A proposito del presunto rinnovamento del sindacalismo nordamericano

Le illusioni sono dure a morire

In questo periodo, sugli organi "ufficiali" del radical-riformismo nostrano e internazionale (il Manifesto, Le Monde diplomatique) si dà un certo spazio a quella che viene definita la ripresa del sindacalismo nordamericano, il quale avrebbe superato il coma profondo degli anni '80-'90 riacquistando poco per volta una credibilità e una visibilità di cui la "battaglia" di Seattle contro l'Organizzazione Mondiale per il Commercio (OMC) dello scorso anno sarebbe solo il più recente e macroscopico episodio.

A onor del vero, però, tra le stesse file del riformismo non c'è omogeneità di opinioni sui dati riguardanti la vera o presunta inversione di tendenza delle adesioni al sindacato - che comunque non superano il 13,9% della forza-lavoro salariata/dipendente - perché, mentre continuano a scendere nell'intero settore privato, industria compresa (rispettivamente solo il 9,5% e il 15,8%) c'è un afflusso proveniente da categorie fino ad ora poco o nulla sindacalizzate, che compenserebbe il declino delle "tute blu" (il Manifesto, 23-27/01/2000). Ma la di là della diversa interpretazione dei numeri - cosa tuttavia non secondaria per un corretto inquadramento del fenomeno - quello che interessa veramente è che in termini più o meno entusiasti si dà una valutazione positiva di questa nuova (?) stagione del sindacalismo statunitense, secondo il punto di vista condiviso quasi unanimemente dalla "sinistra" che pone l'equivalenza lotta operaia=sindacato. Che questa equivalenza sia decisamente superata da almeno un secolo e quindi non solo inutile ai fini della lotta di classe anticapitalista, ma apertamente dannosa, lo abbiamo ribadito anche recentemente (vedi Bc 2/2000); eppure, non ci stancheremo di ripeterlo, perché, nonostante le continue conferme alle nostre tesi che le infamie sindacali ci offrono, il sindacato continua ad essere visto come l'elemento insostituibile per la difesa degli interessi proletari anche tra certi ambienti operai più combattivi o meno rassegnati. In breve, la cocciuta mitizzazione - cioè incomprensione - della natura del sindacato impedisce di coglierne la funzione e il ruolo di micidiale strumento della controrivoluzione borghese.

L'articolo di B. Cartosio, apparso sulla Rivista del Manifesto n. 4/2000, è tra gli esempi più puri di questo punto di vista, che, pur descrivendo anche dettagliatamente un fenomeno, non riesce però a spiegarne le cause e le logiche con cui si svolge. Così, mentre rileva correttamente che l'attacco violento alle condizioni di vita e di lavoro del proletariato USA, partito vent'anni fa con Reagan, è passato col sostanziale consenso sindacale, individua invece le radici dell'offensiva antioperaia nel distacco tra base e vertici sindacali. In pratica, questa non sarebbe passata se "il rapporto tra vertice e base nei sindacati non fosse già stato incrinato. La burocratizzazione verticistica [...] aveva prodotto la 'disaffezione' alla base. I sindacati non difesero il posto di lavoro e adottarono la politica della restituzione progressiva di quote di salario diretto e indiretto" (la Rivista, cit.). Ora, che sia avvenuto un progressivo soffocamento della democrazia interna (ammesso e assolutamente non concesso che di effettiva democrazia si sia mai potuto parlare nei sindacati) può anche essere vero; ma, d'altra parte, tutto ciò è assolutamente normale, per una istituzione che accetta in pieno un sistema sociale - quello borghese - che per sua natura impedisce lo sviluppo delle capacità critiche degli esseri umani e quindi una reale partecipazione collettiva alla gestione della società. In ogni caso, però, il punto non è tanto questo; il punto è che il sindacato, in qualità di gestore della forza-lavoro per conto del capitale, si adatta all'andamento dell'economia capitalistica, piegando di volta in volta il proletariato alle sue esigenze. Se durante gli anni del boom post-bellico, negli USA come nel resto dei paesi industrializzati, la classe operaia poté avere miglioramenti normativi e salariali, è perché i margini di profitto lo permettevano e, anzi, una certa espansione dei consumi era funzionale alla realizzazione del profitto medesimo. Con la fine di quella fase storica, però, le necessità del capitale vanno in tutt'altra direzione ossia quella di rapinare quanta più ricchezza possibile al lavoro salariato/dipendente; ecco allora che i sindacati, in ogni parte del mondo, collaborano attivamente coi padroni perché questa rapina avvenga senza intralci, anestetizzando e deviando le eventuali reazioni di classe. Non è dunque la minore o maggiore democrazia interna che permette le "vittorie" sindacali, ma, non guasta ripeterlo, l'andamento del ciclo economico. E non basta. Quand'anche il padronato venisse incontro alle richieste avanzate dal sindacato, la domanda da farsi, sempre, è se l'esito della lotta ha fatto avanzare anche di poco la coscienza anticapitalista dei lavoratori o se invece, come di regola avviene, ha soffocato sul nascere tale eventuale coscienza, rafforzando il gretto corporativismo soddisfatto di sé della categoria in questione. La storia del sindacalismo nordamericano - fatta eccezione per gli eroici IWW (Industrial Workers of the World - Lavoratori Industriali del Mondo) dei primi del novecento - è in tal senso esemplare. Accettando in pieno la logica del mercato, il sindacato USA, in quanto rappresentante dei venditori della forza-lavoro (gli operai), ha scatenato scioperi anche durissimi, che non escludevano affatto il sabotaggio e l'uso aperto della violenza, stando però sempre molto attento a che la lotta non travalicasse mai i limiti di una pura e semplice contrattazione tra chi acquista e chi vende ossia non assumesse un carattere politico di contestazione radicale della società capitalista. Anzi, come tutti sanno, non solo non ha mai disdegnato di mischiarsi con la malavita organizzata, ma ha attivamente sostenuto il sistema nel suo insieme, non escluse le sue guerre imperialiste, giungendo al punto di far venir meno il tradizionale appoggio ai candidati democratici nella competizione presidenziale, se uno di questi esprimeva timide posizioni pacifiste (Le Monde diplomatique, 3/2000). Insomma, anche negli USA il sindacato ha funzionato (e funziona) da "cinghia di trasmissione", ma della borghesia!

Ciononostante, come si diceva, nel sindacalismo nordamericano soffierebbe un vento nuovo, perché "quella base 'tagliata' dagli imprenditori e tradita dai propri vertici ha messo nuovi dirigenti ai posti di comando. John Sweeney [presidente del sindacato AFL-CIO, n.d.r.] incarna più di ogni altro le dinamiche complesse del rinnovamento" (Cartosio, cit.). Peccato però che lo stesso Manifesto (23-27/01/2000) ci dica che i dirigenti sindacali delle varie categorie continuano a comportarsi come manager di una qualsiasi grande impresa, occupando uffici lussuosi, circondandosi di schiere di segretarie (Clinton insegna...), trafficando con la mafia e saccheggiando le casse dell'organizzazione. Peccato anche che il suddetto Sweeney sostenga il guerrafondaio vice-presidente Al Gore nella corsa per la Casa Bianca e abbia sottoscritto, con alcune grandi multinazionali, una mozione di appoggio al presidente Clinton durante l'incontro di Seattle, proprio mentre alcuni sindacati di categoria affiliati all'AFL-CIO (siderurgia, automobile, trasporti) protestavano contro il vertice dell'OMC. Forse che questi settori sindacali sono animati da spirito anticapitalista? Niente affatto. Come gran parte del radical-riformismo (autonomi, sindacatini "di base" ecc.) si opponevano al liberismo, non al capitalismo in sé e per di più in nome dei soliti corporativi interessi di categoria, ben sintetizzati - seppure involontariamente - dalle parole di un sindacalista dell'acciaio: "Sweeney aveva concordato con l'amministrazione Clinton una posizione comune per il WTO [cioè l'OMC, n.d.r.]: ma lui viene dalla Seiu, un sindacato dei servizi; e i camerieri di un bar sono meno contrari al commercio senza freni mondiale" (il Manifesto, 27-1-'00). Se questo è il nuovo, cos'ha di diverso dal vecchio?

cb

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.