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Home ›Indagine Istat sulle imprese italiane
Secondo l’istituto nazionale di statistica crescono le dimensioni delle imprese
La condizione di crisi in cui versa il ciclo di accumulazione del capitale, della quale poniamo convenzionalmente l’inizio nel 1971 con l’inconvertibilità del dollaro, impone alla borghesia di mettere in campo ogni mezzo per opporsi alla caduta del saggio medio di profitto. La caduta tendenziale di quest’ultimo, inevitabilmente legata al capitalismo stesso, porta di per sé una tendenza all’internazionalizzazione.
Tuttavia è con la recente rivoluzione tecnologica che questa tendenza diventa compiutamente reale, un dato di fatto. In tal modo alla borghesia è possibile impiegare in ogni angolo del mondo qualunque fattore di produzione e di distribuzione, ottenendone una vitale opportunità di valorizzazione del capitale. È questa necessità dei padroni che porta a smantellare centinaia di attività produttive per trasferirle in Paesi con bassi salari. Il 18 marzo l’Istat ha pubblicato la sua indagine sull’internazionalizzazione delle medie e grandi imprese italiane, riferendosi agli anni 2001-2006 e alle proiezioni 2007-2009. Le imprese che in questo periodo hanno avviato processi di internazionalizzazione sono 3.000, il 13,4% del loro numero totale, con una percentuale rilevante delle industrie (17,9%), in particolare quelle grandi (per metà internazionalizzate).
Ciò che l’Istituto di statistica identifica con il termine “internazionalizzazione” è sia il trasferimento all’estero di attività o funzioni prima realizzate in Italia, sia l’investimento diretto all’estero per l’accesso a nuovi mercati.
È non a caso dall’inizio della crisi che la delocalizzazione è diventata una crescente necessità delle metropoli imperialiste.
Il trasferimento all’estero può essere rappresentato come un’area d’intersezione tra la ristrutturazione e l’investimento diretto in altri mercati. L’intreccio e la sovrapposizione di ristrutturazione e investimento all’estero è un tratto crescente della mondializzazione capitalistica.
In Europa i processi di delocalizzazione rappresentano ancora una quota non prevalente delle azioni di ristrutturazione, il 5,5%, contro il 73,2 della ristrutturazione interna. Tuttavia il loro peso e le loro dimensioni tendono ad aumentare in maniera significativa.
La delocalizzazione avviene verso direzioni differenti. Le imprese dei settori poco concentrati, come abbigliamento e tessile, trasferiscono attività o funzioni principalmente verso la periferia del capitalismo, mentre quelle a più alta concentrazione (aeronautica, farmaci, automobili ed elettronica) verso i maggiori paesi imperialisti. Tra le imprese italiane internazionalizzate il 47,7% è “ad alta tecnologia”, 60% a tecnologia medio-alta. L’Italia ad ora delocalizza per il 55% in Europa (30% verso l’Est), a seguire in Cina (16,8), in USA e Canada (9,7) e in altri paesi in percentuali minori.
Sono i settori dove i lavoratori hanno una qualificazione più bassa che possono operare trasferimenti verso paesi periferici dai bassi salari con maggiore facilità, anche se va considerato che dalle macerie dell’imperialismo sovietico sono entrati nel mercato internazionale del lavoro migliaia di lavoratori a basso costo ma con una qualificazione adeguata a produzioni moderne, disponibili soprattutto per le borghesie del Vecchio Continente. Al contempo però la crescente tendenza alla dequalificazio ne dei lavoratori anche nei settori particolarmente avanzati e concentrati (Cfr. BC 3/2008) sta modificando il rapporto sopra descritto, con un ulteriore aumento di delocalizzazioni in Paesi con salari bassi. È quanto risulta anche dalle previsioni di trasferimento che vedono una flessione di UE15, USA e Canada e un aumento della delocalizzazione verso Cina, India, Europa dell’Est e Africa.
Per l’83,9% delle imprese italiane si tratta di trasferire attività di supporto alla produzione, come il marketing, le vendite e i servizi post-vendita, gli aspetti amministrativi e gestionali ecc..
Il 40 per cento trasferisce all’estero anche le attività di sub-fornitura. Secondo l’Istat dalle valutazioni ex-post non risultano effetti negativi dai trasferimenti, anche in riferimento al livello delle competenze e conoscenze in azienda.
Il 67,6% delle imprese con attività fuori dai confini si indirizza all’investimento diretto, con ingresso in nuovi mercati ma anche ritorno nei mercati d’origine con merci a basso costo, le cui importazioni da parte delle metropoli aumenta intensamente: un 18,4% delle importazioni nel 2004 contro il 12,7 nel ’93, con un trand di continua crescita.
Con i processi di internazionalizzazione delle imprese si accentua a livello mondiale la concorrenza tra lavoratori, veicolando la compressione dei salari e la precarizzazione del lavoro. La concorrenza si inasprisce di conseguenza anche all’interno dei singoli Paesi. S’aggrava così la debolezza della classe operaia mondiale e la sua atomizzazione, aprendo ad un inasprimento dello sfruttamento brutale di un capitalismo sempre più affannato nella ricerca di profitto, che solo l’internazionalismo può realisticamente sconfiggere.
mlBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #4
Aprile 2008
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