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Genova, luglio 1960. Tambroni, democristiano “di sinistra”, costituisce un governo monocolore con l'appoggio esterno del neofascista MSI. La tensione nel paese sale ed esplode nei primi giorni di luglio, a Genova, dove il MSI aveva deciso di tenere il congresso nazionale. Da Genova la protesta, sfuggita dalle mani dei partiti di sinistra, si diffonde in tutta la penisola e le forze dell'ordine borghese sparano sulle folle, facendo numerose vittime. Una vera e propria strage è compiuta a Reggio Emilia, il 7 luglio, dove la polizia uccide cinque dimostranti, tutti iscritti al PCI, tre dei quali molto giovani. A questi si devono aggiungere i quattro morti di Palermo, e gli altri assassinati a Licata e a Catania; senza contare i feriti e gli arrestati.
I giovani di fronte ad una svolta della storia
In certe situazioni il problema non è quello di incitare le masse all'azione ma l'altro assai più importante e impegnativo di dare un nome e un obiettivo di classe alla spontaneità della loro azione di piazza
Da Battaglia comunista n. 7/8, luglio agosto 1960
La cronistoria degli avvenimenti, che hanno avuto il loro momento culmine negli scontri di piazza De Ferrari, mette in evidenza più che la natura degli avvenimenti stessi, certi fattori nuovi e potenzialmente interessanti, anche se non sempre evidenti nei resoconti della stampa d'informazione e della stessa stampa dei partiti più direttamente interessati allo svolgimento drammatico della crisi italiana accesasi in connessione con gli avvenimenti di Genova.
Certo è che la massiccia mobilitazione delle masse per impedire il congresso del M.S.I. ha preparato più o meno inconsciamente la scena nella quale ad un certo momento del suo sviluppo si sono inseriti, protagonisti audaci, gruppi di giovani che mossi inizialmente con le forze del generico antifascismo e per obiettivi quali erano ampliamente orchestrati dal risorto fronte della Resistenza, in breve hanno operato nel clima della lotta di piazza, reso incandescente al di là dei limiti solidalmente tracciati dell'interesse immediato della lotta parlamentare.
E' avvenuto che su l'onda della resistenza antifascista suscitata ancora una volta dal P.C.I. che ha saputo come sempre mettere in moto partiti e raggruppamenti della "Resistenza", si siano mosse improvvisamente e inaspettatamente forze nuove di giovanissimi, mosse spontaneamente, una sorta di valanga scesa da non si sa dove, che non ha un nome, una disciplina, un programma; scavalca il fragile, inconsistente schema dell'antifascismo e fa urto contro le forze schierate a difesa del potere dello Stato. Questi arditi nuclei di combattimento ad un certo momento della lotta hanno preso la mano ai politicanti, ai capi dei partiti parlamentari e dei sindacati pronti ad imporre la loro iniziativa come se obbedissero ad una parola d'ordine del tutto inesistente e che nessuno aveva dato, così a Genova, così a Reggio, così a Catania, a Licata.
E' proprio a questo punto drammatico del conflitto di strada che i capi dei partiti parlamentari e dei sindacati hanno avuto la netta sensazione d'essere scavalcati in una azione che andava oltre i limiti che si erano prefissi, oltre i loro obiettivi, oltre cioè la legalità repubblicana ed hanno manovrato facendo argine col peso massiccio delle forze che ancora controllavano e sono riusciti a spuntare, a rendere inoperante l'azione di rivolta dei giovanissimi, la quale ha finito per infrangersi contro il muro delle forze politiche della Resistenza, apparso in questo caso assai più saldo e consistente della polizia e delle forze armate della Repubblica. Sotto questo profilo, e non sotto quello banalissimo, falso e frusto della Resistenza, gli avvenimenti presi in esame sono di enorme importanza per la lezione che ne scaturisce sul piano della strategia rivoluzionaria.
Indubbiamente vi ha operato in gran parte l'imponderabile, come del resto avviene in tutte le azioni di massa, e come sempre nella storia del movimento operaio la spontaneità non ha trovato nella sua spinta in avanti chi sapesse valutarne l'importanza e soprattutto l'urgenza di caratterizzarla, di darle un nome e un obiettivo.
E' un fatto che gli stessi gruppi d'avanguardia che si erano inseriti nell'azione di massa, sono apparsi essi stessi sorpresi e impreparati a "convogliare" e "razionalizzare" l'istintiva e disordinata massa d'urto. E peggio ancora hanno evitato di dare un volto di classe e un contenuto rivoluzionario all'azione condotta da queste forze nuove che si erano volontariamente sottratte alla guida e al controllo degli stalinisti. E soprattutto è inqualificabile l'astuzia tattica adottata di non mostrarsi nella lotta per quello che essi erano o ritenevano di essere, preoccupati di non rompere, con una netta caratterizzazione politica, una intesa nata dall'azione e per l'azione.
Ma l'azione per l'azione, come la violenza per la violenza, non perviene alla coscienza di sé e del proprio fine; non perviene da sé sulla linea del proprio moto, sotto l'impulso della spontaneità, a spingere l'irrazionale sul piano della razionalità rivoluzionaria se ad essa mancano una mente, una ideologia, quadri dirigenti e responsabili fortemente ancorati nelle masse, il tutto teso nell'azione, con una chiara, dinamica, irriducibile coscienza del fine da perseguire, delle sue reali possibilità e dei suoi limiti obiettivi. Tutto questo è mancato negli avvenimenti di luglio; tutto questo è mancato nel suo settore più avanzato e significativo, quello di Genova.
Ancora una volta le masse sono andate più innanzi della loro avanguardia; ancora una volta si è avuta la tragica dimostrazione della carenza di una guida rivoluzionaria e della evidente e indilazionabile necessità della sua costruzione.
Non diciamo che la presenza di questa forza d'importanza fondamentale, che è poi il partito rivoluzionario, avrebbe potuto determinare un corso diverso agli avvenimenti in esame e aprire nella situazione italiana la fase storica della svolta rivoluzionaria per il socialismo, diciamo soltanto che finalmente dei nuclei di avanguardia rivoluzionaria avrebbero potuto dare un'impronta e una direttiva di classe ad una azione di massa sfuggita al controllo dei partiti dell'opposizione e del tradimento. Ciò che non è avvenuto, anzi l'arresto imposto all'azione in nome della legalità repubblicana ha creato la psicologia dello scoraggiamento, della sfiducia e della sconfitta propri del deflusso che segue l'ondata. E di sconfitta si deve parlare quando l'azione eroica delle masse è servita non a scongiurare il pericolo fascista che non esisteva, ma unicamente a portare a compimento una infame e sciagurata manovra parlamentare.
Chi non ha denunciato tutto ciò, chi non l'ha detto apertamente nel momento dell'azione, se ne è reso involontariamente complice. E ciò non sarebbe avvenuto se i gruppi d'avanguardia avessero operato nella disciplina di un partito. Infatti non sono mancati coloro che "volutamente" sono rimasti estranei alla lotta di piazza per schifo ideologico e coloro che, pur di menar le mani in nome dell'antifascismo, hanno finito per favorire il tristo gioco del più idiota parlamentarismo. Due atteggiamenti in ogni caso ugualmente deprecabili perché non coincidenti con l'interesse della lotta rivoluzionaria.
E siamo così al problema centrale della situazione italiana e del proletariato italiano, il partito rivoluzionario. Non si costruisce, d'accordo, da un giorno all'altro, ma va ogni giorno costruito. L'imperativo del momento è di porre mano a questa difficile e immane opera della sua costruzione. La storia del movimento operaio di ieri e di oggi non offre a questo scopo che scarse possibilità obiettive; a queste e solo a queste è affidato il grave compito di prenderne l'iniziativa, ai comunisti internazionalisti in primo luogo, a tutti i comunisti internazionalisti senza distinzione di parte e al nucleo più avanzato e omogeneo della sinistra comunista uscita dal Pci rompendo con lo stalinismo, se dimostreranno con i fatti di aver rotto in tutto e per tutto con lo stalinismo. Sono i soli che richiamandosi alla ideologia e al programma di Livorno possono, anzi debbono affrontare la situazione nuova spezzando il diaframma di apriorismo, di particolarismo che ha messo l'un contro l'altro i gruppi dell'avanguardia rivoluzionaria e resa impossibile la loro intesa su un piano unitario di ideologia e di organizzazione rendendo inane ogni sforzo mirante alla costruzione del partito. Per parte nostra siamo pronti a raccogliere l'indicazione chiara e precisa che si ricava dagli avvenimenti di luglio e ad assumere le nostre responsabilità.
Il ruolo dei giovani e "giovanilismo" deteriore
Da Battaglia comunista n. 10, ottobre 1960
Il problema dei giovani, scaturito dalle giornate di luglio, è tuttora aperto al dibattito tanto per chi osserva il problema dall'angolo visuale della conservazione, come per chi, come noi, lo vede nell'interesse di una radicale e rivoluzionaria trasformazione del mondo dominato dal capitalismo.
Non è esagerato affermare che in molti si è fatta strada la tendenza a vedere la questione dei giovani sotto i colori del mito, il mito dell'irrompere improvviso sulla scena del conflitto sociale politico di forze nuove, giovanissime, non legate ad alcuna tradizione ideologica e politica di partito, lontane dal sentire la politica come un mestiere largamente retribuito, non tarate, insomma, dalla mira ambiziosa volta alla conquista di greppie sindacali o parlamentari.
In una parola si è voluto creare il mito di una possibile palingenesi sociale che uscirà dalla spontanea esplosione di queste energie incontaminate e incontaminabili delle giovani generazioni a cui spetterebbe il compito di plasmare su un piano superiore di vita la storia di domani.
Ed è questa esagerata valutazione soggettiva e volontaristica che finisce per spezzare le gambe a questo pur tanto atteso e salutare inserimento dei giovani nelle lotte soprattutto quando esse scatenano un'alta tensione del conflitto di classe.
Chi dopo gli avvenimenti di luglio è montato sulle ali della fantasia con la pretesa di scoprire nuovi orizzonti alla strategia rivoluzionaria e alla tecnica del colpo di stato, ha finito per ritenere autosufficiente l'apporto dei giovani all'azione rivoluzionaria; ha attribuito loro un ruolo storico determinante, ruolo che sfuggirebbe alla prassi marxista, non più misurabile quindi col metro con cui il marxismo suole misurare l'ascesa del proletariato, come classe rivoluzionaria, e con esso lo strumento del partito, il solo che abbia accumulato nella sua lunga e tormentata esperienza, dottrina di classe, chiara visione del fine e quadri preparati al potenziamento e alla guida delle grandi masse.
La tradizionale strutturazione del partito, il modo di sentire la lotta operaia e soprattutto il modo di organizzarla hanno fatto il loro tempo, dicono gli scontenti per sistema, gli attivisti sempre pronti a vedere possibilità rivoluzionarie in ogni angolo di strada, gli insicuri e gli incostanti sempre alla ricerca di strumenti nuovi per poi finire nell'avventurismo.
Non manca al quadro l'ultima pennellata di colore, lo spontaneismo operastico tipo francese, sempre risorgente nelle fasi di ristagno della lotta operaia, che i rivoluzionari si trovano immancabilmente tra i piedi, rnolesto e improduttivo e che è destinato a scomparire risucchiato dal proletariato nel vortice del suo attacco frontale contro il capitalismo.
Dall'esperienza recente avutasi su scala internazionale questi compagni traggono la convinzione che la rivoluzione possa e debba camminare per la spinta che le proviene dall'intervento drammatico nella lotta, quale che essa sia, quali ne siano i moventi e quali i possibili obiettivi, degli studenti e dei giovani operai ma non dice alcunché al loro esame critico la elementare constatazione che l'azione per l'azione, non sorretta cioè da una ideologia, da una chiara e salda coscienza del fine e soprattutto non coincidente con i motivi storici della sola classe rivoluzionaria, questa azione anche se violenta e spinta sul piano insurrezionale finisce per essere imbrigliata dalle forze opportuniste e condotta verso obiettivi opposti a quelli per i quali questi giovani intendevano combattere fino al sacrificio della loro vita. Ed è tutto questo che oggi passa sotto l'etichetta di un pessimo neologismo, "il giovanilismo".
Eccone un saggio che togliamo dal ciclostilato redatto da alcuni compagni francesi di "Pouvoir Ouvrier" [Potere Operaio, ndr]: "Vi è oggi una larga frazione di giovani studenti pronti a battersi, vi sono anche dei giovani lavoratori. E' necessario che essi si battano insieme. E' necessario che essi si ritrovino, decidano insieme, alla base, forme di organizzazione, forme d'azione comune. A questo scopo, non è necessario attendere gli ordini da alcuno. E' sufficiente che un gruppo di studenti o un gruppo di giovani lavoratori sia d'accordo per farlo. E' necessario rompere con l'abitudine di attendere ciò che diranno i dirigenti e di battersi in ordine sparso… Nello scorso mese di luglio, in Italia, gli studenti e i lavoratori di Genova non volevano che i fascisti si riunissero nella loro città: essi sono discesi nella strada e vi sono rimasti fino a che i fascisti non sono rientrati nelle loro case".
Evidentemente i compagni di "Pouvoir Ouvrier" nell'analizzare questi avvenimenti non vanno oltre la banale osservazione dell'azione in quanto azione e della sua spontaneità; parlano della necessità di una intesa tra studenti e giovani operai i quali dovrebbero battersi in azioni locali e in ordine sparso come se si trattasse di una piacevole partita di caccia e non della più difficile, della più complessa e della più terribile lotta rivoluzionaria che le forze politiche del proletariato devono prepararsi a sferrare contro quelle immense del capitalismo mondiale.
Non hanno capito, questi compagni, la lezione che gli avvenimenti di luglio hanno impartito a tutti coloro che la dura politica di classe vogliono ridurre a semplice e personale dilettantismo "novatore". I fatti di Genova hanno soprattutto ammonito a non rompere il filo rosso della continuità rivoluzionaria che va dalla Comune di Parigi alla Rivoluzione russa del 1905 e del 1917, nella quale il proletariato appare come il nuovo protagonista della storia, e con il proletariato il suo partito, artefice di questa immane lotta di liberazione.
Non quindi "giovanilismo" nel senso politicamente deteriore, ma giovani (siano essi studenti, legati alla causa del socialismo o giovani lavoratori, legati agli interessi fondamentali della loro classe), ma giovani forze inserite nel moto della classe come la sua parte migliore per prontezza, generosità e sacrificio.
Questo è l'insegnamento che ci proviene dalla storia, confermato dai recenti avvenimenti. Non diverso è l'insegnamento di Lenin che certi compagni hanno troppo presto dimenticato.
Bisogna abituare i giovani a guardare il partito come all'insostituibile strumento della dittatura di classe, la sola capace di vincere il concentramento di potenza dei nemici interni ed esterni coalizzati contro la rivoluzione socialista.
La spontaneità giovanile e il partito rivoluzionario
I fermenti di piazza dal 1960 al 2008
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