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Home ›La feroce contesa per la carcassa dell'Afghanistan
Il 28 gennaio si è tenuta l'attesa Conferenza di Londra, che avrebbe dovuto tracciare un percorso di pace per il martoriato Afghanistan. Alla conferenza, presieduta dal premier britannico Gordon Brown, dal presidente afghano Hamid Karzai e dal segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon, hanno preso parte delegazioni dei governi di 70 paesi.
Secondo il comunicato finale della conferenza, Kabul si impegna affinché, entro cinque anni, le forze di sicurezza afghane prendano il controllo del paese, comprese le aree oggi meno sicure. Quella che era definita “exit-strategy” è stata ridenominata come “fase di transizione”. Ma, se cambia il vocabolario della propaganda, non cambia la sostanza della situazione sul terreno, che vede le forze a guida Onu/Usa intrappolate in un vicolo cieco che non offre ad oggi alcuna possibilità pratica di vittoria militare. Il contingente internazionale si è dimostrato incapace di controllare il territorio. I rifornimenti arrivano col contagocce, principalmente attraverso il confine con il Pakistan, nell'area di Spin Boldak. Ma la dissestata strada è soggetta ai continui attacchi degli insorti. L'accordo con la Russia, per l'apertura di una via di transito a nord, non ha dato finora risultati.
La nuova strategia, in questo contesto, consisterebbe nel “conquistare i cuori e le menti” degli afghani, secondo lo slogan della nuova dottrina Petraeus. Ma è ben difficile che il popolo afghano scopra improvvisamente un tale “affetto” per quelle stesse truppe che terrorizzano e mietono vittime civili a decine e centinaia, sottoponendo le loro case, le loro scuole, al martellamento delle bombe che, oltre ad essere “intelligenti”, evidentemente ora si pretende siano anche “amichevoli”. Negli stessi minuti in in cui a Londra si apriva la conferenza, a Kabul un afghano disarmato di 36 anni veniva crivellato dal mitra di un blindato statunitense.
Al di là dei soliti “buoni propositi”, il dato politico più importante della conferenza è stata l'apertura *ai talebani*, ufficialmente invitati a partecipare al governo del paese. Karzai aveva già più volte proposto ai guerriglieri di negoziare un accordo di pace, offrendo incarichi ministeriali ai loro capi. A Londra ha presentato un milionario “piano di riconciliazione”, che con denari sonanti e posti di lavoro dovrebbe consentire il reinserimento dei talebani che deporranno le armi. In vero si tratta, vale la pena notarlo, di quegli stessi terroristi in veste clerico-fascista che governavano il paese prima del 2001, la cui ottusa oppressione su tutta la società - e sulle donne in particolare - scandalizzava gli “occidentali” e serviva a giustificare anche agli occhi di tanti “pacifisti” e “progressisti” l'intervento militare.
La risposta dei talebani non ha comunque tardato ad arrivare, sprezzante: «Ci sono state conferenze simili in passato, nessuna ha risolto i problemi dell'Afghanistan, sarà la stessa cosa per quella di Londra. La conferenza di Londra si prefigge in realtà di estendere l'invasione dell'Afghanistan da parte delle forze di occupazione, è solo una perdita di tempo, l'emirato islamico dell'Afghanistan ritiene che l'unica soluzione ai problemi dell'Afghanistan sia il ritiro immediato di tutte le truppe di occupazione.» (Comunicato del Consiglio del Comando dei talebani)
Le difficoltà del contingente internazionale, infatti, sono evidenti a tutti. Di certo non sfuggono agli esperti strateghi della guerriglia talebana, alcuni dei quali ben addestrati qualche decennio addietro con i fondi elargiti a piene mani dalla Cia all'Isi pachistano, affinché organizzassero la jihad contro le truppe sovietiche. E i talebani, che vedono possibile la vittoria, si preparano a sferrare duri colpi all'avversario; non si accontentano ormai di spazi marginali, ma pretendono di avere il controllo del paese, per via politica se possibile e con la forza militare se necessario.
A parte il fallito attentato del 3 febbraio, in cui sono rimasti feriti alcuni soldati italiani, si sono registrati negli ultimi giorni diversi attacchi diretti contro le basi militari statunitensi, anche nella capitale. Soprattutto, il 18 gennaio, proprio nel giorno in cui Karzai presentava il “nuovo” governo (e si apprestava a confermare anche tutti i ministri bocciati dal parlamento per corruzione e/o manifesta inettitudine), i talebani hanno lanciato nel centro di Kabul un feroce attacco, di una tale intensità quale non si vedeva dal 2001. Sono stati attaccati contemporaneamente il palazzo presidenziale, alcuni ministeri, la banca centrale, il palazzo delle telecomunicazioni, l'hotel Serena, un centro commerciale, un ospedale e un cinema. L'attacco coordinato ha impegnato a lungo centinaia di truppe governative e Nato, intervenute con blindati e mezzi pesanti. Secondo le dichiarazioni ufficiali, gli attentatori sarebbero stati tutti uccisi, senza tuttavia che alcuno abbia potuto vedere i loro corpi. L'attacco nella capitale non è da intendersi come un episodio isolato. Infatti fonti locali riportano di guerriglieri che continuano ad infiltrarsi armati in città, grazie al beneplacito di alcuni settori delle milizie e dell'amministrazione locale, corrotti o compiacenti.
Oltre alla corruzione del governo, i talebani godono di un profondo ed esteso radicamento nel territorio, che garantisce loro tributi e proventi del traffico di droga. Inoltre essi godono di legami a vari livelli con il Pakistan, in particolare con quell'enorme agglomerato che coinvolge vari ambienti militari e dei servizi segreti, quella sorta di stato nello stato che Arnaud De Borchgrave definisce “Paranoidistan”. In Pakistan, infatti, una larga parte della classe dirigente vede come fumo negli occhi i legami che gli Usa stanno stringendo con lo storico avversario regionale, l'India, e temono che l'eventuale laceramento degli storici legami con i talebani in Afghanistan possa ulteriormente indebolire la proiezione internazionale del paese.
La guerra continuerà, anche se gli obiettivi iniziali – la costruzione di pipeline dalla regione del Mar Caspio all'Oceano Indiano e l'insediamento di basi militari stabili nel cuore dell'Asia – appaiono più lontani che mai. Ma gli Usa, per mantenere il loro ruolo di potenza egemone a livello globale, non possono perdere l'accesso alle enormi riserve energetiche dell'Asia centrale. Rinunciare al controllo delle vie attraverso cui queste risorse energetiche potranno scorrere significherebbe rinunciare non solo alla sicurezza degli approvvigionamenti, ma anche alla posizione privilegiata di cui finora il dollaro ha potuto godere nel mercato internazionale delle monete. Il fatto di essere il principale, se non unico, strumento di negoziazione delle materie prime ha finora sostenuto il valore del dollaro, mettendolo in condizione di imporre alle altre economie mondiali una sorta di “signoraggio”.
A tutto questo gli Usa non possono rinunciare, soprattutto quando la crisi economica globale già minaccia di frantumare le fondamenta del potere a stelle e strisce a livello mondiale. Purtroppo quindi dal futuro non c'è da aspettarsi niente di buono. Continuerà la decennale sanguinosa partita tra le potenze regionali e globali per contendersi quel che rimane dell'Afghanistan. (Gino Strada ha efficacemente descritto la situazione come una riproposizione geopolitica dell'antico gioco del Buskashì, popolare in Afghanistan, in cui diversi cavalieri si contendono, tutti contro tutti, la carcassa di una capra decapitata.)
Stante il capitalismo, l'alternativa offerta ai diseredati dell'Afghanistan è tra le democratiche bombe a grappolo degli Usa e la shari'a dei talebani. Una qualsiasi prospettiva diversa non può essere costruita e nemmeno posta se la visione è limitata al livello locale, dato che il paese è completamente privo di un apparato produttivo. (L'unica previsione dell'amministrazione Bush ad essersi in buona parte realizzata - anche se in un paese diverso - è stata quella di “riportare all'età della pietra” un'intera regione del pianeta.) È necessario invece che il proletariato mondiale, a partire dai paesi a capitalismo avanzato, si riappropri del suo programma di cambiamento sociale, per l'eliminazione della proprietà privata dei mezzi di produzione, dello sfruttamento del lavoro salariato, del profitto e della guerra. Si tratta senza dubbio di una prospettiva lunga e difficile, ma è questa la sola strada per opporsi efficacemente alla guerra generalizzata, alla barbarie sociale in cui il sistema capitalistico sta trascinando l'umanità. L'unica “exit strategy” per il proletariato afghano e mondiale è quella che porta fuori dal capitalismo.
Mic, 2010-02-05Battaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #3
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