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Home ›Le sconfitte del riformismo di Obama
A proposito del discorso all’Unione
Il presunto riformismo borghese, soprattutto quello che si presenta come la migliore soluzione di tutti i problemi, quelli proletari compresi, che si presenta in buona fede, si fa per dire, armato delle migliori intenzioni, è pur sempre un esercizio politico-economico che si svolge all’interno del sistema capitalistico per migliorare il rapporto tra capitale e lavoro, se le cose vanno già bene, per risollevarlo se i suoi fondamentali sono attraversati dalle devastanti conseguenze di una crisi economica, sempre più a favore del capitale e sempre meno a difesa dei salari. Il secondo caso, che è quello di Obama, ha come spazio operativo ciò che va dalle necessarie misure per rimettere in sesto il settore finanziario-economico, al tentativo di rassicurare capitale e forza lavoro che i tempi e le misure, pur drastiche, saranno brevi ed efficaci. Come dire: la crisi c’è, bisogna affrontarla al meglio, sia per le questioni interne che per quelle internazionali, e poi ci sarà pace e prosperità per tutti.
In campagna elettorale il riformismo di Obama è stato propagandisticamente usato come un taumaturgico esorcismo che avrebbe cancellato le nefandezze dell’amministrazione repubblicana riaprendo all’imperialismo americano, perché di questo si tratta, nuovi e più chiari orizzonti che gli otto anni precedenti avevano offuscato e messo in crisi, pur con tutti i limiti e i problemi che la situazione di crisi impone. I contenuti spaziavano dal solenne pronunciamento che gli Usa non avrebbero mai più agito unilateralmente ma in concerto con gli alleati, che le guerre in atto avrebbero visto la fine entro pochi mesi, che Guantanamo, la vergogna delle torture, sarebbe stata immediatamente chiusa, fino a quello che, in termini di politica interna, avrebbe assicurato la copertura sanitaria per 52 milioni di americani e che avrebbe varato un piano di sviluppo economico con nuovi posti di lavoro per imboccare al più presto la strada della piena occupazione.
Nell’enfasi retorica si è dimenticato di valutare appieno un semplice assunto, che il riformismo borghese o è funzionale agli interessi del piccolo e del grande capitale, oppure non ha spazio né opzioni di agibilità.
A un anno esatto dal suo insediamento la crudezza degli eventi lo sta portando alla realtà. Sulla questione dell’unilateralismo in campo internazionale c’è ben poco da dire. La precaria situazione dell’economia americana, la caduta del dollaro, gli insuccessi politici in Asia centrale, l’impossibilità di dare soluzione alle due guerre in atto, hanno consigliato, se non imposto, un profilo più basso alla nuova amministrazione. Di non secondaria importanza il fatto che le due guerre costano 14 milioni di dollari al mese, che solo per l’Iraq sono stati spesi 1500 miliardi dal 2003, che altri soldi vengano ingoiati per sostenere in Afghanistan il governo di Kabul, all’interno, oltretutto, di un quadro economico-finanziario domestico catastrofico. Guantanamo è ancora lì. Chiuderlo significherebbe scontrarsi con uno dei “poteri forti” americani, quello dell’esercito e del suo indotto produttivo. Occorrerebbe intentare un processo non a quattro insignificanti caporali carcerieri, ma ai quadri alti dell’esercito, del ministero della difesa, a Cheney come al vecchio presidente che, di questo scandalo, è stato il primo proponente e coerente interprete, con la solita manovalanza della Cia. Per il ritiro dall’Iraq e dall’Afghanistan le cose non sembrano andare in maniera diversa. Nel primo caso Obama si è allineato alle precedenti dichiarazioni di Bush: ce ne andremo nel 2010 lasciando un contingente di quarantamila uomini sino al 2011, poi si vedrà. Nel secondo ha addirittura aumentato il contingente militare di 36 mila soldati e stanziato un aumento del budget bellico di oltre 100 milioni di dollari. Forse nelle sue intenzioni c’era la possibilità di chiudere in Iraq per impegnarsi maggiormente sull’asse Turchia-Pakistan-Afghanistan per rientrare, con vari oleodotti e gasdotti tra cui il Nabucco, nel grande gioco delle riserve energetiche asiatiche, in chiave anti-Russia e anti-Cina, ma per il momento la lobby militare lo ha fermato. E a proposito dei “poteri forti”, quelli che in tutti i paesi capitalistici fanno e dettano le linee guida in termini di politica interna ed estera, va verificato come il mondo finanziario e quello imprenditoriale abbiamo messo una serie invalicabile di paletti ai tentativi di realizzazione di alcune riforme. Lo “scontro” più consistente si sta avendo sulla riforma sanitaria. Obama aveva promesso di dare copertura a quei 52 milioni di americani che ne sono privi, togliendo il monopolio della sanità alle grandi assicurazioni che di questo business fanno il ricco piedistallo del loro potere, con la prospettiva di creare degli istituti di Stato che le sostituissero, con polizze meno costose e senza gravare sul bilancio federale, perché le spese sarebbero coperte dalla tassazione degli extraprofitti delle banche e delle compagnie petrolifere. Il risultato è che le lobby assicurative hanno inscenato una campagna senza precedenti contro il progetto di riforma. Persino alcuni deputati e senatori democratici, legati al mondo della finanza, hanno remato contro. Obama è stato costretto a ridimensionare il programma: la copertura, sempre ammesso che la riforma vada in porto, non sarà più per 52 milioni di bisognosi, ma solo per una trentina di essi. Le assicurazioni faranno parte del progetto e la copertura sarà minima, quasi insignificante. Dalla riforma del secolo, se tutto va bene, si arriverà a rimodellare una vecchia facciata con la classica “mano di bianco”.
Sul fronte occupazionale le cose vanno ancora peggio. Nella presentazione del piano si parla di cancellare, nel tempo più breve possibile, la piaga della disoccupazione quale infamia sociale che gli Stati Uniti non possono verbalmente sopportare. Sono stati stanziati 33 miliardi di dollari per le piccole e medie imprese che assumono nuova mano d’opera. Il progetto viene fatto passare come lo strumento anti-disoccupazione, una sorta di volano per la ripresa economica, partendo dal rafforzamento della domanda. Innanzi tutto va detto che i soldi, ancora una volta, non vanno ai lavoratori, sotto forma di sussidi alla disoccupazione o di ammortizzatori sociali, di cui negli Usa non se ne parla neanche. Lo stanziamento si configura soltanto come un aiuto statale alle imprese perché non chiudano, o si riprendano dalla grave situazione in cui la crisi le ha gettate. Che si giochi solo ed esclusivamente a favore del capitale e contro la forza lavoro, alla faccia dell’occupazione, lo si nota dando un occhio alle ultime statistiche emesse dagli stessi organismi statali. Nell’ultimo trimestre del 2009 il Pil, al di là delle più ottimistiche previsioni, è cresciuto del 6,2%, mentre l’occupazione, invece di aumentare di conseguenza, è ulteriormente diminuita. Alla stessa data i disoccupati sono aumentati a 12 milioni, (due milioni nell’ultimo anno) cifra errata per difetto, sia per il tipo di calcolo, sia perché molti ex lavoratori, persa ogni speranza, non si iscrivono più nemmeno alle liste di collocamento. In altri termini, il numero dei disoccupati è arrivato vicino ai 17 milioni, se non oltre. Le conclusioni che si traggono sono che il processo di ripresa, ammesso che sia reale e che duri, finanziato dallo Stato (l’ultima notizia è che il presidente ha spostato il limite del debito pubblico a oltre 14 mila miliardi di dollari, dagli attuali 1900, pur di inventarsi fondi da destinare alla ripresa) , finirà per incrementare tutte le possibili forme di sfruttamento, dall’intensificazione dei ritmi lavoro, dalla riduzione dei salari all’allungamento dell’orario di lavoro, all’introduzione di nuove tecnologie che occuperanno sempre meno mano d’opera e con una occupazione che al massimo salirà di poco ma non raggiungerà i livelli pre-crisi, con buona pace per l’acclamato piano contro la disoccupazione.
Questo è il vero e unico volto del riformismo. Le leggi del capitale non prevedono deroghe, nemmeno da parte del capo dell’esecutivo che, al di là della propaganda, è ingabbiato dalle necessità di un capitalismo in crisi, pressato dei gruppi di potere, che lì lo hanno messo perché assolva alle loro esigenze senza indulgere più di tanto sul terreno del populismo, se non per portare più docilmente il gregge proletario al solito macello. Altrimenti anche per lui sarà vita dura. Dall’ultimo discorso all’Unione sembra che la lezione l’abbia imparata, sempre ammesso che non la conoscesse anche prima e che il suo riformismo populista altro non fosse che mangime elettorale per i soliti affamati ruminanti.
A chi ha creduto, proletari americani compresi, che il “pastore di anime politiche”, il reverendo nero Obama, potesse fare miracoli “socialisti” nel prato del più potente, anche se in crisi e in declino, imperialismo mondiale, si deve ricredere.
Solo la lotta di classe può dare soluzione ai problemi proletari. Non mantenendo in vita l’asfittico sistema di produzione capitalistico, non cercando di migliorarlo all’interno della forma produttiva capitalistica. Così facendo sarebbe di nuovo portatore di crisi, di maggiore sfruttamento, di fame e di miserie per chi lavora. L’unica soluzione è quella di abbatterlo definitivamente, perché solo dalle sue macerie può sorgere un nuovo modo di produrre e distribuire ricchezza. Una nuova società, libera dai vincoli del profitto, atta a soddisfare le esigenze di tutti e non le necessità di valorizzazione del capitale, che prima produce le crisi e poi impone le necessarie cure del suo risanamento; ma in entrambi i casi, sono sempre i proletari a pagare in termini di sfruttamento, disoccupazione, fame e miseria, se non come carne da macello per qualche guerra che tutto distrugga per tutto ricostruire, ancora una volta capitalisticamente.
FD, 2010-02-01Battaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #3
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