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La borghesia delle nazioni oppresse farà appello al proletariato perché sostenga senza riserve le sue aspirazioni in nome della 'praticità' delle sue rivendicazioni. Il proletariato è contro un simile praticismo, egli apprezza e pone al disopra di tutto l'unione dei proletari di tutte le nazioni ed esamina ogni rivendicazione nazionale dal punto di vista della lotta di classe degli operai.
Lenin
Anche se, dal punto di vista storico, entrambe le questioni sono oggi esaurite, tuttavia esse possono avere ancora una serie di implicazioni politiche, tali da esigere una ripresentazione di quello che è stato indubbiamente uno dei maggiori problemi della tattica comunista. E di fronte al quale la nostra corrente, sia come Sinistra italiana che come Partito Comunista Internazionalista, ha saputo fornire un valido contributo d'analisi e di orientamento.
Innanzitutto, una premessa storica: che cosa si intende per questioni nazionali e che cosa si intende per questioni coloniali.
Dal punto di vista marxista si è parlato di "rivoluzioni nazionali" (a partire dalla Rivoluzione francese, nel 1779) quando queste hanno dato luogo a nuovi rapporti di produzione e relazioni sociali (da quelli feudali a quelli capitalistici e borghesi).
Le rivoluzioni nazionali, cioè, sono state quelle che hanno portato determinate nazioni a rapporti di produzione specificatamente capitalistici. Quindi parlare di "Stato" e "indipendenza nazionale" aveva una ragione nel XIX secolo, dove era necessario abbattere lo Stato feudale e costruire lo Stato borghese in grado di garantire i nuovi rapporti economici.
Era una vera e propria necessità storica quella che spingeva il capitalismo ad affermarsi in Europa, spazzando via un sistema economico ormai superato (quello feudale). E in questo periodo storico, la borghesia si presentò e svolse il ruolo di una forza progressiva, la quale sostituiva ai vecchi mezzi di produzione nuove forze e metodi più avanzati. Questa fase storica era dunque positiva e progressista.
Storicamente, come è avvenuto tutto ciò?
Prendendo per esempio la Rivoluzione francese, si è visto come, in quali modi e forme, una borghesia abbia eliminato il mondo della feudalità entro i propri confini. Dopo questo inizio vittorioso, abbiamo avuto in Europa - dal 1848 in poi - un succedersi di rivoluzioni nazionali tipicamente democratico-borghesi, in cui quasi tutti i paesi dell'Europa Occidentale sono pervenuti a rapporti di produzione capitalistici e si sono dati degli Stati moderni, basati su nuove legislazioni e su nuove forme di organizzazione, cioè sono di fatto sorti in questo periodo storico gli Stati borghesi.
La stessa cosa non è però avvenuta per parte dell'Europa Orientale. Possiamo quindi parlare di rivoluzioni nazionali solo nel periodo dal 1779 (Rivoluzione francese) al 1871 (Comune di Parigi).
La posizione di Marx, che analizza questi fenomeni tipicamente borghesi, è quella di ritenere positivo questo periodo perché ha portato allo sviluppo gigantesco dei mezzi di produzione. Ma lo sviluppo del capitalismo è contraddittorio. Una volta che il capitalismo ha creato se stesso dal punto di vista economico, ha anche creato e messo in moto le proprie contraddizioni. Nel momento in cui il capitalismo - da questa fase iniziale privatistica e nella quale ha a disposizione i mercati dove introdurre i prodotti - arriva a produrre a livello storico il primo grande scontro, comincia a cessare di essere capitalismo privatistico per diventare monopolistico. Ossia, l'imperialismo è il primo segno a livello storico della decadenza del capitalismo.
Lenin, nella sua opera sull'imperialismo, mette a nudo le esigenze del capitalismo nel primo decennio del secolo, quando cioè il capitalismo è costretto a risolvere le proprie contraddizioni con la guerra. Nell'epoca storica del capitalismo bisogna dunque distinguere due fasi:
- quella positiva in cui il capitalismo rappresenta una forza progressista;
- una fase successiva, dal 1915 in avanti, in cui il capitalismo cessa di essere questa forza progressista e diventa di natura parassitaria, ed è portato necessariamente a risolvere nel suo ambito le proprie contraddizioni, attraverso la concentrazione e la centralizzazione, per arrivare anche al capitalismo di Stato.
Per quanto riguarda le questioni coloniali, dobbiamo sforzarci di impostarle nei termini seguenti.
Che cosa è avvenuto di fatto nell'arco tra la prima e la seconda guerra mondiale e dalla seconda guerra mondiale in poi?
Tra la prima e la seconda guerra mondiale vi sono state alcune rivoluzioni nazionali contro un certo tipo di imperialismo che, in una determinata epoca, era prevalentemente franco/inglese e, in modo subordinato, belga/olandese.
Queste potenze imperialistiche sono riuscite a mantenere i loro imperi coloniali, e sono arrivate alla seconda guerra mondiale con questo loro impero intatto. Ma la seconda guerra mondiale ha rappresentato un importante mutamento. Questa guerra ha significato di fatto una ridistribuzione delle influenze. Cioè, l'Urss da una parte e gli Usa dall'altra, e in maniera del tutto subordinata Francia e Inghilterra.
Questa nuova spartizione è avvenuta in maniera ufficiale per alcune zone; altre zone rimasero invece di fatto ancora in ballottaggio. Esempi più evidenti: Corea e Vietnam.
La Corea, fino alla guerra Cino-giapponese del 1895, era uno Stato indipendente; poi fece parte dell'impero coloniale giapponese. Alla fine della guerra, e con la sconfitta militare del Giappone, si pose quindi il problema della spartizione e della gestione degli avanzi del dominio coloniale. Le potenze vincitrici stabilirono nel 1945 che la Corea avrebbe dovuto essere gestita per portare avanti il processo di democratizzazione entro un quarantennio. Si divise il paese con uno sparti-acque (38 parallelo) con la parte Nord all'Urss e la parte Sud all'Onu.
Ma il sottosuolo della Corea del Nord, e parte di quello del Sud, era ricco di uranio, per cui ben presto si sviluppò la guerra tra le due Coree. Si arrivò a un trattato di pace nel 1953, in cui venne sancita la divisione della Corea in due Stati, uno controllato dall'Urss e l'altro direttamente dagli Usa, cioè dai due centri mondiali dell'imperialismo.
Altro episodio sintomatico è il Vietnam. E' sempre stato uno Stato indipendente fino a circa il 1770, quando, tramite un padre francescano francese, arrivarono i francesi e si impadronirono del Vietnam. Motivo: perché il Vietnam era il terzo produttore di riso del mondo e aveva grossi giacimenti, e quindi rappresentava dal punto di vista capitalistico un boccone prelibato.
La Francia esce dalla seconda guerra mondiale prostrata. Nel Vietnam erano sorte già dal 1911 delle forze democratico-borghesi che portavano avanti una certa politica di indipendenza (Oh Chi Min). Con la seconda guerra mondiale questo partito democratico borghese si organizza anche sul piano militare.
Dietro le "forze di Liberazione nazionale" hanno agito prima il governo russo e poi quello cinese. Hanno agito molto concretamente con l'aiuto non solo di materiale bellico, ma addirittura una divisione di truppe cinesi, che ha combattuto a fianco dei guerriglieri costruendo quel famoso "sentiero di Ho Chi Min" che permetteva di ricevere gli aiuti dalla Cina.
E' dunque, e in definitiva, possibile nell'epoca storica dell'imperialismo (fase decadente del capitalismo) avere delle rivoluzioni democratico-borghesi nel senso che si sono avute in Europa dal 1848 al 1871? Credere cioè - sulla base di un determinismo chiaramente meccanicistico nel rapporto tra cause ed effetti - che le rivoluzioni anticoloniali sfocino negli stessi risultati delle rivoluzioni antifeudali e nazionali dell'Europa? Evidentemente la risposta è: no.
Noi oggi siamo in presenza di una situazione particolare, nella quale il capitalismo gioca un ruolo determinante, per cui in questi paesi non si può porre concretamente il problema della riunificazione nazionale, ma solo la possibilità per alcune centrali imperialistiche di usufruire di questi moti nazionali per fini che non sono più di natura nazionalistica ma prettamente di natura imperialistica.
Siamo cioè nella fase decadente del capitalismo.
C'è un altro elemento a prova di questa impostazione del problema.
Facendo un salto dall'Estremo Oriente al Medio Oriente e all'Africa del Nord, abbiamo visto rivoluzioni - tipo quella algerina, marocchina ed egiziana - dove questi paesi sono pervenuti a rapporti di produzione capitalistici molto tardi (1953, 1957, 1958).
Possiamo parlare anche in questi casi di una fase progressista? Guardiamo ad episodi come quelli algerino ed egiziano. Questi non hanno potuto avere il loro decorso normale; e gli Stati sono stati creati già a livello di capitalismo di Stato. Hanno cioè dovuto saltare tutta una fase storica; sono arrivati addirittura ad una fase avanzata di disfacimento del sistema capitalista (imperialismo). Questi paesi sono pervenuti direttamente al capitalismo di Stato, vale a dire a quella forma più idonea per la gestione del capitalismo, giunto a un momento di maggior sviluppo delle proprie contraddizioni.
Perché questi nuovi Stati hanno dovuto necessariamente pervenire a forme produttive ed amministrative proprie alla fase decadente del capitalismo? Perché né sul piano interno né sul piano internazionale potevano andare avanti sulla base di un capitalismo originariamente privatistico. L'unica possibilità di sopravvivenza era quella di creare uno Stato, sia dal punto di vista politico che economico, con una organizzazione a livello di capitalismo di Stato.
Queste rivoluzioni hanno dato alla luce, dunque, un capitalismo già decadente. Rimane il fatto che nell'epoca di decadenza dei mezzi di produzione capitalistici, attraverso le tensioni internazionali create dalle forze imperialiste (vedi conflitto arabo-israeliano), il capitalismo gioca le sue ultime carte. Sono quindi, e riassumendo, due le posizioni fondamentali:
- un periodo storico in cui il capitalismo ha di fatto rappresentato un movimento progressista dal punto di vista economico;
- un periodo in cui il capitalismo non è più stato in grado di farlo, sotto la spinta delle proprie contraddizioni insanabili.
Il problema di "simpatizzare e appoggiare" - in questa seconda fase - le cosiddette guerre di Liberazione nazionale, non si è mai posto per noi, comunisti rivoluzionari, perché un tale orientamento politico significava appoggiare in definitiva un fronte dell'imperialismo contro un altro fronte dell'imperialismo, Cioè, e fino a ieri, il blocco russo contro quello anglo-americano, o viceversa.
Quello che il proletariato a livello internazionale doveva fare - e con le nostre poche e deboli forze per questo ci siamo sempre battuti - era il tentativo di inserirsi nella situazione oggettiva, chiarificando che quella che si stava combattendo non era una guerra in alcun modo rivoluzionaria, ma soltanto il tentativo - purtroppo riuscito - da parte di alcune forze borghesi di manovrare il proletariato per i propri ed esclusivi interessi.
Diritto all'autodeterminazione dei popoli
La questione si pone in questi termini: una forza rivoluzionaria può oggi, nella complessa ma ferrea realtà dell'imperialismo, rivendicare ancora il diritto all'autodeterminazione dei popoli? Su questo importante punto della tattica comunista la nostra risposta è stata sempre - nell'arco dell'ultimo mezzo secolo di storia - tanto puntuale quanto chiara e inequivocabile.
Autodeterminazione significa, politicamente, essere in grado e nella possibilità di soddisfare qualsiasi esigenza e necessità autonomista; quindi di poter porre l'autodecisione delle nazioni (cioè delle classi dominanti) o dei popoli (nel loro significato comprendente anche le classi dominanti) quale modello predominante del modo di essere di un paese completamente slegato dai rapporti di natura economica e politica degli altri paesi. Il che ci riporta ai periodi storici del capitalismo giovane, non ancora giunto alla sua fase imperialista. La distinzione non è certamente di poco conto e comprende una separazione tra due modi di essere del capitalismo, cronologicamente così caratterizzati:
- Periodo della formazione degli Stati nazionali. Le borghesie erano protese all'affermazione di un loro ruolo politico e alla costituzione di un mercato capitalistico. Il periodo storico si caratterizzava in quanto periodo, per eccellenza, delle rivoluzioni democratico-borghesi. Il proletariato partecipava a tali sommovimenti per crearsi le condizioni più favorevoli all'affermazione dei propri diritti politici e sociali, e al tentativo di migliorare le proprie condizioni materiali di vita. Il proletariato impara a conoscere, in tale fase della sua esistenza, la inconciliabilità di interessi che lo separava dalla borghesia. Questa, forza egemone e classe economicamente dominante, si riservava come principale compito il disarmo di tutte le classi sfruttate, una volta raggiunto lo scopo della propria emancipazione rispetto alle vestigia del vecchio mondo feudale.
- Periodo delle rivoluzioni socialiste. E' la fase storica in cui il capitalismo perviene alla sua maturità e in cui si avvia a conclusione il processo di formazione dei mercati nazionali, i quali si integrano in un unico grande mercato internazionale. Lungi dal risolvere i problemi della competizione economica, il capitalismo conosce in questa fase la massima rivalità, esprimentesi in interessi contrapposti e sfocianti nelle guerre generalizzate, le guerre imperialiste mondiali.
I due periodi non sono separati da una netta demarcazione, ma da un processo di continuità che vede il primo sfociare gradualmente nel secondo. Le rivoluzioni democratico-borghesi perdono il loro carattere progressivo per acquisire un deciso carattere reazionario; sino alla loro improponibilità per le mutate condizioni storiche, cui abbiamo già accennato. Stiamo, chiaramente e forzatamente, schematizzando il tutto.
Il modo di produzione capitalistico, estendendosi a scala planetaria in quanto modo di produzione dominante, vanifica qualsivoglia tentativo di emancipazione da esso, e riconduce qualunque lotta a sfondo nazionale nella competizione fra borghesie contrapposte, fra borghesie che si configurano come la punta di diamante di intrecciati interessi propri con interessi imperialistici, di cui queste sono espressioni. Le condizioni di arretratezza dei paesi del cosiddetto Terzo o Quarto mondo, non sono la dimostrazione che esistano spazi non ancora riempiti dalla logica dell'imperialismo, ma, al contrario, dimostrano il modo contradditorio d'essere dell'imperialismo, il quale ha come condizione del suo massimo sviluppo l'arretratezza economica, politica e sociale di vaste aree della Terra.
Quindi la distinzione tra paesi imperialisti e paesi non imperialisti non va fatta col solo metro del loro sviluppo economico e della capacità di sfruttamento di altri paesi, ma con quello di quell'unica capacità del capitalismo a scala mondiale di sfruttare il proprio proletariato e i proletariati, contemporaneamente, di altri paesi. La distinzione fra paesi imperialisti e non, va fatta col metro dell'analisi marxista secondo cui il modo d'essere del capitalismo si esprime con la presenza viva ed operante - e ciò non esclude nemmeno il più arretrato fra i paesi del mondo - del capitale finanziario e della sua rete di interessi parassitari che accomuna tanto l'avanzatissima borghesia monopolistica americana quanto le residue escrescenze di quella borghesia compradora, qua e là ancora operante in varie parti del mondo.
La fase dell'imperialismo è la fase del capitalismo decadente. Se ciò era vero ai tempi di Lenin, oggi, dopo due guerre mondiali e centinaia di guerre a carattere locale (si fà per dire) - le quali hanno portato al risultato della spartizione del globo terrestre fra i principali poli di attrazione e di influenza (i blocchi imperialistici) - tutto ciò è addirittura lampante.
Da tutto questo, cosa ne consegue? Che il concetto di autodeterminazione è una aberrazione che può portare all'interventismo nelle contese interimperialistiche, spingendo il proletariato a combattere, invece che per la sua rivoluzione di classe, per interessi completamente estranei tanto alla soddisfazione dei suoi bisogni immediati quanto ai compiti storici che lo attendono in un più o meno prossimo futuro.
Dalla polemica fra Lenin e Luxemburg ad oggi
Attorno al problema delle "rivoluzioni nazionali" si è svolto un ricco e animato dibattito all'interno del movimento comunista, sia nei suoi momenti di splendore (anni Venti) che nei suoi momenti di assoluto isolamento sotto l'onda lunga della controrivoluzione. E su questo problema, lo stesso Lenin ha detto quanto basta perché molti suoi interpreti arrivassero a giustificare - qualche decina d'anni più tardi - appoggi a guerre di liberazione nazionale e a "rivoluzioni democratiche" più o meno subordinate alla esistenza di partiti comunisti. Condizione, questa, che Lenin poneva comunque alla base delle sue conclusioni politiche.
Noi abbiamo sempre detto con chiarezza che condividevamo pienamente l'esame di Lenin sull'imperialismo, la diagnosi che ne dava e la terapia che indicava (la rivoluzione proletaria, comunista, internazionale). Non eravamo d'accordo con Lenin quando egli riteneva rivoluzionarie e progressive in quanto tali le guerre nazionali in epoca imperialista.
E' vero che - come dice Lenin - le guerre nazionali sono "possibili" anche in epoca imperialista. (Vedi "Il programma militare della rivoluzione proletaria" di Lenin). Ma il primo problema che un comunista deve porsi è questo: in che misura esse sono utili alla rivoluzione comunista? In quale misura sono considerabili come tappe di questa?
Se e in quanto sono rivolte contro una borghesia imperialista sul terreno pur sempre delle contraddizioni interimperialiste, allora la Luxemburg (contro la quale polemizza Lenin nel suo scritto) ha ragione. Rileggiamola, al punto 6 dei "Principi direttivi sui compiti della socialdemocrazia internazionale". Rosa Luxemburg scrive:
Le piccole nazioni, le cui classi dirigenti sono appendici e complici dei loro compagni di classe dei grandi Stati, non sono altro che pedine nel gioco imperialistico delle grandi potenze, e durante la guerra si abusa di loro e delle rispettive masse lavoratrici, come di strumenti, per sacrificarle dopo la guerra agli interessi capitalistici.
La storia, gli avvenimenti accaduti nel tempo che ci separa dalla Luxemburg le hanno dato pienamente ragione e hanno smentito Lenin: le "rivoluzioni nazionali" succedutesi nei continenti non hanno fatto avanzare di un passo la prospettiva comunista o i rapporti di forza internazionali tra borghesia e proletariato. Hanno, invece, volta a volta, favorito un fronte dell'imperialismo contro l'altro.
Vediamo come ciò si renda concretamente possibile nel meccanismo sociale, politico ed ideologico, che si innesta nei paesi in "rivoluzione nazionale". L'accentuazione del tema nazionalistico contro il nemico del momento, da parte di tutte le forze politiche in campo (anche quelle che si richiamano al proletariato), porta inevitabilmente a legare il proletariato al carro della solidarietà nazionale sul terreno bellico. Ma su questo terreno è inevitabile l'intervento del fronte imperialista avversario del nemico del momento, e dunque obiettivamente "alleato". Risultato definitivo: l'aggancio del proletariato agli interessi della potenza imperialistica alleata.
Un conto allora è dire che le guerre nazionali sono possibili, altro conto è definirle progressive o rivoluzionarie, come fece Lenin.
Si potrebbe obiettare che l'autonomia politica e organizzativa del proletariato, nel mentre consente l'affrancamento del capitale nazionale dai vincoli delle potenze imperialiste e quindi la liberazione delle sue capacità di sviluppo, è anche garanzia di una successiva tappa di sviluppo propriamente proletaria, anti-capitalista. La realtà è però diversa. Il fronte unico militare nel corso della guerra nazionale non può limitarsi al piano puramente nazionale; invade necessariamente il campo politico, amministrativo (attraverso i problemi di gestione logistica della guerra) e porta inevitabilmente (in caso di successo apparente della guerra - esempio algerino, vietnamita, ecc.) alla creazione di uno Stato capitalista pur sempre dominato dall'imperialismo con il concorso delle forze presunte comuniste e con la conseguente loro soggezione alla necessità di difenderlo come tale.
L'equivoco della indipendenza formale dall'antico dominatore imperialista copre la sostanza della perdurante dipendenza dall'imperialismo. La borghesia nazionale (per quanto giovane, sottosviluppata, diversa nella sua configurazione storica da quella tradizionale europea) non ha prospettive di vita e di profitto al di fuori della rete di mercato mondiale. E questo è comunque dominato dall'imperialismo. Anche nel caso di una totale nazionalizzazione dell'economia (capitalismo di Stato) non è concepibile uno sviluppo autonomo dalla rete di interessi imperialistici. A meno di fare la rivoluzione proletaria, a meno cioè di un potere proletario collegato al proletariato internazionale e al suo corso rivoluzionario.
E c'è di più. Non si è mai dato il caso (a parte quello del continente Cina, e proprio perché continente) di uno sviluppo economico di paesi neo-liberati, anche lentamente assimilabile ad un equilibrato sviluppo capitalistico. La dipendenza dall'imperialismo significa sviluppo secondo gli interessi mondiali del capitale imperialistico, nel quadro quindi della "sua" divisione del lavoro, della "sua" specializzazione dei mercati. Cuba viveva di solo zucchero e continua a vivere di solo zucchero! Il "sorprendente" sviluppo della Corea del Sud non vede che grandi fabbriche di assemblaggio e produzioni in via di marginalizzazione nelle centrali imperialiste.
In cosa dunque sarebbe progressiva la guerra nazionale? Nella foga polemica contro la Luxemburg, Lenin si è lanciato in un pericolosissimo esempio: quello di "una guerra nazionale, progressiva, rivoluzionaria, condotta poniamo dalla Cina, in alleanza con l'India, la Persia, il Siam, ecc. contro le grandi potenze". Quali? chiediamo. L'ipotetica guerra da dove avrebbe tratto le sue ragioni se non dalle contraddizioni intercapitaliste, nella forma che esse assunsero dopo la prima Guerra imperialista? Il proletariato, dunque, in nome di un presunto progressismo, si troverebbe ingabbiato o compresso nella sua autonomia di classe su un terreno non suo.
India, Cina, Siam non sono certo Stati proletari. Non ha dunque alcun senso - né logico né politico - affiancare tale ipotetica guerra a quella di futuri Stati proletari isolati o costretti all'autodifesa.
Lenin sembra ovviare al problema usando con dovizia la altrove maledetta parola "popoli". Luxemburg bada essenzialmente alla struttura di classe degli Stati nazionali: per Lenin sembra invece che non siano più precise configurazioni sociali e statali a condurre la guerra, ma popoli.
Si aggiunga il termine "oppressi" e si avranno gli elementi necessari a stimolare il sentimento, l'emotività necessari a viaggiare su un filo teso sull'abisso, credendo di essere su un'autostrada. E' chiaro dunque che la polemica di Lenin appare molto viziata. Da lì non possiamo trarre seri elementi a sostegno della tesi che i comunisti devono appoggiare le guerre nazionali come tali.
Questo significa forse che i comunisti debbono ignorare il fenomeno? Non sarebbero né comunisti, né marxisti. Noi abbiamo posto e continuiamo a porre il problema politico di cosa fare, come intervenire su un fenomeno che non possiamo certo negare. Lasciamo ad altri gli schematismi letterari a sfondo spesso imperial-sciovinistico, secondo cui dalle premesse analitiche esposte deriverebbe la totale estraneazione dai movimenti e la contrapposizione totale ad essi.
E' un fatto che in molti paesi del mondo le masse oppresse siano schiacciate sotto il doppio peso della dominazione capitalista e della dipendenza del capitalismo nazionale dall'imperialismo. E' un fatto che la rivolta contro l'oppressione si configuri innanzitutto come rivolta contro l'oppressore imperialista del momento. Il movimento nazionalista, cioè, riassume sotto di sé anche le spinte più genuinamente proletarie, contro lo sfruttamento, contro le barbare condizioni di vita e di lavoro (o non-lavoro).
Tali spinte devono essere raccolte là dove si manifestano. E' un principio irrinunciabile a qualunque definizione di strategia e di tattica rivoluzionaria. Ma questo non significa inserire nel programma comunista la liberazione nazionale come elemento separato dalla dittatura proletaria e dalla solidarietà di lotta del proletariato internazionale per il comunismo. Significa, invece, tracciare una netta barriera di classe tra le forze rivoluzionarie e le forze nazional-borghesi, tale che non ammetta alcun fronte unico e alcuna alleanza. Ciò richiederà la definizione di una tattica di lotta rivendicativa e lotta politica, di cui non pretendiamo avere la ricetta pronta. Siamo però in grado - forti della esperienza e della elaborazione e dibattito su cinquant'anni di controrivoluzione - di indicare le linee generali.
Dunque, sostegno alle lotte nazionali da parte dei comunisti nelle cittadelle imperialiste? No. Solidarietà invece con le lotte degli oppressi contro la dominazione imperialista, e lotta quindi contro la propria borghesia imperialista sino al boicottaggio delle sue operazioni economiche e militari nei paesi dominati.
Con ciò si liquida ogni sciovinismo (pericolo latente nei paesi dominanti) e si determina il terreno della reale unità di lavoro dei comunisti in tutti i paesi, e della reale solidarietà proletaria internazionale.
Un terreno sul quale si renda possibile la ripresa del programma comunista nel mondo, e sul quale si può e si deve vincere lo smarrimento, lo scoramento e il riflusso delle migliaia di militanti di un tempo. Con il ritorno alla classe, ai suoi problemi, alle sue prospettive: su tutte le questioni.
La questione nazionale e coloniale
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