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Home ›Il Jobs Act e la lotta di classe
Le considerazioni che seguono erano state in gran parte stese prima che il governo varasse definitivamente il Jobs act, e colgono la sostanza politica di questo provvedimento che tanto entusiasma – giustamente – il padronato. Non solo sono state confermate, nella sostanza, le “voci” che più volte abbiamo esaminato sulla nostra stampa da un anno a questa parte, ma, se possibile, le hanno peggiorate. Il precariato è rimasto precariato, anzi, le cosiddette “tutele crescenti” in realtà significano meno tutele per tutti, una minaccia rafforzata e costante sull'insieme della forza lavoro. Di più, a riprova del ruolo accessorio e decorativo della democrazia borghese, il governo ha spernacchiato le commissioni parlamentari che si erano espresse a favore del mantenimento dell'articolo 18 per i licenziamenti collettivi, abolendo l'articolo medesimo e sostituendolo, come per i licenziamenti individuali, con un indennizzo crescente in base all'anzianità lavorativa... ma limitato a ventiquattro mensilità (nei casi “migliori”). Spazzando via, di fatto, gli ultimi diroccati “bastioni” (che bastioni non sono mai stati) alla cosiddetta libertà d'impresa, cioè alla possibilità di gestire a piacimento la classe lavoratrice, la borghesia italiana ha ottenuto un altro risultato molto importante, depotenziando sensibilmente – sul terreno sindacal-giuridico – le possibilità di difesa operaia nei confronti del comando padronale. In tal modo, si allinea alla legislazione dilagante in Europa e non solo – vedi, per esempio, le leggi spagnole o greche – perché il sistema capitalistico domina in ogni luogo e le leggi della concorrenza valgono anche e soprattutto contro la classe operaia, intesa in senso lato. Il disegno, dunque, è ovunque lo stesso: rendere tutti più precari, sovvenzionare il capitale (ogni governo segue la stessa linea di condotta: ancora una volta a titolo d'esempio, gli USA e il cosiddetto reshoring, il rimpatrio della produzione manifatturiera), mettendo a carico della fiscalità generale, dei “cittadini”, la sedicente ripartenza.
Il punto qual è? Al solito, che con saggi del profitto insoddisfacenti (rispetto al capitale investito o da investire) il costo del lavoro rimane, per così dire, l'elemento meno problematico su cui intervenire da parte del capitale, quello che dà risultati più immediati rispetto ad altre componenti del rapporto sociale di produzione (macchinari, tecnologia, ricerca ecc.), dato l'attuale livello della composizione organica. Sempre che il proletariato non esca dall'angolo in cui la borghesia lo ha costretto e non cominci a parare e a restituire la raffica di cazzotti incassati fino a quel momento. In caso contrario, la paura del licenziamento e della precarietà permanente è senz'altro uno dei sistemi più efficaci e meno costosi per aumentare l'estorsione di plusvalore, cioè lo sfruttamento.
Però, non è affatto detto che questo basti alla famigerata ripartenza (gli ultimi decenni dicono il contrario) e infatti il presidente dei giovani industriali ha messo le mani avanti, sottolineando l'ovvio, cioè che una legge, di per sé, non garantisce la ripresa dell'economia, nonostante il governo, con la solita sicumera, dia per fatto una crescita generalizzata degli occupati. Può essere che da qui a un anno l'Istat registri una variazione in positivo dell'andamento del mercato del lavoro, ma l'eventuale aumento dell'occupazione sarà, se sarà, come quello registrato negli Stati Uniti, in Germania, in Spagna: più “bad jobs” (cattivi lavori), più ricattabilità, più bassi salari, et voilà, come dicono i prestigiatori, il gioco è fatto, con il trucco e con l'inganno.
Più la crisi avanza e più la borghesia impone la sua “logica”: totale subordinazione della forza-lavoro dei proletari agli interessi di sopravvivenza del capitale; estorsione di maggiori quote di plusvalore dal vivo lavoro, sempre più ridotto dallo sviluppo di scienza e tecnica. La competitività delle merci innanzitutto. Ma chi poi le compera, se per gli “esuberi” c’è solo miseria e fame, costretti ad ascoltando le discussioni su come “meglio” utilizzare il capitale, assetato di profitti!
Ed ecco il Jobs Act presentato come la panacea in grado di “uscire dalla crisi”, mirando a quel “piano del lavoro e nuove politiche economiche” inseguito dai tempi di Togliatti per meglio inquadrare i proletari agli ordini del capitale, pubblico e privato. Altrimenti, come percorrere la “via alta della competitività” con innovazioni tecnologiche e abbandonando la “via bassa” (estorsione esasperata del plusvalore assoluto) con tutti i suoi limiti? In ogni caso, aumentando i working poors, alle prese con la miseria del lavoro salariato.
Le intenzioni sono chiare: occorre “una maggiore flessibilità nei contratti a tempo indeterminato”. Nella recente visita in Usa, Renzi ha dichiarato che “alcune cose vanno cambiate _in modo violento_”. Con l’appoggio di Santa Romana Chiesa: i suoi cardinali (Bagnasco) e arcivescovi (C. Nosiglio) hanno dichiarato: “Tutti devono essere consapevoli che sono di fronte ad un cambiamento del sistema… Il mondo del lavoro deve cambiare; non deve essere bloccato da veti incrociati e incrostazioni”.
Nonostante le “riforme correttive” (Fornero, 2012) – o forse proprio per questo?... – i licenziamenti collettivi sono aumentati del 48% e quelli individuali del 18% (Istat) all’ombra di contratti-bidone aziendali e tra le “parti sociali”. Tant’è che Renzi ha affermato: l’art. 18 è “assolutamente un simbolo”.
Seguono le fandonie sindacali su un mitico potere dell’art. 18: salvaguarderebbe i posti di lavoro! Idem per le farneticanti visioni, di qualche gruppetto “antagonista”, su una “lotta di classe con una dinamica in crescita”. Si raggiunge il colmo con le lamentele dei Sindacati perché non si interviene per aumentare la competitività delle aziende, mandando “in rovina” il Paese… Dagli anni Venti ad oggi, fascismo e “democrazia”, il ritornello non cambia. “Siano tutelati gli interessi in armonia con quelli della produzione e della Nazione”: così un famoso Benito arringava le folle oceaniche.
Ma noi siamo forse indifferenti a questi attacchi? Affatto: non ci adagiamo in una semplice difesa del presente stato di cose o su una ipocrita “difesa di classe” fatta a parole sotto il “fuoco amico” di subdole proposte di legge, vedi fin dal 1997 quella del “compagno” De Benedetti (Ds) che sostituiva con una indennità la riassunzione di licenziati “illegittimi”. O dei “suggerimenti” di G. Giugni (marzo 1998), A. Accornero e Latrissa della Uil (novembre 1999), seguiti da proposte di legge (marzo 2000) dei riformisti dell’Ulivo e degli ex fascisti di An. Poi vennero le “idee” di T. Boeri e la “ipotesi” di A. Marzano su sollecitazioni della Banca d’Italia. Insomma: per ogni gusto e bandiera, sempre con la giustificazione di “poter creare nuovi posti di lavoro”!
Da notare che persino un fu Umberto Agnelli dichiarava che una abolizione dell’art. 18 era “pressoché priva di grandi effetti pratici”, mentre il sindacalista Cofferati riconosceva la validità delle “espulsioni per una ragione oggettiva”. Quella del capitale, s’intende, mascherata da “giusta causa” contro chi disturba la quotidiana “creazione” di plusvalore. Recentemente, Squinzi (presidente Confindustria) definiva una “vera boiata” la contrattazione dell’art. 18.
Non diffondiamo illusioni; in 40 anni di applicazione dell’art. 18, solo nel 2-3% dei casi il reintegro è stato applicato a fronte di ben 160mila cause di lavoro! Reintegri non tutti effettivamente eseguiti. E il capitale da decenni licenzia, grazie anche e non da ultimo agli aumenti di produttività, e mette in mobilità i lavoratori “legalmente” (art. 30, legge 183 – 2010); seguono i licenziamenti collettivi (legge 223/91) degli esuberi.
I capitalisti spacciano le loro manovre come unica via per “far crescere l’occupazione” e dare “dignità” al lavoro salariato secondo le esigenze di un sistema in crisi. Ci sarebbe in gioco la “coesione sociale” se gli operai non si sottomettono all'intimidazione, al ricatto del licenziamento imposto ad una forza-lavoro “usa e getta”.
Il nostro compito attuale è quello di una condotta rigorosamente di classe, denunciando – direttamente partecipando alle proteste operaie – i contenuti e le finalità di “proposte e controproposte” avanzate da sindacati e partiti costituzionali. L’art.18 non è né il toccasana né il capro espiatorio di tutti i mali che si abbattono sul proletariato. E neppure sul… capitale il quale fa di tutto per avere un “mercato del lavoro _dinamico, flessibile e… inclusivo_”, affinché tutti i “cittadini” possano trovare “occupabilità”!
La valenza politica è chiaramente quella di assecondare le necessità delle imprese industriali affinché si possano “liberare”. con l’appoggio legale, di quegli operai che ostacolano l’azione di intensificato sfruttamento e severa disciplina della forza-lavoro “utile” al capitale. Marchionne (stimato da Renzi) negli stabilimenti Fiat ha aperto una strada che sarà sempre più battuta, mistificata da un “interesse nazionale” al quale tutti devono piegarsi con le buone o con le cattive.
Chiaramente c’è ben altro al di là di un “democratico” bla-bla-bla; occorre smascherare – con la lotta – i reali motivi della crisi e degli effetti fatti ricadere sul proletariato e in parte su strati della piccola borghesia. Per questo occorre cominciare a far circolare nel proletariato il nostro programma di classe, in netta contrapposizione ad un modo di produzione e distribuzione giunto al suo capolinea storico. E che sopravvive soltanto imprigionando le masse proletarie alle catene di una “cittadinanza” che si vuole sottomessa ad un ipotetico e falso “interesse generale”, fingendo di ricercare una “soluzione” conciliatoria fra gli “affari” delle aziende e i bisogni dei lavoratori, negandone i contrasti e l’inconciliabilità. L’imbarbarimento della società borghese è inevitabile; il capitale non può più “concedere” ma solo “togliere”. Lo impongono i suoi sempre più assurdi rapporti economico-sociali, fondati su produzione di merci, valore di scambio, mercato, denaro, mercato, profitto e, di conseguenza, divisione dell’umanità in classi contrapposte: sfruttati e sfruttatori, poveri e ricchi.
La “droga politica” in confezione per uso “sindacale” e contenuta nel Jobs Act, ha la pretesa di illudere i proletari – almeno per qualche mese – che basti una “buona legge” (a giudizio governativo!) per la “ripresa” del lavoro salariato. Da oggi è ufficialmente in distribuzione per la pubblica opinione. Si sbandiera la “previsione” di un aumento della occupazione per centinaia di migliaia di posti lavoro: fra un anno si vedranno i risultati, dichiara un Del Rio…
Il capitale, gestito dalla borghesia di destra o di “sinistra”, di più non può fare. Anzi, prepara il peggio. Si calcola (e con questo si riassume il positivo contenuto dei “provvedimenti”) in 970 euro la differenza tra benefici (sgravi contributivi) e costi (indennizzi), a vantaggio di chi assumerà a tempo… “indeterminato” per un solo anno per poi licenziare il lavoratore assunto con il nuovo contratto a “tutele crescenti”! Calcolando uno stipendio lordo di 25mila euro per 12 mesi). Se il licenziamento avverrà dopo tre anni, il “vantaggio” aziendale si quantifica tra i 5 e i 14mila euro, secondo gli inquadramenti (Dati forniti dalla Uil, Servizio politiche territoriali). Inutile – ancora una volta – sottolineare chi pagherà queste vere e proprie “regalie” fatte ai capitalisti (sempre se i i profitti programmabili li spingeranno allo sfruttamento di nuova forza-lavoro!). A proposito, chi comprerà le merci prodotte?
DCBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #03
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