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Home ›Economia e finanza: prospettive senza futuro per il capitalismo
Attorno al DEF 2017 rumoreggia il gregge della sinistra costituzionale (e dintorni…) sempre alla ricerca di come incerottare il corpo putrescente della società borghese. Solito grido d’allarme: “manca una politica economica capace di rilanciare crescita e occupazione”. Tutti in fila, da bravi ragionieri, a reclamare bilanci coerenti, precisi e certi. Ci vuole uno sviluppo di qualità, belano le pecorelle ben sorvegliate dai lupi che mantengono ordinata la democratica coesione sociale.
Ma dove trovare le “risorse” per un investimento (?) nelle politiche sociali, mantenendo, sia pur obtorto collo, il pareggio di Bilancio?
Basterebbe forse – ecco i furbi – non considerare la spesa sociale ? Già ma in questo sistema avremmo pur sempre una uscita senza entrate… o volete darci ragione e far saltare il tutto?
Se non siamo fra i “paesi migliori” dell’Europa, sarebbe a causa di una struttura economica (capitalistica) inadeguata e quindi “cresciamo” capitalisticamente poco – ci dicono – perdendo per strada 16 mld di euro ogni anno, con un’alta disoccupazione: 11,7% nel 2016, 11,6% nel 2017 e dell’11,4% (si spera) nel 2018?. Una “crescita” richiederebbe allora – continua la supplica – una miglior politica economica per un’adeguata struttura produttiva nazionale con un’occhio alla” dinamica” dei salari (consumi) e agli investimenti (macchinari). Insomma, la miracolosa ricetta si rivela essere una bottiglia di olio di ricino (magari alla vecchia maniera) da far trangugiare ai proletari affinché competitività, produzione industriale, investimenti ed esportazioni riprendano lo “sviluppo” necessario per affrontare i mercati internazionali.
Il pianto continua: non siamo fra i “migliori” paesi europei perché non abbiamo una struttura economica (capitalistica) adeguata e quindi “cresciamo” poco. Lo sapete – ci dicono – che l’Italia perde per strada qualcosa come 16 mld di euro ogni anno, con la disoccupazione(ufficiale) che supera l’11%? Lamenti quindi sulla scarsità di “risorse” al sistema economico, mettendo in crisi la domanda aggregata.
Gira e rigira, il convitato di pietra è poi sempre il costo del lavoro che richiederebbe la “riorganizzazionei” di un particolare mondo in agitazione, il quale si riduce giorno dopo giorno nei settori della produzione di merci, con l’avanzare di tecnologia, robotica ed elettronica. Quanto al famoso “terzo settore” basta guardare alle migliaia di licenziamenti in atto nel sistema bancario. Sotto, dunque, con l’invenzione di nuovi lavori anche se inutili purché siano miracolosamente fonte di profitto, l’unico ossigeno che può prolungare l’agonia del capitale, circondato da premurosi soccorritori che con dipingono scenari piuttosto grigi, dove si inseguono scelte “programmatiche” agganciate ad ipotesi di un Pil in crescita costante (siamo però quasi sempre al + 0,1%! ) che svaniscono sul nascere. E il rapporto di deficit e debito con il PIL non migliora, tanto più che – nelle logiche di questo assurdo sistema – i tagli alle spese fanno decrescere il PIL, e l’“austerità espansiva” assume gli aspetti di una favola mitologica. Si aggiunga che le previsioni di un rialzo del PIL sarebbero quelle a prezzi costanti; quanto al PIL “nominale” (con l’inflazione in crescita) si spera in una cifra più elevata come percentuale: cosa che gioverebbe ai rapporti dei conti pubblici con debiti e deficit, migliorabili se – ripetiamo – cresce l’inflazione. Un conto è quindi il “PIL reale” (prezzi costanti) e un conto è quello “nominale” (con inflazione); è su questo che si valutano i rapporti tra finanza pubblica, debito e deficit, e la situazione contabile – entrate e uscite – dell’esercizio finanziario.
Quanto agli investimenti, cosa si intende? Chiaramente, quelli con un incremento di capitali (cioè recupero del capitale iniziale più il guadagno, il “giusto” rendimento). E qui gli “esperti” di macroeconomia puntano il dito sugli investimenti che farebbero da componenti della domanda aggregata, a seguito dell'effetto moltiplicativo di ciò che si produce (anche in servizi). Altrimenti si ha perdite di capitale, una vera e propria bestemmia in questo sistema economico e relativa società. Insomma, l’investimento deve ssere in attività produttive di merci (direttamente o indirettamente) poiché è solo così che si ottiene profitto. O no? I “riformatori” obiettano (sottovoce) che non vi sarebbero soltanto obiettivi finanziari, ma si dovrebbero guardare anche ai risultati sociali. Qualcosa di simile alle prediche del Vaticano.
Conclusione: o una “spesa corrente” (prestazioni sociali e servizi) o un contributo a investimenti (a fondo perso?) da calcolarsi come “spesa in conto capitale”. Ma che il costo sia diretto o indiretto – poiché il capitale non è gratuito! – alla fine i debiti vanno ammortizzati! Di nuovo la grave preoccupazione che affligge il capitale: il debito, pubblico e privato, è una trappola che si restringe da quando (2007) – scrive il “prestigioso” Mc Kinsey Global Institute – le esposizioni debitorie di tutti i Paesi sono aumentate anziché diminuire. Un rialzo che sfiora il 50%, per un totale (debito pubblico, privato e finanziario) che sfiora il 300% del Pil mondiale. Nota bene: persino sulla Cina grava un debito totale di quasi il 290% del suo Pil!
Un economista “di grido” (L. Summers, con i “geniali” Krugman e R. J. Samuelson esterna i suoi pensieri sul Washington Post ) prevede lo “scatenarsi di una nuova crisi”… E se a volte si accende una “diatriba” sul da farsi, serve solo a confondere la totale impotenza di fronte alla gravità della situazione. Quindi, altri ceri accesi – poiché con l’austerity il buio è aumentato – per un “rilancio” dell’inflazione ben oltre il limite del 2%, addirittura “doppia” e per “una decina d’anni”… Dovrebbe ridurre il valore reale del debito pubblico solo superando il tasso di interesse nominale col quale il debito viene pagato, compreso il tasso medio di interesse sui titoli. Certo, vi sarà un po’ di “sofferenza”, ma sappiamo tutti su chi ricadrà: i consumatori (proletari) perderanno parte del loro già magro “potere d’acquisto”, e la “crescita” (vendita di merci) continuerà il suo calo. Salvo un aumento delle esportazioni, se i capitalisti di altre nazioni se ne staranno con le mani in mano…
Fra indebitamenti netti (deficit), manovre, saldi primari e clausole di salvaguardia, il copione melodrammatico recitato dai commedianti del regime ruota attorno a grida di dolore per la “perdita secca del 25% dell’apparato produttivo”, caduta degli investimenti e crescita della disoccupazione. Qui si ritorna al punto focale della questione, ovvero al nefasto “ridimensionamento del Pil potenziale” e alla “erosione della base economica”: così non si può uscire (qui c’è un “dignitosamente” che vale un Perù! – ndr) da una crisi di struttura che rischia di diventare “secolare”… Rimedio? Sul baratro si ritornano ad affacciare le ipotesi fantastiche di “programmazioni pubbliche e politiche industriali”. Tutto qui.
E le trombe stonano invitando le imprese ad una specializzazione produttiva, non limitandosi a incorporare innovazione tecnologica bensì introducendole loro stesse per poter esportare più merci. E mentre tutto si…restringe, ci si riattacca alla bandiera, sdrucita, delle “politiche espansive”. Una discussione, francamente, poca seria…
DCBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #05-06
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