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Home ›Migliaia di morti sul lavoro, questo il prezzo imposto dal capitale ai proletari
Il tributo di sangue pagato dai lavoratori
Una direttiva impartita nel lontano 1977 da parte del servizio centrale di manutenzione del gruppo Montedison disponeva di:
Spendere solo quando è assolutamente e comprovatamente indispensabile. In tutti gli altri casi bisogna correre dei ragionevoli rischi.
La manutenzione viene quindi vista come un costo e come tale deve essere se non abbattuto quanto meno tenuto il più basso possibile. Gli impianti vengono sfruttati all’inverosimile e si taglia in maniera delinquenziale sulla manutenzione. Fa specie nell’asettico linguaggio, tutto proprio del mondo d’impresa, il riferimento ai rischi. Quali, di grazia? Pagare qualche multa o dover chiudere lo stabilimento per un certo periodo? E se questi sono rischi come definire quelli che corrono in ogni istante della loro vita lavorativa milioni di salariati? Come definire i 7 morti della Thyssen Krupp?
In questa tristissima vicenda stridono in maniera notevole le giaculatorie di chi vorrebbe maggiori misure di sicurezza ma, allo stesso tempo, si guarda bene da proferire verbo sul modello economico e sociale e sul suo essere criminoso così come costituiscono esercizio assai vacuo i richiami alla garanzia della vita, dell’incolumità e della dignità umana con annessi richiami alla Costituzione fatti da qualche anima pia in servizio continuo che altrettanto di continuo dura fatica a rendersi conto della essenza intima del capitalismo e delle leggi che ne sovrintendono la funzionalità e quindi la conservazione.
Partiamo da un dato: il primo operaio morto, Antonio Schiavone, stava lavorando la quarta ora di straordinario. Era quindi alla dodicesima ora di lavoro. Sarebbe pertanto più appropriato chiedersi com’è che si torni a dover lavorare 12 ore cioè lo stesso numero di ore lavorate nell’Inghilterra del 1832.
Particolare avidità di alcuni capitalisti? Sete smisurata di guadagno? Istituzione di un’Authority a cui demandare il compito di controllare l’applicazione delle leggi sulla sicurezza? Se si vuole continuare a pestare l’acqua nel mortaio queste sono le soluzioni più adatte. Ci sarebbe da chiedersi semmai com’è che il capitalismo sia preso a percorrere a ritroso un cammino che aveva contrassegnato tutto il secolo 19.mo e 20.mo. Se risulta inconfutabile che il capitalismo stia vivendo una crisi da cui non riesce a venir fuori, è altrettanto innegabile come esso cerchi di ostacolare o rallentare gli effetti di questa crisi attaccando la condizione dei lavoratori sia con l’aumento del grado di sfruttamento del lavoro sia con la riduzione del salario al di sotto del suo valore, come Marx ha trovato modo di delineare assai mirabilmente nel “Capitale”.
Il capitalista particolarmente famelico è soltanto una panzana per cercare di sviare l’attenzione dal vero problema: ad essere famelico è il capitalismo nel suo insieme in quanto le leggi di valoriz-zazione del capitale non possono derogare da principi ben precisi.
Hic Rhodus, hic salta, volendo dire che il problema è il capitalismo stesso e l’unica soluzione è passare oltre. Non si può riformare un corpo putrefascente per tenere in vita il quale 270 milioni di lavoratori, ogni anno, sono vittime di incidenti sul lavoro e 160 milioni contraggono malattie professionali. Le sette vittime della Thyssen Krupp vanno ad incrementare una tragica contabilità fatta di 5000 lavoratori che muoiono ogni giorno. Ed il prolungamento della giornata lavorativa per via diretta o tramite il ricorso agli straordinari riguarda la Thyssen Krupp, la Volkswagen, la Bosch, la Siemens, la Wall-Mart, ossia è un fenomeno generalizzato a livello mondiale.
Si assiste quindi ad un paradosso che soltanto il capitalismo può tenere in vita: il progresso tecnico, “la macchina, che dovrebbe essere il mezzo più potente per l’accorciamento del tempo di lavoro, si trasforma nel mezzo più infallibile per trasformare tutto il tempo della vita dell’operaio e della sua famiglia in tempo di lavoro disponibile per la valorizzazione del capitale.” (K.Marx, Il Capitale, libro I, cap. 13o).
Fanno quindi quasi tenerezza le parole del poeta greco Antipatro che ebbe a salutare l’invenzione del mulino ad acqua per la macinazione del grano come “liberatrice delle schiave e iniziatrice dell’età aurea”.
Del tutto al contrario la macchina si è rivelata come il mezzo più sicuro per prolungare la giornata lavorativa e tenere ad essa soggiogati i moderni schiavi salariati.
La tragica vicenda degli operai della Thyssen Krupp va quindi inquadrata in un contesto assai particolare: quello della contrapposizione tra capitale e lavoro, della continua guerra di classe tra borghesia e classe lavoratrice che vede, ancor oggi e in maniera sempre più intensa, l’iniziativa nelle mani della classe degli sfruttatori e affamatori. La classe lavoratrice è sola né tantomeno può aspettarsi che la tutela dei propri interessi passi attraverso il sindacato o i cosiddetti partiti di sinistra. Proprio la vicenda torinese ha mostrato ancora una volta da che parte stanno: al di là dei pelosissimi appelli ad una maggiore sicurezza sul lavoro resta inequivo-cabilmente chiara la loro diretta corresponsabilità nel “chiedere di produrre di più, per più ore al giorno e per più anni nella vita” (L. Campetti, Manifesto 07.12.07). Pertanto se è vera la notazione che la classe lavoratrice è sola è altrettanto vero che essa deve riappropriarsi della coscienza di sé stessa, di ciò che è e di ciò che può diventare: della convinzione di dover combattere per la propria liberazione.
Perché è l’unica classe realmente rivoluzionaria. La classe che ha fatto tutto. La classe che può distruggere tutto perché può tutto rifare.
Battaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #1
Gennaio 2008
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