Amadeo Bordiga fuori dal mito e dalla retorica

Problemi del nostro tempo

Il nostro partito, che non ha fatto di Bordiga un feticcio e che, Bordiga vivo, ha apertamente dissentito da alcune sue posizioni di principio ma soprattutto dalle deformazioni che ne hanno fatto non pochi epigoni che si sono serviti del suo nome, è nelle condizioni migliori per parlare di lui, della sua alta statura di militante, della sua opera di organizzatore infaticabile ed anche dei suoi stessi limiti.

Per questo, mentre rifiutiamo il tono apologetico del “post mortem” che è stato adoperato e che Bordiga avrebbe respinto con la sua abituale battuta come fesserie, ci proponiamo di mettere in evidenza quanto del suo contributo va considerato e difeso perché entrato di diritto nella elaborazione della teoria rivoluzionaria e quanto, invece, non è da considerarsi sulla linea della continuità storica della sinistra comunista internazionale e particolarmente di quella passata alla storia col nome di “sinistra italiana”.

Dobbiamo a Bordiga la teoria dell'astensionismo tattico enunciata in una fase del parlamentarismo più deteriore basato sul clientelismo personale, sulla corruzione e il sottogoverno germogliati nel socialismo meridionale e di aver dato consistenza organizzativa a questa corrente nell'ambito del partito socialista italiano creando con questo il presupposto teorico-pratico alla rigenerazione del pensiero marxista avvilito dalla degenerazione democratica e alla lotta a fondo contro il parlamento, il maggiore baluardo della democrazia parlamentare corrotta e corruttrice insieme.

Dobbiamo a Bordiga la ricostruzione del quadro teorico del socialismo scientifico nelle linee fondamentali datane da Marx e da Engels tonificando in tal modo la parte migliore politicamente più sensibile del partito socialista stretta nelle morse di una socialdemocrazia che dirigeva di fatto il partito dai seggi di Montecitorio, che aveva in Kautsky il suo pontefice massimo, che mutuava la rivoluzione con la evoluzione, la dittatura del proletariato con la dittatura del parlamento impersonata in Giolitti.

Dobbiamo a Bordiga l'elaborazione teorica del giusto rapporto tra partito e classe da cui dipende la riuscita di una politica rivoluzionaria. Si può affermare, senza tema di peccare di esagerazione e di essere comunque smentiti, che la definizione di tale rapporto che teoricamente e politicamente è un punto fermo della tematica marxista, rappresenta una geniale fusione tra l'esperienza della “sinistra italiana” e quella di Lenin conclusasi vittoriosamente nella rivoluzione d'Ottobre. E va aggiunto che l'elaborato di Bordiga su “partito e classe” non soltanto è servito da punto di riferimento marxista nel periodo del primo dopoguerra ai partiti che andavano formandosi nella scia della rivoluzione d'Ottobre, ma è tuttora un classico e lo sarà per tutta la fase che precede la prossima ondata rivoluzionaria del proletariato. Ignorarlo o tentare di attenuarne i termini, anche se fatto in nome di Bordiga o di un generico e approssimativo bordighismo, sarebbe snaturarne il significato e il ruolo di indirizzo permanente nell'azione del partito rivoluzionario.

Bisogna riandare alla piattaforma elaborata al Convegno di Imola e posta alla base della formazione del Partito Comunista d'Italia al Congresso di Livorno per seguire i momenti formativi d'una dinamica del partito di cui Bordiga più e meglio di ogni altro, ha tratto esperienza viva e dati obiettivi e subiettivi per la elaborazione della sua teoria sul partito in rapporto alla classe.

Centralismo organico? Centralismo democratico? Noi lo chiameremmo, con maggior coerenza con il Bordiga di allora che per noi vale non come il Bordiga migliore, ma come il Bordiga di sempre, centralismo dialettico perchè compenetrato di spinte anche se per lo più irrazionali provenienti dalla base della organizzazione, recepite e razionalizzate dal vertice per tornare a loro volta alla base per essere tradotte in termini operativi e di concretezza politica.

Dar credito ad una teoria del centralismo organico e attribuirne la elaborazione a Bordiga che non ne ha mai riconosciuto la paternità, in nome di una concezione antidemocratica tesa all'assurdo, è ridicolizzare Bordiga che pure porta la responsabilità e non soltanto formale, delle “Tesi di Roma” in cui, nella parte relativa alla tattica diretta e indiretta, è esplicito il richiamo leninista di piegare le stesse concessioni offerte dalla democrazia all'interesse del partito rivoluzionario.

Quanto poi abbia contato la cosiddetta “conta” come simbolo del metodo democratico che legittima l'esistenza della maggioranza e della minoranza dei comitati centrali che a questa conta sono meccanicamente legati chi scrive ricorda come reagì alle decisioni prese nell'ultima riunione tenuta a Napoli che doveva decidere lo scioglimento o meno del Comitato d'Intesa dietro il perentorio invito di Zinoviev, segretario dell'Internazionale; messo in minoranza Bordiga, che accettava lo scioglimento “sic et simpliciter”, avvertì con accorato stupore di essere per la prima volta in minoranza (sono le sue parole) nello stesso raggruppamento della sinistra che portava di fatto il suo nome. Altro che l'irriverente per non dire ridevole, accostamento a Lenin fatto da “Programma”:

come restauratore del marxismo su un piano perfino più alto, non per virtù personali, ma per collocazione storica, eliminando fin l'ultimo anello di congiunzione con qualunque residuo, anche involontario, esteriore e linguistico-formale, di democratismo.

Abbiamo sottolineato noi questo brano per mettere in evidenza il paradossale rimescolamento di idee e di metodi in cui il disegno teorico è campato in aria al di fuori della realtà e contro la realtà stessa in una frenesia di soggettivismo idealistico lontanissimo da ogni seria metodologia marxista del tutto estranea all'opera e alla elaborazione teorica propria di Bordiga. Allora si capisce il perché della definizione e legittimazione di certo centralismo organico nell'amministrazione degli organi e della vita del partito rivoluzionario che Bordiga non ha mai definito teoricamente e mai praticato nell'ambito della sua attività di militante.

Ne consegue che al posto dei Comitati Centrali eletti dai Congressi secondo il metodo del centralismo democratico possono venir fuori, ad esempio, Commissari permanenti che fanno e disfano secondo criteri lasciati in eredità dallo stalinismo.

Va riconosciuto, tuttavia, che è facile rintracciare in molti scritti, come in molti atteggiamenti personali di Bordiga, intuizioni e originalità più o meno geniali e polemiche a cui non ha fatto seguito un adeguato lavoro di sistemazione teorica e di approfondimento critico al vaglio dell'esperienza accumulata dal movimento operaio in un momento dato della sua lunga storia. È questo il caso del “centralismo organico” che qualche epigono di dubbio marxismo penserà a distorcere sul piano di un aberrante soggettivismo, come in pratica si è già verificato, e con danni inferti all'organizzazione e alla giusta linea indicata dall'esperienza leninista, non sempre rimediabili.

Dobbiamo a Bordiga il rovesciamento di una politica tradizionale del partito socialista in cui il programma minimo, quello della tattica contingente, era tutto il programma massimo, quello della strategia era nullo perchè ridotto a semplice e convenzionale enunciato di una ipotetica, evanescente conquista del potere da parte della classe lavoratrice che sarebbe avvenuta per legge di evoluzione (la teoria cara ai riformisti della “pera matura che cade da sé”). Come ogni rovesciamento assumeva anche questo in Bordiga i termini a volte paradossali di una negazione assoluta o di una affermazione altrettanto assoluta; spariva nei suoi scritti il termine “tattica” per essere sostituito in quello di “strategia”. E dava l'impressione di ridurre così la dialettica nei due termini fissi della contraddizione, ma in realtà era, per l'autore, l'unico modo, anche se drastico, di rompere una tradizione di pensiero e di pratica politica, quella riformista, per porre l'accento sulla strategia che dialetticamente ha in sé e supera il dato del momento tattico sempre limitato e provvisorio, in una visione più ampia e più vera del momento strategico.

Togliamo dalla esperienza personalmente vissuta due episodi che sono illuminanti e particolarmente significativi a questo proposito, come, cioè, il momento tattico diventa dialetticamente valido nel quadro di una strategia di classe; si tratta della indicazione indirettamente data da Bordiga, da poco defenestrato dalla direzione del partito di Livorno, al nuovo centro Gramsci-Togliatti circa la linea tattica da condurre nell'aula del parlamento e non fuori di essa nella situazione di profondo smarrimento provocato dall'assassinio di Matteotti: niente questione morale, consigliava; niente secessionismo parlamentare tipo Aventino, dietro e a fianco dei partiti della democrazia nella illusione di combattere il fascismo in nome della morale borghese offesa dal feroce assassinio, o in nome della difesa dell'istituto parlamentare garante della vera democrazia, o, persino, in nome della difesa dell'istituto regio delle prerogative della monarchia sabauda. Questa linea di condotta che fu seguita, poi, dal centro del partito di malavoglia, a rilento e a zig-zag, come è risaputo, fu consigliata ed elaborata in casa di Bordiga ed espressa nel discorso che Grieco lesse alla camera, proprio quel Grieco fino allora discepolo prediletto di Amadeo e di lì a qualche mese nemico “irriducibile” di Bordiga e della “sinistra italiana”.

Il significato più profondo di questa indicazione, è che l'antifascismo tattico del centro del partito, ligio alla politica dello Stato russo, doveva concludersi con lo schieramento del partito sul fronte della guerra imperialista e con la sua giustificazione teorica distorcendo in modo infame e quanto mai pacchiano la teoria di Lenin sull'imperialismo e sul compito del partito rivoluzionario di avversare la guerra mirando alla sua trasformazione in guerra di classe; ideologia e compito che solo la sinistra comunista ha difeso allora e continua a difendere oggi.

La seconda esperienza tattica, intesa come momento di un obiettivo strategico, si situa nel cuore della crisi interna del nostro partito che rappresentava nel suo nascere, come lo rappresenta oggi, non un tentativo di polemica rivolta dall'esterno al P.C.I. per raddrizzarne lo sviamento ideologico e l'opportunismo della sua linea politica, ma l'ergersi della “sinistra italiana” a partito della rivoluzione nel momento che questo era obiettivamente venuto a mancare. Il dissenso verteva soprattutto sul come considerare l'organizzazione sindacale e di fabbrica che noi ritenevamo indispensabile al partito della rivoluzione che si richiamava non soltanto alla classe, ma alla necessità di una crescita dei quadri del partito adeguati ai suoi compiti fondamentali e che altri ritenevano come prassi socialdemocratica di sinistra da respingere dalla politica del partito.

Bordiga, che non era iscritto al partito, ma che al partito portò il contributo di una seria collaborazione teorica (mai di milizia attiva) ritenne di doversi inserire nel dibattito sostenendo la tesi che tra partito e classe sono necessari organismi intermedi (le organizzazioni sindacali) la famosa cinghia di trasmissione senza la quale il partito verrebbe a mancare dello strumento per il contatto diretto con le masse che il sindacato inquadra e conduce alle lotte rivendicative, ciò che non rientra nei compiti specifici del partito rivoluzionario. Ma è soprattutto per la esistenza di questi organismi intermedi tra partito e classe che si crea la condizione prima e permanente perché il partito possa attingere dal seno delle masse lavoratrici e dalle loro lotte la condizione del suo esistere, la validità della sua dottrina, la possibilità del suo concrescere con la classe nel suo complesso e apprestare gli strumenti e il materiale umano per servirsi delle lotte contingenti e del loro ingrandirsi e approfondirsi per elevare il particolare e il contingente all'universale della classe che è quanto dire allargare e approfondire le possibilità oggettive e di sovrastruttura della crescita rivoluzionaria.

Questo intervento ebbe allora scarsa eco tra quei compagni che ripugnavano all'azione sindacale con l'animosità propria dei neofiti: a rottura avvenuta dell'organizzazione internazionalista si è poi determinato quel voltafaccia che tutti conosciamo senza una giustificazione critica che un ribaltamento del genere avrebbe dovuto correttamente comportare.

Abbiamo creduto opportuno ricavare questi due episodi di profonda sensibilità e aderenza con cui Bordiga, e con lui la “sinistra italiana”, ha affrontato e risolto il difficile problema della tattica rivoluzionaria e in sede di teoria e in sede di applicazione pratica sfatando così la leggenda, se ancora ce ne fosse bisogno, di un Bordiga e di una sinistra incapaci di sentire i problemi della tattica. Ciò che di vero è in questa accusa, cara ai Gramsci e ai Togliatti all'epoca del loro faticoso e oscuro arrembaggio alla direzione del Partito Comunista d'Italia (1923) in sostituzione della sinistra, avvenuta, va ripetuto, non per decisione della base del partito, nella stragrande maggioranza di sinistra, ma per decisione della nuova politica russa alla quale il Centro della III Internazionale si adeguava in ogni aspetto della sua politica, anche intromettendosi nei fatti interni dei partiti delle singole sezioni appartenenti all'Internazionale, è che la sinistra è sempre stata ed è apertamente e decisamente contraria alla tattica a sé stante, staccata cioè dalla linea di una strategia di classe; apertamente e decisamente contraria a quella tattica contingente e piena di concretezza del reale che, a cominciare da Gramsci e da Togliatti, ha fatto del Partito Comunista d'Italia il partito del compromesso sistematico e della politica di piccolo cabotaggio, il partito della via italiana e pacifica al socialismo.

Abbiamo esaminato fin qui brevemente ma con senso di obiettività quanto di Bordiga, militante rivoluzionario, è passato nel corpo di dottrina e di insegnamenti scaturiti da una esperienza che copre un arco di lotta tra le più roventi della storia del movimento rivoluzionario e che costituisce patrimonio indubbio della sinistra italiana e quindi del partito rivoluzionario. Verremmo però meno al nostro dovere di militanti di un partito rivoluzionario se non fossimo altrettanto obiettivi nell'esaminare i limiti del suo pensiero e della sua personalità sottacendo per ragioni di sentimento o di supposta opportunità politica, quanto di contraddittorio e di inconseguente nell'opera e negli atteggiamenti di questo nostro compagno riteniamo non si sia svolto sulla linea di questa tradizione.

È mancato a Bordiga una giusta valutazione della dialettica per quel fondo della sua educazione basata prevalentemente sul dato scientifico che lo portava a vedere il mondo e la vita su di un piano di sviluppo razionale quando la realtà della vita sociale e della lotta rivoluzionaria lo ha messo spesso davanti ad un mondo che obbedisce in buona parte a spinte di irrazionalità. La metodologia basata sul dato matematico proprio della scienza non sempre combacia con la metodologia basata sulla dialettica che è movimento e contraddizione e questo, sull'esame della politica rivoluzionaria e delle sue prospettive, non è di poco conto. Nel quadro di una sottovalutazione del metodo di analisi basato sulla dialettica marxisticamente intesa, vanno ricercate le ragioni della inutilità del Congresso di Bologna (1919) ai fini di una fondamentale chiarezza delle realtà e delle immediate prospettive per ciò che concerneva il partito socialista, praticamente finito come partito della rivoluzione, se pur vivo e vegeto come partito parlamentare, e la necessità di operare in quel congresso la formazione di un nuovo partito o attraverso una scissione delle forze protese all'atto rivoluzionario o attraverso il coagulo di tutte le forze della sinistra rivoluzionaria in un partito nuovo nelle strutture del vecchio in attesa del momento giusto per operare il taglio. Era questa la condizione sufficiente e necessaria per dar vita al partito comunista ideologicamente e organizzativamente maturo per assumere il ruolo di sprone e di guida del proletariato, mentre ancora la situazione era aperta alla soluzione rivoluzionaria; a Livorno (1921) la situazione era già cambiata e le forze del proletariato erano di fatto in ritirata sotto l'incalzare della reazione fascista. Lo stesso Bordiga cui incombeva la maggiore responsabilità dell'indirizzo teorico-politico della sinistra astensionista non aveva capito che a Bologna, e non dopo, doveva essere dato il via alla costruzione del Partito Comunista e che un tale evento storico imponeva una piattaforma che non avesse come sua componente essenziale un espediente tattico quale era l'astensionismo, ma una piattaforma non dissimile da quella del partito di Lenin, che fosse centro di attrazione e di raccolta di tutte le forze di sinistra disposte a battersi per la rivoluzione proletaria nella quale anche l'astensionismo avrebbe potuto giocare un ruolo non secondario, anche se non preminente, come antidoto salutare al dilagare dell'elezionismo più deteriore.

Una corretta interpretazione dialettica non pone come termini di contraddizione fondamentale, come nel caso in esame, elezionismo e astensionismo, ma le ragioni storiche di una classe nel suo complesso soggetta economicamente e politicamente, il proletariato, e la classe opposta che l'assoggetta, il capitalismo.

Fin qui la vicenda umana e politica di Bordiga conclusasi praticamente con la defenestrazione della sinistra dagli organi direttivi del partito e, per conseguenza, la fine obbligata della direzione Bordiga. Ma è soprattutto la coscienza del crollo della III Internazionale come centro di direzione rivoluzionaria che ha operato in Bordiga quel trauma psico-politico che lo accompagnerà per oltre un quarantennio fino alla sua morte: un complesso di inferiorità che lo porterà ad avere paura di metter fuori la testa dalle macerie di quella enorme organizzazione internazionale che era crollata improvvisamente sulla testa di coloro che avevano creduto nella sua continuità e nella sua forza come ad una certezza che aveva più del mistico che dello scientifico.

In questo particolare clima va considerata la sua condotta politica, il rifiuto costante ad assumere politicamente un atteggiamento che potesse qualificarlo responsabilmente. Si sono così susseguiti avvenimenti politici, a volte di importanza storica, che sono passati accanto a questa sdegnosa estraneità, senza eco alcuna: il conflitto Trotsky-Stalin; lo stalinismo; la nostra frazione che all'estero, in Francia e Belgio, continuava storicamente la ideologia e la politica del partito di Livorno; la II guerra mondiale e, infine, lo schieramento della Russia sul fronte della guerra dell'imperialismo. Né una parola, né un rigo proprio nello stesso spazio storico, su un piano più allargato e complesso di quello della prima guerra mondiale che aveva offerto a Lenin i dati obiettivi per una analisi marxista condensata in “Imperialismo come fase suprema del capitalismo” e in “Stato e Rivoluzione”, pilastri della dottrina rivoluzionaria e presupposto teorico della rivoluzione d'Ottobre.

Bisogna attendere la fine della guerra e con essa la fine della esperienza fascista per allacciare veri e propri contatti con i compagni e i quadri rimasti dell'organizzazione, primo fra tutti quello con Bordiga per consentirci di conoscere quale fosse il suo pensiero sui maggiori problemi e che cosa intendesse fare come militante comunista: non si trattava di chiedere a Bordiga l'assunzione di responsabilità al centro del partito anche se completo e costante era il suo apporto come consigliere e collaboratore “anonimo” del partito quando non si faceva ispiratore di un indirizzo di politica generale non sempre coincidente con quella del partito. Il suo discorso divergeva dal nostro anche se, grosso modo, il metodo di analisi fosse quello di sempre. Sosteneva che non si dovesse parlare dell'economia russa in termini di “Capitalismo di Stato” ma di “Industrialismo di Stato”, non di rivoluzione socialista, quella di Ottobre, ma di rivoluzione antifeudale e quindi di una economia che tendeva al capitalismo. Ma non sembrava molto convinto di quello che affermava e le rettifiche che ha dovuto apportare poco tempo dopo al suo pensiero ne sono la conferma. E allora quale è la ragione di una copertura ideologica così fragile e in così evidente contrasto col suo passato soprattutto con i punti cardini della piattaforma della “sinistra italiana” elaborati dallo stesso Bordiga? Non vogliamo entrare nelle pieghe di un dramma psicopolitico che ha come sua componente la paura, anche e soprattutto fisica, di una rottura con quel passato di esperienza nella quale egli aveva costruito con la sua coscienza prima ancora che con la sua intelligenza e creatività, il capolavoro della sua vita politica degli anni 20 così intensamente vissuta. Il “Capitalismo di Stato” portava il segno di una significazione di classe; l' “industrialismo di Stato” no, lasciava le cose come stavano o come si desiderava che stessero.

Riteniamo perciò che sia positivo essere stati costretti a ritornare ora su questi argomenti con una esperienza più matura ed avvertita in confronto a quella che si poteva avere intorno agli anni 40.

E una tardiva e non convinta giustificazione alla teoria sull' “industrialismo di Stato” è riapparsa poi buttata lì, quasi per incidente sul N. 3, febbraio 1966, di “Programma Comunista” per mano dello stesso autore; trascriviamo dall'articolo “Il nuovo statuto delle aziende di Stato in Russia”:

Primo rilievo: l'affermazione dell'azienda statale come "anello principale", implica l'esistenza di aziende non statali, e per conseguenza di attività "private" nel senso volgare del termine, e riconferma un nostro vecchio assunto circa il "capitalismo di Stato" in Russia, nel quale riconoscevamo piuttosto un "industrialismo di Stato". Esistono altri "anelli", altre aziende, nell'economia russa, che concorrono al processo economico.

La giustificazione che lo stesso autore ne dà, non solo conferma l'esattezza della nostra analisi di allora, ma mette in chiara evidenza come tale imprecisione relativa alla natura della economia sovietica fosse voluta e serviva a nascondere la volontà politica di respingere allora (dicevamo “allora” perchè poi si è adeguata all'evidenza) ogni formulazione rigidamente di classe come quella del “Capitalismo di Stato” a cui si legava tutta l'impostazione teorico-politica fatta propria fin dal suo sorgere, del Partito Comunista Internazionalista.

La giustificazione teorica che ci viene offerta rasenta i limiti della banalità se con essa si vuol creare una nuova categoria economica inesistente tanto nella storia della economia capitalista come nella esperienza della prima fase dello Stato socialista.

Le fasi di sviluppo della economia capitalista così venivano precisate da Engels nel suo magistrale Antidiihring:

Appropriazione dei grandi organismi di produzione e di traffico, prima da parte di società anonime, più tardi da parte di trust e in ultimo da parte dello Stato. La borghesia dimostra di essere una classe superflua; tutte le sue funzioni sociali vengono ora compiute da impiegati stipendiati.

Non si tratta di terminologia, ma di giudizio politico di fondamentale importanza se si vuole orientare giustamente il partito rivoluzionario con una linea politica chiara e conseguente di fronte al più sconcertante problema del secondo dopoguerra. La constatazione che l'azienda statale come “anello” principale della economia nazionale implica l'esistenza di aziende non statali e per conseguenza di attività “private” è proprio d'ogni sviluppo ineguale del Capitalismo anche quando è pervenuto alla fase del suo massimo sviluppo. Come è proprio della fase inferiore del socialismo che potenzia e supera il “suo” capitalismo di Stato nella dialettica propria dello Stato socialista di immettere gradualmente nella azienda statale i residui del capitalismo e precapitalismo che la rivoluzione ha inevitabilmente trascinato con sé nell'arco storico della costruzione di una società socialista.

Ed è questo il tipo di Capitalismo di. Stato quale lo concepiva Lenin e che l'ulteriore potenziamento del settore socialista avrebbe dovuto superare e vincere nel quadro del potere rivoluzionario la cui maggiore garanzia era rappresentata dall'esercizio politico della dittatura del proletariato armato. Ma la natura del Capitalismo di Stato che si è posta davanti all'esame del partito rivoluzionario nel cuore della seconda guerra mondiale e dell'immediato dopoguerra (è quanto è avvenuto al centro della nostra organizzazione e a cui questa nota si riferisce) era radicalmente diversa e aveva ben altri caratteri che vogliamo subito esaminare anche se forzatamente per sintesi:

  1. Il Capitalismo di Stato nel periodo di Stalin non tendeva al socialismo, ma a consolidare il potere del tradizionale capitalismo sulla forma dell'azienda statale, fortemente centralizzata, resa possibile dal passaggio della economia industriale privata nell'ambito dello Stato operato dalla Rivoluzione d'Ottobre.
  2. Il suo inserimento nella II guerra mondiale non ha avuto a sua giustificazione alcun elemento di natura socialista e ne ha avuto invece mille di natura borghese-capitalista con evidenti implicazioni imperialiste, come l'incontro di Yalta, poi, dimostrerà per aver posto la Russia tra i maggiori beneficiari nella spartizione del bottino di guerra.
    La stessa spregiudicata elasticità tattica che vede la Russia prima in combutta con Hitler (come se con i battaglioni di Hitler si potesse pervenire al socialismo) per la spartizione della Polonia e, quindi, dopo una giravolta di 180 gradi, a fianco delle democrazie occidentali (come se il socialismo potesse esser meta comune delle maggiori plutocrazie mondiali).
  3. L'economia sovietica è rimasta, nelle sue strutture portanti, tale e quale era all'epoca di Stalin. La liberalizzazione di Kruscew più ipotizzata che realizzata e la natura antidemagogica dei tecnocrati non hanno, nel loro complesso, portato modificazioni di rilievo o del tutto settoriali pur rappresentando momenti interessanti di un susseguirsi di crisi di sovrastruttura negli apparati politici, economici e militari come l'esperienza di questi ultimi decenni ha abbondantemente dimostrato.
  4. Bisognava tracciare una netta distinzione di classe tra il tempo che potremmo definire di Lenin e quello che ha avuto inizio con Stalin e che continua senza profonde e sostanziali modificazioni con i suoi successori.

Il tempo di Lenin, dalla rivoluzione di Ottobre agli esordi della nuova politica economica (Nep), è caratterizzato dallo Stato operaio che, basato sui Soviet attraverso il partito comunista tuttuno con le forze armate del proletariato, esercita la dittatura, anche se in mezzo ad ostacoli e difficoltà d'ogni genere provocati dal temporaneo arresto della spinta offensiva delle forze del proletariato internazionale e della possibilità immediata di una concreta proliferazione rivoluzionaria tra i paesi europei; mantiene la rotta verso gli obiettivi della realizzazione socialista avvalendosi della tattica delle concessioni all'avversario di classe come di un momento tattico indispensabile nella visione strategica di un ritorno offensivo rivoluzionario. Il Capitalismo di Stato, in questo quadro di insieme del tempo di Lenin, risponde al rischio calcolato di un voluto, temporaneo disciogliersi di necessità obiettive di una economia di mercato che, per quanto localizzata e sempre irta di pericoli, lo Stato della dittatura controlla e nella quale il gioco della domanda e dell'offerta, la funzione del capitale, lo stesso profitto e la utilizzazione del plus-valore, sono episodi marginali regolati nell'interesse generale della stessa economia socialista.

Sulla base di queste ragioni, di importanza fondamentale, acquisite dall'avanguardia rivoluzionaria fin dall'inizio del processo degenerativo e che sono state alla base della sua battaglia fatta di aperta denuncia e di conseguente distinzione organizzativa e politica, si è articolata l'opera della frazione di sinistra prima e del partito poi, che in obbedienza ad un nettò carattere distintivo anche nel suo definirsi come partito sì è rifatto ai motivi del comunismo rivoluzionario e dell'internazionalismo.

Non ci nascondiamo che all'interno di questi problemi, cui abbiamo accennato, si articola e si sviluppa una linea di coerenza politica che deve apparire per quella che è e non sopporta né di essere sottaciuta, né di essere sfigurata da arbitrarie sovrapposizioni mistificatorie. È stata questa ed è tuttora la nostra battaglia più bella anche se più ingrata. Ad ognuno il suo ed a Bordiga va riconosciuto una consequenzialità d'atteggiamento che ha inizio con l'ostruzionismo del silenzio alle sedute del Comitato Centrale dopo il Congresso di Lione (1926) e trova il suo approdo naturale nella lettera-testamento diretta, non a caso, a Terracini.

Questa nostra messa a punto può sembrare, sul piano del sentimento, amara e forse inumana, ma ci riportiamo al valore che i marxisti danno al ruolo degli uomini nelle vicende della storia e siamo certi d'aver interpretato il significato profondo dello stesso insegnamento di Bordiga che vuole che l'interesse dell'azione rivoluzionaria sia al di sopra di ogni sottoprodotto ideologico-politico, non escluso quello del bordighismo deteriore.

Onorato Damen

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.