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Home ›Non votare è un dovere di classe
... per non cadere nella trappola della borghesia - Elezioni: tante facce una stessa medaglia
La critica marxista dello stato che individua nella democrazia rappresentativa il migliore involucro possibile per il capitalismo (Lenin - Stato e Rivoluzione - Ed. Riuniti - pag. 69), sta trovando anche nella campagna elettorale appena iniziata un’altra puntuale conferma.
Già gli sbarramenti e i premi di maggioranza che consentono di buttare nel cestino parecchi milioni di voti e, nel contempo, di assegnare al vincitore anche per un solo voto la maggioranza assoluta e il fatto che agli elettori non è data neppure la possibilità di
decidere una volta ogni tre o sei anni qual membro della classe dominante [dovrà] mal rappresentare il popolo in parlamento
K. Marx - La guerra civile in Francia - Ed. Riuniti pag. 74
visto che a sceglierli, come nell’ex Unione sovietica, sono le segreterie dei partiti, dimostrano quanto il parlamento sia divenuto, anche dal solo punto di vista formale, poco rappresentativo della volontà popolare.
Ma a dire ancor più del carattere classista dello stato borghese e dell’inganno che nasconde quel che resta del suo involucro democratico, mai come in questa circostanza, sono proprio i programmi elettorali delle diverse forze politiche in campo. Al di là dell’ovvia over dose di demagogia che apparentemente li distingue l’uno dall’altro, in realtà hanno tutti talmente in comune la priorità di preservare gli attuali rapporti di produzione e distribuzione della ricchezza che è pressoché impossibile distinguerli fra di loro e la partita è giocata da tutte le parti degli schieramenti esclusivamente sul terreno mediatico. Basta però spostare anche di poco lo sguardo e l’attenzione dagli schermi televisivi e più in generale dai mass media per rendersi conto di trovarsi nel bel mezzo di una mediocre messinscena in cui a farla da padrona è la menzogna più spudorata.
È ormai assodato che, negli ultimi decenni, i salari, gli stipendi e le pensioni sono diminuiti e la povertà è cresciuta costantemente e indipendentemente dall’andamento della congiuntura economia.
Salari, stipendi e pensioni cioè sono diminuiti anche quando il Pil, ovvero la ricchezza complessivamente prodotta, è cresciuto per cui è evidente che la questione salariale, ma meglio sarebbe dire sociale, è un fatto strutturale connesso al processo capitalistico di produzione e distribuzione della ricchezza.
In passato e in particolar modo nelle fasi ascendenti del ciclo di accumulazione del capitale, rendendosi possibili, almeno nei paesi capitalisticamente più avanzati, politiche economiche di ridistribuzione degli extra profitti di origine monopolistica e fra queste il finanziamento in deficit della spesa pubblica a favore di programmi di assistenza sociale quali il Welfare State, le conseguenze della contraddizione che determina la concentrazione della ricchezza in un numero sempre minore di individui sono state alquanto attenuate cosicché la contraddizione è stata nascosta. Ma oggi che a causa della crisi economica il capitale necessita anche dell’ultima briciola di plusvalore estorta alla forza-lavoro e le vecchie politiche di ridistribuzione della ricchezza non sono più possibili, ecco che la contraddizione si svela e con essa anche la natura classista dello Stato, la funzione mistificatrice della peraltro agonizzante democrazia rappresentativa e delle forze politiche che se ne contendono la gestione. Ecco quindi che se i salari sono bassi sia per la destra sia per la sinistra sia per il centro e via elencando, non è perché in questa fase storica povertà e miseria generalizzata sono funzionali alle esigenze di conservazione capitalistica, ma perché l’ economia cresce poco. E l’economia cresce poco perché il sistema paese non è competitivo e quindi perché crescano salari, stipendi e pensioni è necessario innalzare la produttività del sistema che è come dire che se i salari sono bassi è perché si lavora poco. La conclusione comune a tutti è che occorre maggiore flessibilità, più disponibilità a svolgere il lavoro straordinario e soprattutto un modello contrattuale che leghi direttamente le diverse componenti del salario agli incrementi della produttività non altrimenti definita, in modo che possa comprendervi sia gli incrementi della produzione di merci ottenuti grazie all’introduzione nei processi produttivi di tecnologie più avanzate sia mediante il prolungamento della giornata lavorativa.
In tal modo è che per la forza-lavoro non c’è via scampo: il costo dell’accresciuta competizione internazionale deve ricadere soltanto su di essa. E ciò vale per tanto per il PD di Veltroni che per il PDL di Berlusconi come stanno lì a dimostrare i rispettivi programmi elettorali che su questa questione sono l’uno la fotocopia dell’altro. Né nella sostanza è diverso il programma elettorale della Sinistra arcobaleno, quella che aspira a diventare la nuova sinistra. La rinomata ditta Bertinotti e Co, alla riduzione delle imposte su salari stipendi e pensioni, promessa anche da PD e Pdl che, come abbiamo già visto nello scorso numero di Bc altro non sarebbe che il trasferimento di quote di salario indiretto sul salario diretto (vedi in Bc 2/2008 l’articolo L’annunciata caduta del governo Prodi), aggiunge anche il ripristino della scala mobile. Verrebbe di dire: finalmente qualcuno si è accorto che non vi relazione fra la crescita dell’ inflazione e i salari visto che la prima corre a velocità astronomica, mentre i secondi sono fermi al palo da circa venti anni. Ma ecco che appena la proposta viene definita in dettaglio si capisce che si tratta di un altro specchietto per allodole. La nuova scala mobile, infatti, dovrebbe funzionare così. Assunto come base 100 il livello dei prezzi al primo gennaio, alla fine dell’anno dovrebbe esserci un recupero automatico dei salari, stipendi e pensioni in ragione direttamente proporzionale al tasso di inflazione registrato nell’anno trascorso e all’entità del salario. Così, per esempio, se il prezzo del pane alla fine dell’anno sarà aumentato del 10 per cento, chi percepisce un salario pari a 100 recupererà per intero l’inflazione, mentre chi percepisce un salario, per esempio, pari a ottanta, recupererà sì il 10 per cento del salario ma solo l’otto per cento dell’inflazione. Per non dire poi che, non mettendo in discussione la modifica dell’attuale sistema di calcolo, nonostante anche l’Instat ormai riconosca che tra il tasso d’inflazione ufficiale e quello reale vi è una differenza di almeno cinque punti percentuali, il recupero ammonterebbe a poche briciole e che, avvenendo a posteriori, la riduzione della perdita netta risulterebbe del tutto simbolica.
Votare dunque? E per chi e per cosa se non per la perpetuazione dell’inganno?
Negli scorsi giorni perfino il presidente della Federal Reserve, Bernake, ha ammesso che dietro l’angolo si profila lo spettro della più grave crisi economica e finanziaria degli ultimi 25 anni; altri analisti vanno oltre e annunciano come prossima una vera e propria catastrofe.
È davvero pensabile che il buonista Veltroni, l’unto del signore e tutta la variegata fauna politica che ruota loro attorno ignori il vero stato delle cose?
È evidente che no, è evidente che mentono.
Pertanto votare per uno di loro è solo un modo per scegliere una stessa politica: quella della borghesia per scaricare il salatissimo conto della crisi sui lavoratori. Non votare è dunque un preciso dovere di classe, un modo per cominciare a dire no al capitale e sì alla ripresa della lotta in difesa dei propri autonomi interessi di classe.
Battaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #3
Marzo 2008
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