Le piccole e medie industrie punto di forza nella strategia del compromesso storico

La particolare struttura del sistema produttivo italiano, caratterizzato dalla presenza predominante della piccola e media industria, ha indotto qualcuno come il P.C.I., a ritenere che questa possa svolgere un ruolo autonomo ed indipendente rispetto ai colossi monopolistici, mettendo, di fatto, in discussione la critica marxista al sistema capitalistico che fa discendere dai meccanismi e dalle contraddizioni del processo di accumulazione la tendenza alla concentrazione dei mezzi di produzione e quindi delle imprese.

La struttura, a ben vedere del sistema produttivo italiano, nonostante alcune sue peculiari caratteristiche e le modificazioni da questo subite nel corso degli ultimi anni, non smentisce ma conferma in pieno la validità della teoria marxista.

In Italia, secondo i dati del censimento 1971, operano nel settore industriale 798.000 imprese; di queste 673.000 sono artigianali (con max 10 dipendenti) ed occupano 1 milione 626 mila dipendenti; 85 mila (da 10 a 99 dip.) occupano 2 milioni 143 mila dipendenti; infine 954 grandi imprese (con oltre 500 dip.) occupano I milione 275 mila dipendenti. In percentuale si ha che il 25,6% degli occupati, del settore, dipendono da imprese artigianali; il 33,7% da piccole imprese. Nelle imprese medie (fino a 499 dip.) è occupato il 20,7% ed il 20% nella grande industria. Da questi dati risulta evidente la presenza massiccia della piccola e media industria in uno dei settori portanti del sistema produttivo. Nonostante la mancanza di una specifica indagine sui rapporti esistenti tra colosso monopolistico e media e piccola industria, basta, comunque, riflettere su alcuni aspetti evidenti del problema per capire come di fatto la piccola industria dipenda in tutto e per tutto dalla grande. Un esempio. Basta che la Fiat chieda la cassa integrazione per 65 mila dei suoi dipendenti perché altri 200 mila occupati nella piccola e media industria ne seguano le sorti. Esiste in questo caso un rapporto di circa 1 a 3, ovvero per ogni dipendente Fiat 3 sono occupati in piccole e medie imprese le cui vicende sono strettamente legate a quelle del colosso dell'automobile.

Non diversa è la situazione nel settore manifatturiero dove le piccole imprese occupano il 22,7% del totale dei dipendenti; le imprese medie (da 250 a 499 dip.) il 22% e le imprese con più di 500 dipendenti il 23,2%. Anche in questo caso la contrazione della domanda ha provocato la chiusura di numerosissime piccole e medie imprese, soprattutto quelle dislocate nel biellese che occupavano complessivamente oltre 200 mila dipendenti. Le imprese del biellese producono essenzialmente filati per conto delle poche (si contano sulle dita di una mano) grandi aziende che completano poi il ciclo di trasformazione fino alla confezione.

L'hinterland milanese è disseminato di aziende che occupano in media 20 dipendenti le cui sorti sono strettamente legate a quelle delle poche grandi come l'Alfa, la Montedison, la Pirelli ecc.

Che di fatto la piccola e media industria possa essere considerata una sezione staccata della grande concentrazione monopolistica lo si deduce dal rapporto tra il numero di S.p.A. esistenti e il capitale sociale totale da esse posseduto. Delle 47 mila 926 società esistenti al 31-12-1973, il 70,5 rappresentavano il 4,7% del capitale sociale, mentre il 3,6% (le grandi imprese) rappresentavano il 72,5%.

La subordinazione della piccola e media industria alla grande, alla luce di questi dati, appare totale.

Il fiorire di numerosissime piccole imprese verificatosi negli anni '50 e '60 non è avvenuto contro la grande industria ma al contrario da determinate scelte economiche delle grandi imprese.

Negli ultimi 20 anni e soprattutto nell'immediato dopoguerra il forte aumento della domanda interna, dovuto al processo di ricostruzione del paese, venne considerato dalla grande concentrazione monopolistica un fenomeno transitorio per cui questa non ritenne utile colmare la sfasatura esistente fra offerta e domanda, aumentando la propria capacità produttiva, ma preferì canalizzare la domanda esuberante su imprese di piccole dimensioni mediante il ricorso al sistema delle sottocommesse. Tale sistema consente, anche oggi, alle grandi imprese di ridurre i rischi dalla produzione e di realizzare economie sui costi della manodopera in quanto le piccole e medie imprese sono in condizione di eludere più facilmente la pressione sindacale.

Il sistema delle sottocommesse poggia infatti essenzialmente sulle maggiori possibilità della piccola impresa di pagare salari più bassi. Questa, dato il piccolo numero di operai che occupa è sottoposta ad una insignificante pressione sindacale per fui è facile per il piccolo imprenditore non rispettare, ove esistano i contratti collettivi di lavoro, le norme antinfortunistiche, i limiti al cottimo, gli stessi orari di lavoro, tanto da colmare con queste forme di sottosalario gli svantaggi derivanti dalla scarsa produttività delle piccole imprese.

Un esempio ci è dato dal Giappone il cui apparato produttivo presenta notevoli somiglianze con quello italiano. Nel paese del sol levante, la produttività media delle piccole imprese è pari al 55% di quella delle grandi, ma nonostante ciò esse, grazie ai salari di 1/3 inferiori a quelli pagati dalle grandi imprese, hanno conosciuto negli anni '50 un notevole sviluppo svolgendo un ruolo di ammortizzatrici dei rischi e costi generali delle grandi imprese che, per la produzione di parti staccate, preferivano ricorrere al sistema delle sottocommesse più che alla produzione in proprio. In questi ultimi anni, sempre in Giappone, gli effetti della crisi economica, l'aumentata concorrenza sui mercati internazionali ed infine il calo su scala mondiale, per effetto dell'inflazione, del salario reale, hanno notevolmente ridotto la convenienza al ricorso sistematico al sistema delle sottocommesse, da qui la chiusura di circa 300 mila piccole imprese nel 1973.

In Italia per queste stesse ragioni si è registrato, nello stesso periodo, contro una paurosa serie di fallimenti di piccole e medie imprese, un forte incremento dello sfruttamento del lavoro femminile a domicilio. Questo sistema, molto accentuato nel meridione, offre alla grande impresa il duplice vantaggio di eliminare il ricorso alla piccola impresa e di ridurre di molto il costo della manodopera sulla produzione di parti staccate; infatti il costo di un'ora di lavoro a domicilio è pari a meno della metà di quello in fabbrica.

La fortuna delle piccole imprese risulta essere più il prodotto di situazioni particolari, inerenti al mercato del lavoro ed in generale alla congiuntura economica, che il frutto di particolari capacità imprenditoriali dei loro padroni come sostiene il P.C.I. (vedi Rinascita n° 45 del 15-11-74). Il fatto che la presenza della piccola impresa è molto consistente in quelle aree, come l'Italia ed il Giappone, che dispongono di grossi serbatoi di forza-lavoro ne è la prova più evidente.

Le possibilità di sopravvivenza delle piccole imprese dipendono dunque essenzialmente da due fattori:

1) che il processo di accumulazione capitalistico sia in fase ascendente e quindi il saggio del profitto sia sufficientemente elevato;

2) che le condizioni del mercato del lavoro siano tali da consentire alle piccole imprese di sopperire alla loro scarsa produttività con economie sui costi del lavoro.

La prima condizione è, a nostro modo di vedere, determinante. Infatti se il saggio del profitto è basso l'economia tende al ristagno e la debole base economica e finanziaria che caratterizza ,le piccole imprese, risulta inadeguata a reggere la concorrenza spietata delle grandi imprese che cercano con tutti i mezzi di accaparrarsi anche le più piccole briciole di plus-valore. Non a caso i periodi di crisi sono caratterizzati da una sfrenata corsa alla concentrazione e dalla rovina di molte imprese capitaliste anche grandi.

La seconda è legata direttamente alla forza ed alla maturità del movimento operaio. Per la sua stessa natura la piccola impresa, abbiamo detto, riesce a ridurre i costi del lavoro in mille modi, ma quando la classe operaia riesce ad imporre un trattamento salariale unico per tutti gli operai, indipendentemente dalle dimensioni delle aziende in cui sono occupati, risulta no evidenti le difficoltà della piccola impresa di fronteggiare l'accresciuto costo del lavoro. Nel 1969 moltissime piccole aziende chiusero i battenti proprio per questa ragione.

L'attuale crisi economica ha letteralmente messo in ginocchio la piccola e media industria italiana che si è dimostrata incapace di fronteggiare la concorrenza accanita delle grandi imprese. Nonostante manchino i dati relativi al 1974 ed in particolar modo all'ultimo trimestre, al periodo cioè in cui la produzione si è più fortemente contratta e la crisi economica accentuata, rileviamo che già nel 1973 fra le 2 mila 546 imprese che hanno cessato la loro attività, 16 avevano un capitale inferiore ad 1 milione di lire, 1183 un capitale medio di 2,1 milioni ed escludendo i 15 miliardi rappresentanti il capitale di una società (la Zoppas incorporata dalla Zanussi), le rimanenti 1346 avevano complessivamente un capitale di 165.480,5 milioni di lire e quindi un capitale medio di soli 129 milioni di lire. Rispetto al 31-12-72, inoltre, si è registrato uno scivolamento delle società verso capitali più elevati: a quella data, le società con meno di 100 milioni di capitale rappresentavano il 72,7% del totale contro il 70,5% del 1973.

Nell'ultimo trimestre del '74, nel settore del commercio, contro un deciso rafforzamento della grande distribuzione si è avuta nella sola provincia di Milano la chiusura di ben 50 mila negozi.

In questi ultimi anni la piccola e media industria italiana è stata colpita da un lato, dalla concorrenza delle grandi imprese che, mediante la ristrutturazione tecnologica del loro apparato produttivo, sono riuscite a diminuire i costi di produzione e quindi hanno abbandonato definitivamente il sistema delle sottocommesse oppure, costrette loro stesse a ridurre la produzione, non hanno passato ordini alle piccole industrie ad esse collegate; dall'altro dalla politica di restrizione del credito adottata dalla banca centrale che le ha, di fatto, lasciate prive di finanziamenti.

Permanendo la crisi è facile prevedere che la stretta che soffoca le piccole imprese è destinata ad intensificarsi e che poche saranno le imprese di piccole dimensioni, quelle a livello artigianale, che riusciranno a sopravvivere.

«Il grande capitalista -- dice Marx ― ha di fronte al più piccolo tutti i vantaggi che il capitalista in quanto tale ha di fronte all'operaio» (Manoscritti ed. Einaudi pag. 35)

La grande impresa, colpita dalla caduta del saggio del profitto, nel tentativo di recuperare plus valore, mette in essere le condizioni che rendono impossibile la sopravvivenza ad aziende che non abbiano solide basi economiche e finanziarie e non possono certo i piccoli e medi imprenditori opporsi a questa logica poiché questa è la logica del profitto né tantomeno può opporvisi il P.C.I., novello difensore dei piccoli industriali che questo sistema vuole conservare.

Il P.C.I., utilizzando acriticamente quantitativi relativi alla presenza numerica delle piccole imprese nel sistema produttivo italiano, al fine di allargare la base di consenso alla proposta del compromesso storico, ha assunto di recente ufficialmente, la difesa della piccola industria fino a riconoscerle uno spazio anche in regime socialista.

«L'iniziativa individuale e l'impresa privata piccola e media ― diceva Togliatti ― hanno una loro insostituibile funzione ― nella società italiana ― anche in economia socialista»

E Peggio, economista del P.C.I. ha ribadito recentemente che la linea di difesa della piccola industria fatta propria dal P.C.I. non è

«contingente ma è di carattere strategico e valida per un lungo periodo storico»

Il P.C.I., individuato, giustamente, nella pressione operaia uno dei fattori determinanti della crisi della piccola industria, pur di guadagnarsi i consensi di questa, al fine di stringere una sicura alleanza, non esita ad offrire ai piccoli imprenditori un trattamento sindacale di favore.

«Se i piccoli e medi imprenditori sapranno distinguersi sul terreno contrattuale dalla grande industria, ed offrire interlocutori validi e rappresentativi al sindacato... questo saprà, certamente, nell'autonomia delle sue decisioni, trovare rapporti nuovi, anche normativi, e, quando sarà necessario, forme nuove e differenziate di lotta che non mettano sullo stesso piano la piccola industria ed il colosso monopolistico» (Amendola ― Convegno sulle piccole e medie industrie ― Milano Nov. 74)

Il sindacato dovrebbe dunque, con forme differenziate di lotta, concedere alla piccola industria il crisma della legalità nella pratica del sottosalario poiché solo questa pratica può garantirla in qualche modo dall'attacco della grande industria.

Completamente diverso era l'atteggiamento di Marx nei confronti dei piccoli imprenditori e dei ceti medi che vedeva nella loro rovina un obiettivo rafforzamento del proletariato.

«Per giunta... intere porzioni della classe dominante vengono fatte precipitare nel proletariato dal progredire dell'industria, o per lo meno vengono minacciate nelle loro condizioni di vita. Anche esse forniscono al proletariato una quantità di elementi formativi» (Marx - Il Manifesto)

In verità Marx mira alla distruzione rivoluzionaria della società capitalista e pertanto non si pone il problema di difenderne una qualunque delle sue manifestazioni; il P.C.I. mira invece «ad una politica di riforme per assicurare uno sviluppo economico... fino ad una trasformazione in senso socialista» della società. Sono due modi di vedere completamente opposti ed opposte sono le conclusioni. Per Marx:

«i ceti medi, il piccolo industriale, l'artigiano, il contadino combattono tutti la borghesia per poter conservare la propria esistenza come ceti medi quindi non sono rivoluzionari bensì conservatori. Ma vi è di più: essi sono reazionari, giacche cercano di far camminare a ritroso la storia: se sono rivoluzionari lo sono in quanto prevedono di dover passare al proletariato e non difendono i loro attuali interessi, ma quelli futuri ed abbandonano il loro punto di vista per adottare quello del proletariato»

I nazionalcomunisti non sono neppure coerenti riformisti, peggio sono reazionari.

Essi vorrebbero conciliare l'inconciliabile, poiché mirano al mantenimento della condizione attuale dei ceti medi, della grande industria accanto ad una diversa utilizzazione delle forze della produzione.

«Nessuna lotta di classe tra piccole medie e grandi imprese... è auspicata dal P.C.I.. Quello che si chiede e una mobilitazione delle forze produttive nel perseguimento della estensione della base produttiva, che abbia come punti di riferimento i fondamentali bisogni sociali » (Rinascita n° 45 - 15-11-74)

Ma a dispetto di Berlinguer e del suo partito la società capitalista è quella che ben conosciamo

«e aspettare dal modo di produzione capitalistico un'altra distribuzione dei prodotti significa pretendere che gli elettrodi di una batteria stando in collegamento con la batteria non debbono scomporre l'acqua e sviluppare ossigeno al polo positivo ed idrogeno al polo negativo» (Engels Anti-Duhring)

E se questa è la realtà ― e noi concordiamo con Engels ― c'è poco da fare per i piccoli imprenditori: o si pongono in difesa dei loro futuri interessi, quindi con il proletariato contro il capitalismo o saranno scaraventati nel baratro... con il P.C.I.

Giorgio

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.