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Contro la riforma Gelmini e contro il capitalismo! Per un’altra scuola, per un altro mondo!
Documento distribuito nelle mobilitazioni studentesche dell’autunno 2008
In ogni società divisa in classi, la classe dominante ha sempre negato a quelle sottomesse e sfruttate il diritto all’istruzione e, quando lo ha concesso, lo ha fatto soltanto perché ciò corrispondeva ai suoi interessi…
Negli anni ’60, quando la crescita della grande industria e dei consumi di massa l’hanno reso necessario, l’accesso all’istruzione è stato facilitato e la scuola pubblica aperta anche ai figli dei lavoratori (scuola media unificata, liberalizzazione degli accessi universitari, presalario, basse tasse scolastiche ecc.). Naturalmente, il sistema capitalistico ha adottato questi indirizzi di politica scolastica anche sospinto dalle lotte espresse dalla classe operaia e dai ampi settori ribelli della piccola borghesia. Tuttavia, mantenuti - a volte a fatica - da sindacati e forze varie di sinistra dentro i limiti delle compatibilità del capitale, tali fermenti sociali sono stati piegati alla modernizzazione, per così dire, della macchina amministrativa e statale borghese. Successivamente, l’introduzione della microelettronica nei processi produttivi ha fatto sì che mansioni prima complesse e specialistiche potessero essere svolte da chiunque avesse appena un po' di scolarizzazione. In conseguenza di ciò, la scuola di massa per la borghesia è divenuta sorpassata, inutilmente costosa: da qui il suo progressivo svuotamento.
Le “riforme” Berlinguer, Moratti e Fioroni sono state le tappe principali di questo processo, portato a compimento dalla “riforma” - o manutenzione! - Gelmini. In sintesi, la “manutenzione” berlusconiana prende atto che una scuola con scarse strutture e poco personale (docente e non docente) mal pagato è più che sufficiente per insegnare un po’ di inglese, matematica e italiano: questo è il dettato non di esperti pedagogisti né della ministra, ma di Tremonti. Costretto dall’incalzare della crisi economica a tagliare le “spese improduttive”, ha ridotto quelle per la pubblica istruzione di 8 miliardi di euro. Ha così recuperato risorse da destinare alle banche, alle aziende (tra cui le scuole private) per ridurre ancor più la scuola pubblica a una semplice appendice del sistema delle imprese (le Fondazioni...).
Il grembiule, il 5 in condotta, la maestra unica, l’incremento abnorme del numero degli alunni per classe, lo stravolgimento - in peggio, ovviamente - del sistema scolastico, il taglio di circa 200.000 posti di lavoro in pochi anni mirano a fare di quel che resta della scuola pubblica una palestra per preparare i giovani proletari all’ingresso in un mondo del lavoro fatto di supersfruttamento, precarietà, basso salario e la più totale subordinazione degli uomini alle macchine. Allo stesso tempo, costringono ancor più il personale a piegarsi a un'organizzazione del lavoro di tipo aziendalistico. Una scuola fatta per soddisfare le esigenze di un capitalismo in profonda crisi che per sopravvivere ha bisogno soprattutto di forza-lavoro dequalificata e a basso costo e di non disperdere neppure una briciola della ricchezza prodotta in spese ormai superflue come quelle per l’istruzione di massa.
Lottare contro questa riforma, per una scuola finalizzata a offrire pari opportunità di formazione a tutti, è un preciso dovere di tutti gli studenti e giovani proletari così come degli insegnanti e di tutti i lavoratori che, in virtù della stessa logica per cui si smantella la scuola pubblica, sono sottoposti a un feroce attacco alle loro condizioni di vita: i licenziamenti di massa, la riduzione dei salari e degli stipendi.
Le mobilitazioni dal basso di docenti, non docenti, genitori, studenti, cominciate al di fuori delle pratiche sindacali, siano esse concertative - che hanno assecondato il processo in corso - o sedicenti “di base”, sono un segnale importante, un primo passo nella giusta direzione. Se mai riusciremo a contrastare l'attacco, bisogna necessariamente sviluppare queste forme di lotta, le uniche con qualche seria prospettiva. Allo stesso tempo, occorre guardarsi dai falsi amici, cioè da quelli che, appartenenti/sostenitori di questo o a quest'altro schieramento parlamentare (dall'estrema destra fascista ai giovani politicanti del PD), spargono confusione e squallido qualunquismo con la scusa della cosiddetta antipolitica, per rendere inoffensiva la protesta e disinnescarne le potenzialità.
Contro la legge 133, per estendere la lotta!
Il mondo universitario è in subbuglio. Finalmente! - diciamo - dopo tanti anni di torpore e tante riforme che ne hanno progressivamente accentuato il carattere classista. Le proteste, in forme diverse, si stanno moltiplicando in tutta la penisola. Mentre il governo si sforza di ostentare sicurezza, dietro la facciata si intravede chiaramente l’agitazione per una situazione che può sfuggire di mano. Se Sacconi, in una uscita a effetto boomerang ha parlato di pochi “presuntuosi”, Berlusconi ha dichiarato che le occupazioni “sono una violenza” e che avrebbe “convocato Maroni per dargli indicazioni su come devono intervenire le forze dell'ordine”. E mentre tutti possiamo prepararci alle italiche piazze Tienanmen prossime venture, gli studenti milanesi, che tentavano di occupare la stazione Cadorna, hanno già preso le prime manganellate. La violenza, quella vera, è venuta finora solo dalle forze dell’ordine.
Le proteste sono dirette principalmente contro la “Legge 133”, un calderone in cui sono confluiti parecchi provvedimenti eterogenei, accomunati da una matrice fortemente antiproletaria e da un taglio generalizzato delle spese pubbliche, ossia del salario indiretto. Giusto per farsi una idea, la Legge 133 ha coinvolto, tra le altre, le commissioni parlamentari per tesoro e finanze, giustizia, difesa, cultura, ambiente, trasporti, lavoro. Si tratta infatti di una legge finanziaria anticipata nei tempi, approvata dalla Camera il 6 agosto e passata così abbastanza in sordina… Ciò che sta smuovendo le acque, per il momento, sono in particolare i provvedimenti che riguardano l’università.
Prima di tutto, sono previsti grossi tagli ai finanziamenti ordinari, che saliranno dai 63.5 milioni per il 2009 fino ai 455 milioni per il 2013. Si tratta di 1441.5 milioni di euro in meno in 5 anni che, tenendo conto dell’inflazione e degli ulteriori tagli già introdotti quest’autunno, porteranno ad una riduzione di circa il 30% del finanziamento fondamentale. Un vero e proprio salasso di risorse per una università che già annaspa tra carenze di personale, aule e laboratori.
Un altro punto fondamentale della riforma è la trasformazione delle università in fondazioni di diritto privato, che le aprirebbe ancor più ai finanziamenti privati, asservendole più direttamente agli interessi delle aziende e dei capitali locali. Ma bisogna ricordare che la possibilità di istituire cattedre sotto le indicazioni e mediante convenzioni con le imprese era già stata aperta della legge sull’autonomia didattica e finanziaria introdotta dalla riforma Berlinguer.Alle fondazioni universitarie sarebbe consentito inoltre di decidere arbitrariamente l’entità delle tasse per gli studenti, superando il limite attuale delle tasse d’iscrizione al 20% del finanziamento statale. Non ci sarebbe, quindi, più nessun tetto massimo alle tasse che si possono far pagare ad uno studente, escludendo completamente le fasce proletarie dall’istruzione universitaria.
La Legge 133 impone poi una drastica riduzione del personale delle università, obbligandole a massicci pensionamenti e licenziamenti. A fronte delle espulsioni di personale, viene fissato un limite per il turnover al 20%, che significa che non ci può essere più di una nuova assunzione per ogni cinque espulsioni. E alla lunga questo non potrà avere altro risultato che la cancellazione di molti insegnamenti e interi corsi di laurea, in particolare quelli di minor interesse per l’università e per le aziende sponsor. Per i lavoratori dell’università, questo significherà ancor più precarietà, anzi la condanna alla precarietà perenne, subordinata peraltro al reperimento di finanziamenti privati e quindi alle esigenze della struttura produttiva. La “ricerca” al completo servizio del capitale non sarà quindi nient’altro che ricerca di maggiore produttività, aumento dei ritmi, instabilità dei rapporti di lavoro e minore qualificazione.
A questo proposito, bisogna chiarire la reale funzione dell’istruzione e dell’università nell’attuale società capitalistica, classista, fondata unicamente sullo sfruttamento del lavoro salariato. Bisogna aver chiaro che al capitale, dell’auspicato “diritto all’istruzione e alla cultura”, in sé fondamentale per la realizzazione delle potenzialità di ciascun individuo, non interessa assolutamente niente. La verità è che i padroni vogliono lavoratori il più possibile ignoranti e asserviti, genericamente addestrati nelle scuole superiori o, quando serve, nelle università. Vogliono lavoratori pronti soprattutto ad accettare flessibilità, precarietà e sottomissione al loro dominio. D’altra parte, proprio la ricerca universitaria viene utilizzata per fornire alle imprese quelle “nuove tecnologie” che permettono di servirsi di forza lavoro sempre meno qualificata.
Il movimento universitario dovrà presto scegliere da quale parte della barricata porsi. Difendere l’università pubblica come ingranaggio fondamentale del “sistema paese” e la ricerca come strumento di “competitività internazionale” significa schierarsi a difesa degli stessi interessi che sottostanno alla Legge 133, figlia della crisi complessiva del capitalismo e del tutto in linea con le riforme adottate in passato dai governi di destra come da quelli di sinistra. Un movimento, che voglia davvero esprimere netta opposizione alle nuove riforme, dovrà necessariamente prendere le distanze dai vari rettori e baroni universitari che, se sono scesi in campo, lo hanno fatto unicamente per difendere i loro privilegi e le loro rendite. Non è un caso che si siano limitati a chiedere solo lo stralcio del capitolo università dalla Legge 133, che invece include attacchi generalizzati al mondo del lavoro dipendente.
Il movimento si troverà quindi presto a dover risolvere le sue ambiguità e dovrà scegliere se schierarsi a difesa dell’ordine capitalistico - e quindi accettare nella sostanza le riforme in atto - oppure opporsi ad esso, cercando l’unione con l’unico fronte possibile di reale antagonismo al sistema attuale, ossia quello di tutti i proletari, sul cui sfruttamento sempre più intenso il sistema si regge. In particolare occorrerà superare gli interessi corporativi, la sudditanza ideologica e le vere e proprie connivenze con il capitale presenti anche in quelle che possono essere considerate le frange più qualificate del proletariato e piccola borghesia in via di proletarizzazione, in cui ricadono un certo numero di lavoratori universitari, soprattutto precari.
Salutiamo quindi con soddisfazione ed entusiasmo questo movimento di protesta contro una riforma profondamente anti-proletaria, schierandoci con tutti quegli studenti e quei lavoratori dell’università che intendono lottare contro la Legge 133 e contro gli interessi capitalistici che la sottendono, a fianco degli altri dipendenti pubblici e di tutti i lavoratori salariati oggetto dell’attacco concertato di padroni e governo. Per avere possibilità di successo, il movimento che sta crescendo un po’ in tutta Italia deve evitare prima di tutto la trappola dell’auto-referenzialità. Seguendo l’esempio delle lotte francesi contro il CPE, bisogna tentare di uscire dalle scuole e dalle università. I tagli all'istruzione, infatti, sono un altro prodotto di quello stesso capitalismo in crisi che attacca i salari e le condizioni di vita del proletariato. Ovviamente, solo l'intervento attivo del partito rivoluzionario può spostare il movimento dal terreno genericamente democraticistico e confuso in cui si trova ora, a quello coerentemente anticapitalistico; nei limiti delle nostre forze, a questo noi lavoriamo.
Lottare contro la Legge 133 deve essere un primo passo per una lotta al capitalismo che ne è alla base, nel tentativo di unificare le lotte dei proletari, cui vengono imposti contratti sempre peggiori, a quelle dei loro figli, che hanno sempre meno possibilità di studio e che hanno di fronte un futuro di precarietà e disoccupazione. Lottiamo per il sapere veramente libero, che potrà esistere solo in una società di uomini liberi, in una società orientata al soddisfacimento dei bisogni umani e non all’accumulazione del capitale.
La spontaneità giovanile e il partito rivoluzionario
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