La questione nazionale e coloniale - La Terza Internazionale

Come se la vita del capitalismo scorresse immutabile nei secoli, per certi "comunisti" non avrebbe ancora avuto fine la fase storica in cui - durante un interminabile processo di sviluppo mondiale del capitalismo - il proletariato è chiamato ad assumersi compiti che non sono i suoi, quelli cioè di aiutare il suo nemico mortale, la borghesia, nel condurre a buon fine il proprio destino di classe dominante, economicamente e socialmente, in ogni nazione di questo mondo.

Più di novant'anni (e quali anni!) sono trascorsi da quando l'Internazionale comunista varava nel suo Secondo Congresso quelle Tesi sulle questioni nazionale e coloniale, la cui prospettiva strategica era quella di incorporare i movimenti rivoluzionari di liberazione nazionale nel più generale movimento comunista, con una sua centralizzazione mondiale indirizzata a colpire mortalmente i centri imperialistici. Senza questo presupposto, quello di un proletariato vittorioso nelle metropoli imperialistiche in grado di appoggiare attivamente e guidare i movimenti rivoluzionari nelle colonie, la realizzazione concreta di una doppia rivoluzione nei paesi arretrati (oltre cioè lo stadio economico capitalistico) sarebbe stata fin d'allora una visione puramente idealistica.

Un secondo presupposto, altrettanto fondamentale e irrinunciabile per i comportamenti tattica enunciati, era la completa autonomia dei partiti comunisti locali. Senza questa condizione, legata quindi alla presenza stessa di un partito comunista nei paesi sottoposti al giogo coloniale (e, in quei primi anni, all'esistenza dello stato sovietico), l'appoggio a movimenti di indipendenza nazionale si traduceva in una posizione obiettivamente controrivoluzionaria, da "fronte popolare" e simili pasticci politici e tattici. Infatti, già allora, il terreno di possibili convergenze, di alleanze sia pure autonome, era pericolosamente minato: in pratica poteva portare alla subordinazione verso quegli interessi nazional-democratici che in definitiva sarebbero diventati - e così purtroppo accadrà con l'avvento dello stalinismo - paralizzanti per ogni futuro sviluppo della lotta di classe. Ecco perché nelle Tesi supplementari (che furono redatte dal delegato indiano i Roy) si insisteva sulla salvaguardia dell'autonomia politica programmatica ed organizzativa dei partiti comunisti "anche se soltanto embrionali". L'appoggio al movimento rivoluzionario democratico borghese non doveva "mai confondersi con esso".

Da tener presente fin da ora che, in quella fase storica, i movimenti nazionalistici nelle colonie giustificavano - agli occhi degli stessi bolscevichi - in parte le loro prospettive e il loro contenuto "democratico-borghese" a causa anche dei fatto che la stragrande maggioranza della popolazione era costituita da contadini, cioè "dai rappresentanti dei rapporti borghesi capitalistici", come osservava Lenin.

Le tesi coloniali del 1920

Quando, dopo la vittoria rivoluzionaria in Russia, dalle tribune della Terza Internazionale Lenin affrontò la questione nazionale e coloniale, la sua elaborazione strategica si muoveva sulla base fondamentale di una chiara "nozione delle circostanze storiche ed economiche". In primissimo piano l'esistenza della giovane Repubblica dei Soviet, contro la quale s'indirizzava la lotta di tutta la borghesia internazionale.

Al fronte borghese non poteva che contrapporsi, in difesa della prima realizzazione del potere proletario, la mobilitazione e la lotta dei movimenti di classe dei lavoratori dei paesi avanzati, cercando nel contempo dì spingere in avanti i movimenti di emancipazione nazionale nelle colonie e nazioni oppresse, fino a conquistarne la guida e quindi la realizzazione finale di una doppia rivoluzione sull'esempio russo.

Altra inevitabile premessa, per un comunista, era quella che quando si paria di lotta nazionale non si può non intendere un blocco delle classi, ovvero proletari e borghesi contro feudatari, per l'affermazione totale di nuovi rapporti di produzione, specificatamente capitalistici, e lo stabilirsi di relazioni sociali garantite dallo Stato borghese con appropriate legislazioni e organizzazioni amministrative. Il tutto valido, per il marxismo, fino al 1871 in Europa, non oltre la Comune di Parigi.

Nel Medio e nell'Estremo Oriente il riferimento andava ai paesi economicamente ancora alle soglie del modo di produzione capitalistico, alla presenza di rapporti economici in prevalenza precapitalistici e, in qualche caso, addirittura di regimi sociali con forme e contenuti feudali. Questo in effetti accadeva durante gli anni Venti nei paesi orientali soggetti al colonialismo delle potenze europee (Francia, Inghilterra, Belgio e Olanda), ponendo ai marxisti il problema: attendere in Oriente una rivoluzione borghese con i suoi moti nazionali, come era accaduto in Europa, e successivamente lo sviluppo della lotta di classe del nascente proletariato? Oppure, come chiedevano gli stessi delegati d'Oriente all'Internazionale comunista, affiancarsi alla rivoluzione mondiale delle classi lavoratrici nei paesi capitalistici, al seguito della Russia dei Soviet?

La decisione fu per la seconda tesi, proiettata nella visione di uno scatenamento della rivoluzione permanente internazionale fino alla realizzazione della dittatura comunista mondiale. Mai e poi mai per l'affermazione di regimi democratici borghesi nazionalmente autonomi (affermazione che sarebbe suonata come una bestemmia di fronte a Lenin e a tutta la Terza internazionale, almeno in quegli anni gloriosi). L'indicazione tattica e la visione strategica erano chiare e sicure: lotta di classe nelle metropoli, organizzazione politica delle avanguardie comuniste anche nelle colonie, insurrezioni sia pure in partenza nazionalistiche ma con la Russia rivoluzionaria alla guida, fino al rovesciamento del potere capitalistico ovunque. Mai e poi mai per un suo semplice sviluppo in aree arretrate, per inseguire più avanzati "equilibri economici" o regimi politici borghesi con l'illusoria speranza di più ampi spazi politici e sindacali per il proletariato, "democraticamente" gestibili.

Nella seconda delle Tesi coloniali sulla questione nazionale e coloniale, presentate al Secondo Congresso della Terza internazionale, Lenin non ha dubbi:

Dissociazione precisa degli interessi delle classi oppresse dei lavoratori, degli sfruttati, in rapporto alla concezione generale dei sedicenti interessi nazionali, che significano in effetti quelli delle classi dominanti.

Di lì a poco, purtroppo, la grandiosa prospettiva rivoluzionaria sarebbe venuta meno; le garanzie leniniste s'infrangeranno sotto i colpi della controrivoluzione stalinista e il reflusso del proletariato occidentale.

Verso un periodo di transizione e di convivenza pacifica

La questione sul tappeto merita a questo punto ulteriori approfondimenti, e gli stessi comportamenti politico-diplomatici adottati in seguito da Mosca devono essere analizzati nel quadro concreto della situazione in cui si veniva a trovare, col trascorrere del tempo, la giovane repubblica dei Soviet. Oltre cioè le affermazioni di principio che ispiravano l'impostazione data da Lenin, almeno nella parte iniziale della sua visione strategica.

Non si può, né si deve sottacere una importante constatazione che fa in parte da premessa alle linee politiche adottate allora dalla Terza Internazionale sulla questione coloniale. Quando nel settembre 1920 a Baku si tiene il Congresso (l'unico) dei popoli orientali oppressi, obiettivamente si stava allontanando quell'"ora della fondazione della repubblica mondiale dei Soviet" che Lenin stesso aveva annunciato come "vicina" nel marzo 1919, al Congresso di fondazione della Internazionale comunista. Ora Lenin (e con lui Trotsky) parlava di un "periodo di transizione", addirittura di una "convivenza pacifica" con i governi borghesi dell'Occidente, dettata da uno stato di necessità che faceva seguito all'esaurirsi - ormai evidente a tutti - della crisi rivoluzionaria esplosa con l'Ottobre Rosso e con la fine della Prima Guerra Mondiale. Il proletariato europeo, in parte tragicamente sconfitto, in parte incapace di liberarsi dalla opprimente tutela dei partiti socialdemocratici, si stava ritirando anziché correre in aiuto della rivoluzione bolscevica. Le stesse condizioni della Russia, internazionalmente isolata ed economicamente allo stremo dopo la guerra civile, con la popolazione decimata dalla carestia e dalle epidemie di tifo, febbre spagnola e colera, queste condizioni costringevano Mosca a non escludere una "trattativa" con gli stessi Stati capitalistici per la propria sopravvivenza.

In questa situazione, sia interna alla Russia e sia al proletariato occidentale, l'Oriente poteva diventare un prezioso alleato in grado di ridare forza a quella rivoluzione, ormai in condizioni di estrema debolezza anche nell'unico paese in cui si era realizzata la conquista del potere. Zinoviev fece a questo punto appello ad una dichiarazione di vera e propria "guerra santa" dei popoli orientali contro l'Occidente, richiamandosi addirittura ai grandi conquistatori che guidarono i popoli d'Oriente nella loro storica marcia contro l'Europa! Fra le profezie di Zinoviev, nel 1922, vi fu anche quella che, per il decimo anniversario della rivoluzione d'Ottobre,

noi vedremo il mondo scosso da innumerevoli ribellioni, con centinaia di milioni di esseri umani oppressi in rivolta contro l'imperialismo.

Ma la campagna contro l'Impero e l'imperialismo inglese, e lo stesso interesse in generale verso l'Oriente, cominceranno ad affievolirsi dopo la conclusione dell'accordo anglo-sovietico del marzo 1921. Radek, al IV° Congresso dell'Internazionale e ai delegati orientali che lamentavano lo scarso interesse per la loro attività, risponderà seccamente: "L'interesse nasce dai fatti" (vedi Socialismo in un solo paese - La politica estera 1924 -1926, di E. H. Carr).

I passi indietro del IV congresso dell'Internazionale

Ad occuparsi nuovamente della "questione orientale" sarà il IV Congresso della Terza Internazionale (novembre 1922), che dedicherà due sedute alla discussione. Le Tesi finali sulla questione d'Oriente tentavano di stabilire una sola linea di azione valida, dando per scontata una intensificazione della lotta antimperialista e un mutamento della base sociale del movimento nelle colonie. La direzione della lotta - secondo il Comintern - non era più "soltanto nelle mani degli elementi feudali e della borghesia nazionalista".

Lo sviluppo del capitalismo indigeno portava alla

rivendicazione di un'autonomia nazionale ed economica, volta a rompere l'emarginazione dei paesi arretrati - imposta dalla dominazione imperialista - dalla circolazione economica del resto del mondo.

Di fronte però ai

diversi livelli di transizione tra le correlazioni feudali e feudo-patriarcali, da un lato, e il capitalismo dall'altro

si arrivava alla conclusione di una polìtica del fronte antimperialistico tale da non escludere, ma anzi da ricercare in alcuni paesi coloniali e semicoloniali arretrati la temporanea collaborazione - oltre che con una borghesia nazionale - anche e addirittura con i rappresentanti dell'aristocrazia feudale indigena.

Le esperienze dei due anni trascorsi dal ll° Congresso avevano aumentato incomprensioni e dissensi; vi si era aggiunta la questione della denuncia del panislamismo, fatta al ll Congresso, e che secondo alcuni avrebbe complicato i rapporti fra i comunisti e i 250 milioni di mussulmani soggetti alle potenze imperialistiche. Ecco ora che il problema veniva apparentemente risolto con un indiretto appoggio al panislamismo, cioè a quell'aspetto religioso del movimento nazionale nei paesi orientali, che si supponeva destinato a scomparire lungo il procedere della lotta di classe.

Nei paesi mussulmani il movimento nazionale fonde la propria ideologia innanzi tutto nelle parole d'ordine politico-religiose del panislamismo, il che permette ai funzionari e ai diplomatici delle metropoli di servirsi dei pregiudizi e dell'ignoranza delle moltitudini popolari per combattere questo movimento nazionale. (...) Tuttavia, nella misura in cui si ingrandisce e matura il movimento di liberazione nazionale, le parole d'ordine politico religiose sono scavalcate da rivendicazioni politiche concrete. (...) Il compito fondamentale comune a tutti i movimenti nazionalisti rivoluzionari, consiste nel realizzare l'unità nazionale e l'autonomia politica.

Tesi 2a, Le condizioni della lotta

Si rafforzava in definitiva l'illusoria speranza di una lotta nazionale comune contro l'imperialismo straniero, dove non solo la borghesia ma perfino l'aristocrazia feudale si alleavano con proletari e contadini che (pur disorganizzati sia... teoricamente sia praticamente) si dichiaravano, per bocca del Comintern, pronti a rivoltarsi contro l'una e l'altra.

La nuova linea si legittimava sempre con le finalità di quel "fronte unico antimperialista" la cui condizione indispensabile doveva essere, o quantomeno tendere ad essere, una "stretta alleanza con la repubblica proletaria dei Soviet" e con le esigenze della sua politica. Il Congresso saluterà in tal senso la Turchia come "l'avamposto dell'Oriente rivoluzionario", nonostante l'imperversare delle persecuzioni contro i comunisti turchi. Un altro tassello di quell'alleanza tra la Russia e i nazionalismi in rivolta contro le condizioni di pace imposte dal trattato di Versailles: l'idea di una salda amicizia era stata patrocinata da Radek tre anni prima nei confronti del nazionalismo tedesco, e si era realizzata col trattato di Rapallo. Ed anche in questo caso nonostante le alterne misure repressive contro i comunisti tedeschi...

La continuità nella difesa degli interessi nazionali e geopolitica della "vecchia Russia" era assicurata dalla "nuova Russia" che stava

approfittando dei contrasti esistenti fra le potenze europee non meno abilmente della vecchia Russia. (...) La Russia sta tornando sulla scena internazionale. Speriamo che si avvicini il giorno in cui la sua ricomparsa sarà sentita così fortemente che nessuno oserà contraddire la sua voce.

Izvestija, 7 dicembre 1922

Un difficile equilibrio

Ritornando indietro al Secondo Congresso dell'Internazionale comunista, Lenin aveva intrecciato la questione coloniale al problema del nazionalismo, prospettando la possibilità che

i paesi arretrati con l'aiuto del proletariato dei paresi progrediti, possano passare al sistema sovietico e, attraverso determinate fasi di sviluppo, giungere al comunismo, scavalcando la fase del capitalismo.

Lo stesso Stalin parlava di

una difficile ma non certo impossibile operazione [... consistente nel passaggio] da forme di economia primitiva alla economia di tipo sovietico, prescindendo dal capitalismo industriale.

X Congresso del Partito russo, marzo 1921

Sgombriamo anche qui il campo da ogni possibile equivoco. E ritorniamo a precisare che la natura democratico-borghese dei movimenti nazional-rivoluzionari era per Lenin determinata dal fatto che

la massa fondamentale della popolazione dei paesi arretrati è costituita dai contadini, cioè dai rappresentanti dei rapporti borghesi capitalistici.

Qui Lenin ancora si rifaceva all'esperienza russa, nella fase prerivoluzionaria, e alla necessità per un partito proletario - in quelle condizioni - di:

stabilire determinati rapporti con il movimento contadino e fornendogli un appoggio effettivo.

La creazione di soviet rurali rientrava in questo indirizzo tattico.

Era però allora scontato che soltanto la vittoria sul capitalismo, là dove questo era dominante, poteva abolire ogni oppressione nazionale; la forma "nazionale" della lotta veniva superata, o comunque doveva essere superata dall'intervento attivo del proletariato internazionale; era respinta qualunque deviazione ideologica nazionalista che si rinchiudesse negli orizzonti della nazione, del popolo, della razza o della religione.

In pratica, tatticamente, si trattava però del come appoggiare i movimenti nazionali democratico-borghesi - da un lato - e i movimenti rivoluzionari proletari - dall'altro - senza generare un'ambiguità sia negli obiettivi e sia nelle politiche di alleanza. Quello che la Sinistra, nei suoi commenti successivi all'approvazione delle Tesi coloniali, non mancò di rimarcare, era la pericolosità del terreno sul quale ci si incamminava; quello cioè degli appoggi o addirittura delle alleanze temporanee. Non si potevano sottacere i gravi rischi di interpretazioni e applicazioni opportunistiche di una tattica che lasciava nella sua stessa formulazione qualche spazio a possibili trappole nelle quali - come l'esperienza c'insegna - vengono travolti anche i principi e le finalità che quella tattica hanno originariamente ispirato.

Bordiga espresse le proprie riserve sul Soviet n. 24 del 3 ottobre 1920 (Intorno al Secondo Congresso dell'Intemazionale Comunista):_

Le Tesi preparate da Lenin su questi argomenti, nelle quali è originalmente condensata l'esperienza storica della politica estera ed intema della prima Repubblica Proletaria, segnano un nuovo indirizzo nella tattica dell'Internazionale. L'attitudine che esse assegnano al movimento comunista rivoluzionario, espressione delle masse dei proletari salariati, di fronte agli interessi dei popoli delle Colonie e dei paesi arretrati - come di fronte agli interessi dei vari strati della popolazione rurale, rappresenta innegabilmente una rettifica di tiro nel metodo dell'intransigenza classista come è stata finora accettata dalla sinistra marxista. Chi scrive non ebbe occasione di parlare sui due argomenti ma condivide talune obiezioni sollevate da Serrati.

Va ricordato in proposito che le Tesi, dalla prima stesura di Lenin a quella definitivamente approvata al Congresso dell'Internazionale, subirono, a seguito di vivaci dibattiti in sede di commissione, emendamenti e varianti. I delegati dei giovani partiti comunisti d'Oriente furono i primi a chiedere che non si parlasse genericamente di "movimenti democratico-borghesi" bensì "nazional-rivoluzionari". E Lenin nel suo rapporto finale chiarirà che:

Noi, in quanto comunisti, dovremo sostenere e sosterremo i movimenti borghesi di liberazione nei paesi coloniali solo quando tali movimenti siano effettivamente rivoluzionari, solo quando i loro rappresentanti non ci impediscano di educare e organizzare in senso rivoluzionario i contadini e le grandi masse degli sfruttati. In assenza di tali condizioni, anche nei paesi arretrati i comunisti devono lottare contro la borghesia riformistica alla quale appartengono anche gli eredi della II Internazionale.

L'assenza a cui Lenin si riferiva, sia chiaro ancora una volta, era lo

sviluppo autonomo e indipendente del partito comunista nella sua formazione ideologica e organizzativa.

Riscontri storici: la politica estera russa verso l'Oriente

Nel 1923, Cicerin (firmandosi con lo pseudonimo Politicus) riconosceva che

la nostra politica ha avuto lo scopo di facilitare nei paesi orientali il processo di ascesa e di autocoscienza della borghesia, in quanto forza in grado di erigere un possente baluardo contro le ambizioni imperialistiche del capitalismo, britannico e non.

In questo orientamento strategico vanno inseriti i trattati firmati nel 1921 con regimi nazionalistici, anticomunisti oltre che borghesi, come la Turchia, la Persia e l'Afghanistan, li doppio intento era quello di bloccare l'espansionismo inglese diretto verso il Golfo Persico e di sviluppare i movimenti di liberazione nazionale, attirandoli nell'orbita russa. Sarà lo stesso Trotsky, in una sua lettera del , giugno 1920 al Commissario agli Affari Esteri, Cicerin, a scrivere:

una potenziale rivoluzione sovietica in Oriente ci toma ora utile soprattutto come un punto di forza nel baratto diplomatico con l'Inghilterra.

The Trotsky papers, Vol. II 1971

Vediamo meglio, nella sostanza, quali erano gli indirizzi tendenziali della politica estera russa in Medio Oriente. (Commenti e dichiarazioni sono tratti da articoli pubblicati su la Pravda, Novji Vostok, Izvéstjia e Kommunisticeskij intemacional del periodo).

Turchia

Dopo il trattato sovietico-turco del 16 marzo 1921, verso il regime di Kemal l'Urss adottò una linea politica favorevole, nell'interesse dichiarato di uno sviluppo della lotta per l'indipendenza nazionale. I seguaci di Kemal erano considerati

una borghesia allo stato potenziale che sta attuando l'accumulazione primitiva per mezzo dell'apparato statale.

Tuttavia anche la formale approvazione di una costituzione repubblicana laica, non migliorò le difficoltà che si opponevano all'azione politica autonoma dei comunisti turchi. E fra i quali sì manifestavano e si scontravano tendenze differenti e posizioni opposte (appoggio alla borghesia od organizzazione dei lavoratori contro la borghesia).

Il trattato di amicizia e neutralità turco-sovietico, firmato a Parigi nel dicembre 1925, si basava ufficialmente su rapporti caratterizzati dalla lotta per l'indipendenza nazionale. Il regime kemalista si presentava come un fenomeno rivoluzionario e progressista borghese, e in seno all'Intemazionale si manifestarono non poche ambiguità. Si andava da proposte di

appoggio allo sviluppo del capitalismo indigeno contro il capitale straniero [... e quindi di] appoggio a Kemal (campione della liberazione nazionale) nella lotta contro l'imperialismo e contro i residui del sistema feudale, [... e nel contempo inviti ad] organizzare i lavoratori contro la borghesia.

Lo scontro tra Gran Bretagna e Turchia (in gioco vi era il possesso della regione petrolifera di Mossul, che dalla Società delle Nazioni fu poi annessa all'Iraq, Stato creato dagli inglesi nel 1920) avvicinò il governo turco alla Russia e... scatenò la repressione anticomunista di Kemal: arresti, processi di massa, condanne e persecuzioni contro operai e contadini. (Mossul, l'antica Ninive, e l'altra città di Kirkuk sono oggi rivendicate dai Kurdi come parte del Kurdistan: Saddam le ha escluse entrambe nel 1974 dalla regione autonoma.) A seguito dell'avanzata dell'esercito greco in Anatolia, sostenuto dal governo britannico, la Turchìa chiese aiuto a Mosca. I sovietici sì trovarono di fronte ad una questione di principio, trattandosi di un fragrante atto di aggressione imperialistica. Ma proprio in quel periodo erano state stipulate le relazioni commerciali con la Gran Bretagna, e per tutta l'estate del 1921 Mosca non prese posizione e solo in ottobre nelle Izvestija apparve una protesta. In seguito gli appoggi alla Turchia furono molto cauti, mentre il governo di Kemal si destreggiava fra russi e inglesi, e alternava rari momenti di tolleranza verso i gruppi comunisti a più lunghi periodi di persecuzione.

Persia

Lo stesso accadde con la Persia, dove l'ascesa al potere di Riza Kan dapprima salutata come un passo importante verso la liberazione nazionale dall'imperialismo inglese, diventò poi un problema e non favorì di molto il disegno di una tutela sovietica sul nuovo stato nazionale che la dittatura militare di Riza avrebbe costruito contro le tendenze di decentramento degli sceicchi feudali locali. Indubbiamente, ciò che interessava principalmente a Mosca era l'indipendenza della Persia; la successiva ascesa al trono di Riza, dopo il rovesciamento dello Scià, costrinse l'Internazionale a far buon viso a cattiva sorte ed a mostrarsi favorevole alla nuova dinastia persiana (la quale, per tutta risposta, annullò anche la posizione semilegale del piccolo partito comunista), al potere "cesarista" di Riza, alla costituzione di un esercito regolare e alla "nascita di una borghesia provvista di capitale commerciale persiano". I contenuti rivoluzionari della politica sovietica non esistevano ormai più neppure sulla carta.

Sul Novyi Vostok (1923) si poteva leggere che

I diretti interessi della Russia sono che la Persia sia uno stato centralizzato forte in grado di difendersi contro ogni ingerenza nei suoi affari da parte di terzi e soprattutto, naturalmente, dell'Inghilterra.

Afganistan

Fra tutti i paesi orientali, quello certamente più feudale sia per l'ordinamento sociale e sia per la struttura politica. Non esistendo alcun movimento operaio, l'appoggio sovietico a re Aman Ullah e al suo "governo progressivo" contro l'imperialismo inglese fu presentato come uno stretto rapporto di amicizia con un piccolo popolo oppresso e la sua lotta di liberazione nazionale. Non mancò un aiuto militare (aeroplani e piloti) contro una rivolta di tribù. Da parte sua, il governo, afgano stipulò un trattato sia con i sovietici (28 febbraio 1921) sia con gli inglesi (22 novembre 1921) e alla fine tanto i russi quanto gli inglesi si orientarono verso il riconoscimento dell'Afghanistan come uno Stato cuscinetto fra potenze rivali.

La diplomazia segreta

La leggenda, portata avanti anche da certe sinistre rivoluzionarie, parla di

una politica leninista che capovolgeva tutti i canoni tradizionali della diplomazia borghese.

In realtà, la diplomazia sovietica si andava facendo convenzionale nel tentativo di rompere l'isolamento che circondava la Russia e quindi di costruire una politica estera confacente alle necessità del momento, più urgenti quelle interne che non quelle di un proclamato internazionalismo rivoluzionario.

E' vero che per Lenin

non vi è idea più errata e nociva della separazione della politica estera da quella interna.

E' vero che la Russia dei Soviet si era posta inizialmente come polo di attrazione per la costituzione di un fronte internazionale contro il capitalismo; ancora si affermava la

subordinazione degli interessi della lotta proletaria in un paese agli interessi di questa lotta su scala mondiale.

Tesi coloniali, 1/10

Ma dopo i primi anni dalla conquista del potere, con la fine della guerra civile, la questione di una ripresa delle relazioni internazionali si pose all'attenzione di Mosca; non solo, ma, allontanandosi la prospettiva di una estensione in Europa della rivoluzione, si faceva strada la "necessità" di una condotta politica che salvaguardasse la "stabilità e sicurezza" dell'Unione Sovietica contro le minacce dei paesi capitalistici più forti, non escludendo compromesso con quei paesi capitalistici che si presentavano come più deboli e quindi meno pericolosi. Va tenuto presente che nell'ottobre 1923, sia la Gran Bretagna che l'Italia avevano riconosciuto l'Unione Sovietica, con una condizione diplomatica simile a quella degli altri Stati europei. Ora anche Zinovev poteva dichiarare, nel maggio 1924:

La nostra politica internazionale non è mai stata così strettamente legata con la politica interna come ora.

Era il momento, per la Russia, di usufruire di un "attimo di respiro" con la NEP, sviluppando relazioni commerciali con l'Occidente, a cominciare dall'accordo commerciale anglo-sovietico del marzo 1921.

Si ritornavano a praticare le modalità, certamente poco rivoluzionarie, della diplomazia segreta, con accordi anche economici e finanziari con governi borghesi.

La diplomazia segreta -- aveva detto Lenin nel 1920 -- come uno dei mezzi di guerra.

Ma certamente molto pericolosa, soprattutto se praticata da posizioni di debolezza e sempre più rispondente ad esigenze statali della "patria del socialismo" più che dell'internazionalismo rivoluzionario. Lo si sarebbe constatato chiaramente con l'avvento dello Stalinismo.

Completa autonomia politica e organizzativa

Ma torniamo alla condizione fondamentale: "anche se soltanto embrionali", i partiti comunisti delle rispettive aree interessate a movimenti nazionalistici dovevano essere salvaguardati nella loro autonomia politica, programmatica e organizzativa. In caso contrario avremmo avuto un vero e proprio suicidio politico del proletariato. Avremmo cioè avuto - col sangue versato dalle masse del proletariato e dei contadini poveri, chiamate dalla propria "giovane" borghesia a sacrificarsi per "lo sviluppo del capitalismo" - nulla più di ciò che poteva andare al di là di una "liberazione" dall'oppressione coloniale (tale era allora nella sostanza e nella forma) soltanto in senso giuridico.

E questo non avrebbe portato ad altro che ad un passaggio delle chiavi che serrano le catene del capitalismo attorno ai polsi del proletariato da una all'altra delle mani dei suoi sfruttatori. Con un proletariato relegato - e "guidato" da certi tifosi dell'interventismo - al "maneggio delle armi", a battersi cioè per i borghesi interessi nella illusione di poter meglio - un domani - difendere i propri.

E' infantile, è semplice aspirazione ...lirica, pensare che un proletariato, diciamo proletariato e cioè non plebe, non artigianato, non popolo generico, il quale sia parte essenziale nella rivoluzione nazionale, non faccia sua quella ideologia, non reputi idonei quei metodi di lotta, non si sacrifichi per quegli obiettivi; quelli, si capisce, del nazionalismo vittorioso, e quindi non serva inconsciamente da sgabello a istituzioni e strumenti di dominio che si ritorceranno oppressivi e feroci contro i suoi interessi di classe, contro le ragioni storiche della stessa rivoluzione socialista.

I limiti della doppia rivoluzione, Battaglia comunista n. 7/8, luglio 1960

Ancora una volta, senza l'intervento diretto, attivo e politicamente organizzato del proletariato locale e internazionale, nulla si sarebbe mosso oltre gli angusti orizzonti, e i pregiudizi ideologici, "della nazione, del popolo, delle razze, della religione", che influenzano le masse proletarie e semiproletarie (non soltanto quelle dei paesi più arretrati). Nessun passo avanti, ma anzi indietro, senza la presenza di un partito che abbia al suo attivo una rigorosa autonomia politica e organizzativa, una precisa definizione e delimitazione programmatica che lo contraddistingua nettamente dai partiti nazional-borghesi. Da quanto detto fin qui, era ed è oggi evidente la necessità - raccomandata dallo stesso Lenin e che noi ripetiamo ancora una volta - di

una chiara nozione delle circostanze storiche ed economiche [in cui ci si muove ...] l'esatta vantazione dell'ambiente storicamente determinato, e anzitutto dell'ambiente economico. [... Quindi, occorre] la netta separazione degli interessi delle classi oppresse, dei lavoratori, degli sfruttati, dal concetto generale dei cosiddetti interessi del popolo, dei sedicenti interessi nazionali, che in realtà sono soltanto quelli delle classi dominanti.

dalle Tes/ del Secondo Congresso della Terza Intemazionale comunista

Sviluppo indipendente del partito

L'impostazione tattico-strategica dell'Internazionale all'inizio degli anni Venti si basava dunque - oltre che sulla presenza del primo stato operaio, la Repubblica dei Soviet - sul fatto che a fronte di un imperialismo occidentale in forte espansione si contrapponevano Stati e paesi arretrati, con istituzioni addirittura feudali o patriarcali-rurali e che interessavano interi continenti (Asia e Africa). Ciò nondimeno l'Internazionale affermava la necessità di combattere

il panislamismo e il movimento panasiatico e simili correnti che tentano di legare la lotta di liberazione contro l'imperialismo europeo ed americano al rafforzamento del potere dell'imperialismo turco e giapponese...

Secondo il programma strategico del comunismo, nella fase storica dell'imperialismo non si inserisce la liberazione e l'indipendenza nazionale come un elemento separato dalla dittatura del proletariato e dalla solidarietà di lotta del proletariato internazionale per il comunismo. Ogni altra indicazione apparterebbe ad un facile gioco di schematismi dottrinali, di semplicismi teorici, che intellettualmente pretendono di assegnare ancora un ruolo progressista e antimperialista all'indipendenza nazionale. Questo quando nella realtà essa è negata anche nel senso borghese della parola. Le esigenze imperialistiche delle potenze egemoni, in campo economico, finanziario e militare, annullano ogni entità economicamente e politicamente delimitata, riassorbendola entro le proprie sfere d'influenza diretta e indiretta.

Diamo di nuovo la parola a Lenin:

...Noi, in quanto comunisti, dovremo sostenere e sosterremo i movimenti borghesi di liberazione nei paesi coloniali solo quando tali movimenti siano effettivamente rivoluzionar!, solo quando i loro rappresentanti non ci impediscano di educare e organizzare in senso rivoluzionario i contadini e le grandi masse degli sfruttati: in assenza di tali condizioni, anche nei paesi arretrati i comunisti devono lottare contro la borghesia riformistica...

Dunque, condizione sine qua non, allora e oggi, è la presenza di un partito comunista locale in grado di muoversi ed operare come tale e non come la proiezione immaginifica di un ideale soggettivamente coltivato fra le proprie domestiche pareti.

Lo sviluppo autonomo e indipendente del partito comunista nei paesi sottoposti all'oppressione imperialista era indispensabile per poter

superare i suoi momentanei alleati -- così scriveva Bordiga nel 1924 su Prometeo -- con un'opera indipendente di formazione ideologica e organizzativa [... chiedendo contemporaneamente] l'appoggio ai movimenti di ribellione ncoloniale soprattutto ai partiti comunisti della metropoli. -- ... E Bordiga concludeva -- Tale tattica ha tanto poco sapore collaborazionista, da essere chiamata dalla borghesia azione anti-nazionale, disfattista e di alto tradimento.

Il fatto che il partito oggi non sia ovunque presente e operante - questa è la drammatica verità - e neppure esistano organismi proletari indipendenti di alcun tipo, men che meno legittima la validità di una tattica che (come era evidente fin dai tempi di Lenin e dallo stesso ben sottolineato) restava vincolata a imprescindibili "circostanze storiche ed economiche". Condizioni che da decenni risultano definitivamente superate nei rispettivi "ambienti". Ma è proprio la questione del partito, di cui alcuni attendono da lungo tempo la comparsa formale (dopo averne costruiti e distrutti alcuni con pretese ...mondiali) per poi dirigerli in rappresentanza di un "partito storico", contenitore delle loro invarianti elucubrazioni ideologiche, - è proprio questa la questione centrale. Senza la sua soluzione si lascia il proletariato in balia della borghesia, dei suoi contrasti, delle sue soluzioni e ideologie, sempre in grado di trascinarlo verso un rafforzamento del dominio del capitale e del potere della classe borghese.

Il compito dei rivoluzionari

Qualora il partito comunista fosse oggi presente, sia pure in forma embrionale, esso dovrebbe partecipare attivamente, come ideologia e come apporto organizzativo-politico, ad un movimento nazional-borghese o che comunque si presentasse come tale? Dovrebbe incitare i proletari a portare a compimento una affermazione di rivoluzione borghese, invece di porre l'azione del proletariato sul piano dell'urto di classe? La risposta che ci viene data da alcuni è non solo sì, ma addirittura incondizionatamente, in modo assoluto, senza alcun limite.

La nostra risposta è invece che il compito storico dell'avanguardia rivoluzionaria per il comunismo è oggi quello della costante denuncia e della rottura del diaframma delle rivoluzioni nazionali, e quindi di spinta ad una azione conseguente sul piano internazionale di classe per dare a quegli stessi movimenti un indirizzo e un contenuto concretamente antimperialista. Ed oggi, soprattutto in presenza di un proletariato prostrato e confuso dalle conseguenze controrivoluzionarie dello stalinismo, il vero e proprio imperativo non è quello di fare della irresponsabile demagogia movimentista, mascherata dalla esaltazione di un falso solidarismo, bensì quello di operare seriamente e conseguentemente affinché il proletariato tomi a tessere la tela della sua organizzazione internazionale.

L'autodeterminazione del proletariato mondiale, e non quella dei "popoli", è all'ordine del giorno della storia.

Fughe in avanti e tappe intermedie

I praticanti del concretismo politico, in opposizione al presunto settarismo-astrattismo che da sempre viene attribuito ai comunisti rivoluzionari, credono di aver scoperto la chiave risolutiva dei problemi tattici del movimento proletario. Una chiave che aprirebbe finalmente le porte ad un inserimento nel vivo delle esperienze della classe operaia, con la capacità di tener conto dello stato effettivo e complessivo della coscienza posseduta al momento dal movimento stesso.

Le idealistiche fughe in avanti sono in tal senso inevitabili.

I compiti dei comunisti non possono certo limitarsi alla propaganda. Fondamentale è anche la loro azione finalizzata a spingere la classe alla lotta. La loro tattica deve adattarsi ogni volta alle condizioni materiali e di coscienza della classe ma, nel contempo, essa non deve mai disancorarsi dall'obiettivo di spingere la classe stessa verso la sua autonomia politica ed organizzativa e verso livelli di coscienza più elevati.

Il processo d'acquisizione della coscienza comunista non è affatto un processo lineare, tanto meno spontaneo. Esso è fatto di tappe e gradini successivi, i cui risultati non sono un fatto né meccanico né scontato. La borghesia, da parte sua, lavora attivamente per fare arretrare questo processo. Ecco perché il ruolo dei rivoluzionari è tanto importante: il loro compito è proprio quello di far progredire il livello di coscienza della classe sfruttata quanto più possibile in ogni occasione. Passando dal generale al particolare, nei confronti dell'imperialismo affiorano ovunque posizioni di cui - una volta sfrondate dai formalismi parolai inneggianti ad un abusato internazionalismo di facciata - si coglie in pieno tutto l'opportunismo. Con il risultato politico, in ogni caso, del sostegno alla causa di uno o dell'altro dei fronti nazionali o imperialistici in contesa.

Così la tesi sostenuta da alcuni "marxisti" ritorna sempre ad essere quella che nei paesi periferici il programma dei comunisti dovrebbe prevedere, ed appoggiare, prima della rivoluzione proletaria una tappa intermedia, quella della cosiddetta rivoluzione democratica o della liberazione nazionale. Questo a causa delle caratteristiche dei regimi economici e politici dei paesi arretrati e del dominio, imperialistico che su di loro viene esercitato dai più potenti Stati capitalistici.

Si tratta di una concezione che non arriva a comprendere in pieno la fase attuale dell'imperialismo, la quale non concede più alcun spazio né alle rivoluzioni democratiche (che hanno perso qualsiasi carattere progressivo come era invece agli inizi del Novecento), ne all'indipendenza nazionale la quale è oggi completamente negata dal dominio dell'imperialismo a scala planetaria.

A sostegno di quella tesi ci si appella (in modo più o meno esplicito) ad una disuguaglianza nello sviluppo capitalistico che si tradurrebbe in una differente struttura economico-sociale e differenti forme politiche di alcune paesi periferici, fino a legittimare differenti percorso della rivoluzione proletaria mondiale.

Sia i compiti tattici e sia i fini strategici si modificano, in questa visione, al seguito della previsione che nei paesi periferici i processi rivoluzionari avverrebbero necessariamente nelle forme o di una rivoluzione democratica operaia/contadina o dei movimenti di liberazione nazionale. Entrambe queste forme vengono considerate come tappe intermedie della rivoluzione proletaria.

Ne conseguirebbe che se questi passaggi fossero soffocati o sconfitti, il processo verso la rivoluzione proletaria internazionale subirebbe un rallentamento. Due sarebbero quindi le fasi del processo rivoluzionario nei paesi periferici; il programma comunista risulterebbe subordinato allo svolgimento di queste due tappe, per cui il complessivo "sviluppo" non potrebbe essere portato fino in fondo se la tattica comunista non appoggiasse le rivoluzioni democratiche e le liberazioni nazionali.