza del campo da svuotare del suo elemento di massa umana. (11)
L'errore sta nell'aver fissato l'attenzione critica sul ruolo delle stratificazioni marginali, classi medie e piccola borghesia, mancanti per loro natura di una connotazione precisa di classe e di non averle considerate come forze socio-politiche il cui comportamento tattico è del tutto episodico e contingente, espressione cioè del variare di situazioni obiettive nel contesto della classe dominante operante unicamente ai fini di soluzioni parlamentari, secondo una strategia di consolidamento del sistema e dei suoi organi di potere. L'errore cioè, è di aver sottovalutato l'urto permanente ed insanabile tra le due classi fondamentali, preminente in questa fase di crisi profonda del capitalismo decadente, e di non far convergere la somma dei centri di disgregazione e insieme di scissione dal terreno della classe in disfacimento a quello della classe opposta, divenuta polo di attrazione e di convergenza per una liberazione totale; che è poi superamento rivoluzionario ed avvio al socialismo. Si tratta in una parola, di imboccare e percorrere la strada opposta a quella parlamentare - che riduce i centri di disgregazione e di scissione periferici della classe a motivi di trasformismo del sistema, per rimanere nel suo ambito nella illusione di farne una cosa diversa - la strada così indicata dalla storia che non trasforma ma rivoluziona, la strada dello scontro della classe contro classe.
La teoria Gramsciana dello spirito di scissione sottintendeva una linea politica del Partito Comunista d'Italia non più coincidente con i motivi ideali, con le strutture organizzative, con la tattica e la strategia del partito di Livorno. Si è andata così precisando la linea di netta separazione tra una politica che si sviluppa nel senso del marxismo rivoluzionario e mira ad investire con una lotta permanente le forze politiche e gli istituti della classe avversa e la politica dei revisionisti che intendevano spostare l'asse sul piano d'una realtà democratica in cui si riteneva possibile lo sviluppo d'una linea politica di crescita del partito aggregando a sé le forze intermedie che nel corso delle crisi cicliche del sistema si trasformano in forze di disgregazione e di scissione da cui nasce la tattica delle alleanze e del fronte unico. Si stanno precisando tutte quelle premesse teoriche, care all'ordinovismo prima maniera, con gli adattamenti imposti dalla nuova situazione, messi in evidenza dallo scontro teorico accesosi con l'iniziativa del Comitato d'Intesa e che avrà il suo compimento con il Congresso di Lione (1926). Sono in tal modo presenti e operanti i coefficienti che daranno vita a quel processo degenerativo le cui tappe si caratterizzeranno come qualche cosa di più e di peggio, almeno nella sua fase iniziale, di un semplice appiattimento dell'analisi marxista.
Ciò che è estremamente chiaro nel discorso Gramsciano è che alla teoria della contrapposizione dualistica del procedere della storia, propria del marxismo, ha posto come problema centrale a tale procedere la concezione pluralistica del succedersi progressivo, quasi per legge fisica, del movimento molecolare delle forze sociali, storicamente subalterne; in altre parole alla visione catastrofica del superamento dialettico che presupponeva come inevitabile la chirurgia dell'atto rivoluzionario, contrappone quella di una serie di passaggi, idealisticamente ad infinitum, da forze in fase di disgregazione in forze in fase di aggregazione secondo una dinamica di linearità progressiva. Altra considerazione distintiva e d'importanza fondamentale è che il marxismo dà funzione di priorità al fattore economico, che riflette le proprie spinte nel mondo della sovrastruttura, mentre per la metodologia Gramsciana tutto si svolge sul piano della sovrastruttura attraverso un processo molecolare dei fattori socio-economici e politico culturali, tutti confluenti, indistintamente, al compimento della vicenda storica. Ed è questo il processo che Gramsci ama definire, con termini tra loro contradditori, la fase della “rivoluzione passiva” che, al massimo, modifica e trasforma, nel bene come nel male, ma non spezza il tessuto economico e politico di un sistema, per crearne un altro diverso ed opposto. Insomma il senso della passività dà alla rivoluzione un carattere di permanenza, “rovesciata” in confronto a quella elaborata da Trotsky, perché lanciata lungo i binari del sistema vigente che non sarebbe mai pervenuta alla stazione di partenza della rivoluzione attiva. Non a caso i riferimenti storici su questo tipo di rivoluzione passiva sono prevalentemente legati, in modo episodico e contingente, ad una rivoluzione mancata (né attiva né passiva quindi quella) del Risorgimento italiano.
Si può applicare al concetto di rivoluzione passiva (e si può documentare nel Risorgimento italiano) il criterio interpretativo delle modificazioni molecolari che in realtà modificano progressivamente la composizione precedente delle forze e quindi diventano matrici di nuove modificazioni. Così, nel Risorgimento italiano, si è visto come il passaggio al cavourismo (dopo il 1848) di sempre nuovi elementi del Partito d'Azione ha modificato progressivamente la composizione delle forze moderate, liquidando il neoguelfismo da una parte e, dall'altra, impoverendo il movimento mazziniano (a questo processo appartengono le oscillazioni di Garibaldi, ecc).
Questo elemento pertanto è la fase originaria di quel fenomeno che è stato chiamato più tardi “trasformismo” e la cui importanza non è stata, pare, finora, messa in luce dovuta come forma di sviluppo storico. (12)
Che il trasformismo sia stato e sia tuttora una costante non secondaria nella storia dei partiti parlamentari non esclusi quelli che si richiamano alle masse lavoratrici, è caratteristica di fondo di ogni regime parlamentare e lasciamo ai Gramsciani di oggi il rammarico per il tardivo riconoscimento di considerare tale pratica della politica come forma di sviluppo storico.
Data una tale premessa teorica (di considerare il trasformismo come una componente indifferenziata delle vicende politiche dei partiti), c'è da chiedersi fino a che punto Gramsci sia stato presago e responsabile insieme delle future vicende del partito che, nato a Livorno come partito del proletariato rivoluzionario, è finito nella melmosa pratica politica del più spregevole e ingannevole trasformismo parlamentare pur di accedere all'area del potere come ultima trincea di difesa dell'attuale sistema di produzione capitalistica.
In questo quadro quali sono le forze sociali che vi operano e, su di esse, quale la funzione e le reali influenze degli intellettuali? Dobbiamo tenere presente che a questo argomento Gramsci ha dedicato largo spazio, forse troppo, di ricerca storica e di particolare attenzione critica, con la stessa passione e unilateralità con cui ha espresso quel ruolo di intellettuale sia nell'esame della questione meridionale sia nella funzione dei Consigli sul piano della lotta operaia nell'ambito prevalentemente industriale; si può dire che il ruolo dell'intellettuale, organico e no, costituisce il motivo conduttore di tutta la problematica Gramsciana che, svuotata da questo protagonista quanto mai mutevole e infido, anche nella teoria “dello spirito di scissione” verrebbe a mancare del suo maggiore pilastro di sostegno e si ridurrebbe a semplice flatus vocis che è quanto dire a semplice esercitazione letteraria.
(4) Plekhanov, Les questions fundamentales du marxisme.
(6) Engels, Ludovico Feuerbach.
(7) Gramsci, II materialismo storico e la filosofia di B. Croce.
(8) Marx, Prefazione a: Per la critica dell'economica politica.
(9) Lenin, Materialismo e empiriocriticismo.
(10) Marx, Il Capitale, "Poscritto alla II Edizione".
(11) Gramsci, Passato e Presente.
(12) Gramsci, Note sul Machiavelli.
(13) Gramsci, L'Ordine Nuovo, articolo apparso sul n. 21 dell'ottobre 1919.
(14) Lenin, Stato e Rivoluzione.
(15) Ci si riferisce alla nascita del Partito Comunista Internazionalista, sorto nel 1943 quale unica risposta alla degenerazione del PCI e alla Seconda Guerra Mondiale.
(16) Gramsci, Lettere dal Carcere.
(17) Gramsci, Il Risorgimento.
(18) Badaloni, Il marxismo di Gramsci, Einaudi, Torino 1975.
(19) Labriola, Del materialismo storico.
(20) Lenin, Opere complete, Editori Riuniti, Roma 1966.
(21) Lenin, La Rivoluzione Proletaria e il rinnegato Kautsky.
(22) Marx-Engels, Opere Scelte, Editori Riuniti, Roma 1952.
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