Tutti sulla stessa barca?

Il tonfo delle borse europee

Forse il giovedì non porta bene ai “mercati”. Era un giovedì d’ottobre del 1929, quando la borsa di New York chiuse la seduta con la prima di una lunga serie di cadute che aprirono la crisi più grave - finora - del capitalismo. Sempre di giovedì, il 4 febbraio scorso, le borse del vecchio continente hanno registrato un tonfo tale da far dubitare fortemente sulla consistenza effettiva della tanto decantata ripresa economica. In particolare, la borsa di Madrid ha perso il 6% circa, ma le altre piazze finanziarie europee se la sono passata solo un po’ meno peggio. In quella giornata sono stati bruciati 150 miliardi di euro e benché una parte, se non la gran parte di quella montagna di soldi rappresenti denaro “virtuale”, cioè abbia a che vedere più con la speculazione che con l’economia reale, tuttavia, a causa del peso schiacciante che il parassitismo finanziario esercita sulla produzione materiale di merci, le conseguenze per milioni di persone saranno pesanti.

In ogni caso, la bufera che ha investito le borse europee (e non solo) testimonia, se mai ce ne fosse bisogno, che i meccanismi all’origine della bolla speculativa scoppiata nel 2007 sono vivi e vegeti, essendo parte costitutiva del processo di accumulazione (per molti aspetti fittizia) del capitale degli ultimi decenni. In sintesi, poiché il plusvalore estorto alla classe operaia (il risultato dello sfruttamento), per quanto elevato non dà profitti adeguati agli investimenti necessari per mandare avanti i processi produttivi, sempre più frequentemente i capitali si sono diretti verso la speculazione finanziaria, illudendo e illudendosi che il denaro possa creare magicamente più denaro saltando il processo della produzione di merci.

Alla lunga, però, la “magia” svanisce: è successo coi subprime statunitensi, è successo ora con quei paesi che solo due/tre anni fa erano portati ad esempio delle performance straordinarie di cui sarebbe capace il neoliberismo e ora chiamati con disprezzo PIGS ossia maiali: Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna (ma c’è chi vi aggiunge una “I” in più, PIIGS, per l’Italia). Infatti, la “straordinaria” crescita delle economie di quei paesi era fondata, per lo più, su attività speculativo-finanziarie, sui servizi e sul debito, non sulla produzione di plusvalore primario, e quando il giocattolo speculativo ha cominciato a rompersi negli USA, quelle economie hanno mostrato la fuffa di cui erano in gran parte fatte. La Spagna, in cui la “locomotiva” immobiliare è miseramente deragliata, denuncia oltre quattro milioni di disoccupati e un deficit (rispetto al PIL) a due cifre (attorno al 12%). Per la Grecia, spinta per anni dal rigonfiamento del settore pubblico (fonte di clientelismo elettorale e di pace sociale), le cose non vanno meglio, anzi: a un deficit a due cifre, si aggiunge un debito pubblico che tocca il 113%. Numeri ben lontani da quelli fissati a Maastricht, la cui improvvisa (?) emersione avrebbe spaventato “i mercati” che, fuggendo a gambe levate dai titoli pubblici di Spagna e Grecia, hanno provocato il tonfo borsistico. In realtà, “i mercati” conoscevano bene la situazione: sapevano della Spagna, così come del Portogallo o della Grecia, accusata di aver truccato i dati disastrosi dei propri conti economici, per evitare una resa dei conti inevitabile.

Per quanto sia tutto vero, “i mercati” sono gli ultimi a doversi scandalizzare, visto che hanno diretto l’orchestra economica mondiale proprio sulla base della truffa e del “taroccamento”. Che cosa sono i mutui subprime o i mille “prodotti finanziari” dalla natura, non a caso, pressoché impenetrabile, se non un gigantesco “pacco” tirato alle tasche di milioni e milioni di piccoli risparmiatori o di proletari senza il becco di un quattrino? E non sono sempre “i mercati” - le grandi banche d’affari, i fondi pensione, ecc. - a speculare sulla differenza tra il rendimento offerto dai titoli pubblici dei paesi “a rischio”, come la Spagna e la Grecia, e quello della Germania, decisamente più basso, che costituisce il punto di riferimento per misurare la salute economica dei paesi membri dell’UE?

Il meccanismo illustrato dallo stesso Trichet, capo della banca centrale europea, è molto semplice: “i mercati” prendono in prestito dalla FED (banca centrale USA) capitale a tasso praticamente zero e lo investono nei titoli spagnoli, che offrono un interesse più alto di quelli tedeschi, espressione di un’economia ben più robusta. Ai primi segnali di incertezza economica, “i mercati” si spostano verso altri lidi, provocando, per sovrappiù, un indebolimento della moneta, nello specifico l’euro, rispetto al dollaro.

Nei casi più gravi, giochetti simili hanno portato al fallimento o quasi interi stati e le loro monete. Ma questo, almeno per ora, non dovrebbe riguardare i PIGS, né tanto meno l’euro, garantiti dall’UE, purché, però, i conti pubblici tornino in ordine così che i famelici “mercati” possano tornare a investire, rassicurati. Rassicurati da cosa? Dal fatto che i titoli in loro possesso siano regolarmente e adeguatamente remunerati col sudore, le lacrime e persino il sangue del proletariato.

Se la Spagna, il Portogallo o la Grecia non dichiareranno fallimento (default) come un tempo l’Argentina, il proletariato, la povera gente di quei paesi sono però chiamati - come in Argentina - a fare i “necessari” sacrifici per rianimare l’economia. Il processo è sempre lo stesso: i governi, fedeli esecutori dei loro mandanti (“i mercati”, appunto) battono la strada dei tagli ai salari e ai servizi sociali, dell’aumento dell’età pensionabile e dei prezzi, della precarizzazione della forza lavoro, per tenere a galla quella che, con spudorata faccia tosta, continuano a chiamare “la stessa barca”; una barca, però, dove c’è chi non fa altro che remare a benefico esclusivo di chi si gode, ozioso, l'abbronzatura.

CB

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.