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Home ›Compromesso sul clima a Bali
Note sulla XIII conferenza Onu sui disastri ambientali e gli stravolgimenti climatici
Ben 47 mila tonnellate di CO2 per viaggi e climatizzatori: ecco l’unico risultato della conferenza sui cambiamenti climatici di Bali secondo le cronache più caustiche. In effetti il summit si è chiuso attorno ad un compromesso al ribasso che poco ha di sostanziale. Si è ottenuta un’agenda piuttosto svuotata di contenuti in direzione della Conferenza di Copenaghen del 2009, che dovrebbe varare in tempo un nuovo protocollo, Kyôto plus, operativo dal 2012. L’agenda punta su quattro misure: riduzione dei gas serra, “adattamento” rispetto ai fenomeni già operanti, come siccità o alluvioni, tecnologie pulite e relativi finanziamenti. Ancora non si va oltre piani di mitigazione, come d’altronde già al G8 di Heiligendamm.
Il risultato politico del summit è stato commentato da più parti come una sconfitta statunitense. L’accordo si è ottenuto nell’ultima seduta negoziale con un passo indietro dell’America sulla richiesta di impegni più significativi da parte dei Paesi della periferia capitalistica e degli imperialismi emergenti, come Cina e India. Difronte alla generale contestazione la delegata dell’imperialismo americano, Paula Dobriansky, ha concluso con un inequivocabile “ci uniamo al compromesso”. Inoltre la Merkel e Blair hanno enfatizzato il riconoscimento americano del riscaldamento antropogenico del pianeta e della necessità di intervenire sulle emissioni di gas serra. In realtà, come osservato dal Sole 24 Ore, niente più di quanto avvenne già nel 1992 a Rio. Il dato vero è che l’imperialismo USA riguadagna posizioni nella partita, e incassa subito due risultati:
- L’impegno dei paesi periferici o emergenti. Una vittoria mutilata, dicevamo, ma rilevante, come ha commentato Il Foglio, per la rottura dello schema che escludeva i Paesi poveri.
- Ha venduto caro il consenso all’accordo, che però era già fortemente ricettivo delle istanze americane. In particolare sull’esclusione delle indicazioni quantitative rispetto alle emissioni di gas serra e alla loro riduzione.
Quello dei criteri quantitativi è un affare di non poco conto, e di certo tornerà ad essere oggetto di discussione. Le percentuali di riduzione delle emissioni che sono state stabilite a Kyôto si riferiscono al 1990, scelto come anno di riferimento. In questa data c’è un vantaggio europeo sugli Stati Uniti, poiché a cavallo dei decenni ’80 e ’90 nei Paesi europei si registrò una notevole riduzione delle emissioni. Senza l’adesione statunitense al protocollo e senza l’indicazione di riferimenti quantitativi certi, però, l’UE da sola si ritroverebbe a sostenere costi elevatissimi, senza poter realizzare il proprio vantaggio. Ne consegue quella farsa che da Kyôto a Bali maschera aspetti della contesa per controllare i processi di formazione della rendita finanziaria.
L’insistenza europea sui limiti quantitativi è motivata inoltre dal mercato delle quote di emissione: chi riesce a inquinare meno della quota assegnatagli può vendere ad altri la sua eccedenza. Questo mercato si limita, per ora, ai Paesi che hanno ratificato il protocollo di Kyôto, ed evidentemente presuppone che vengano fissate quote obbligatorie. Non a caso a Bali l’Europa ha saputo aver una voce sola, e ha guidato un fronte interventista con Australia, diversi piccoli Paesi e le Nazioni Unite stesse. Un ulteriore asse è stato rappresentato da Cina e India, che hanno espresso la disponibilità a ridurre del 50% le proprie emissioni entro il 2050 a condizione che i paesi più industrializzati s’impegnino sugli obiettivi di riduzione del 25-40 per cento entro il 2020. Ipotesi osteggiata dal fronte di Stati Uniti, Canada, Giappone e anche Russia, che con gran clamore ha formato un inedito asse con gli USA.
A uscire rafforzato dalla Conferenza è soprattutto l’IPCC, l’Intergovernmental Panel on Climate Change, l’organo ausiliario di due agenzie ONU (meteo e ambiente) che già nella conferenza di Rio del ’92 è diventato punto di riferimento scientifico bipartisan sul clima. Dopo aver irresistibilmente attratto in questi anni le saette dell’amministrazione Bush, a Bali viene da tutti assunto come “chiave di volta” sia in ordine a dati e analisi che a proposte per gli interventi. L’IPCC ha dalla sua il vanto di poter vendere un’immagine di autonomia e di obiettività scientifica. Di fatto però il lavoro dei membri ufficiali del Panel è politicamente orientato a sostenere il piano di mitigazione perseguito dai loro governi, e le agenzie e i dipartimenti governativi cui il Panel presenta i rapporti costituiscono la sua dirigenza informale. L’economista David Henderson ha sottolineato come questa evidente dipendenza ha creato un limite scientifico del Panel che negli anni si è ingigantito. Ed è il Panel che giustifica e sostiene quella “panoplia di pretesti interventisti” denunciata dal Financial Times, che tanto anima l’imperialismo europeo. Anche su questo terreno si giocheranno le vere tensioni internazionali che crescono nel mondo, mentre intanto si esegue l’ennesima carnevalata del cretinismo parlamentare e delle sue trite appendici.
mlBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #1
Gennaio 2008
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