La rivolta in Nepal

La “bandiera rossa sul tetto del mondo” nasconde solo arretratezza e barbarie

Paradossalmente rispetto al recente sviluppo economico cinese, che si erge ormai inequivocabilemente quale gigante imperialista, i gruppi ribelli di ispirazione maoista continuano ad essere attivi in Asia meridionale, e spesso acquisiscono anche crescente visibilità.

Non è un caso che Manmohan Singh, primo ministro indiano, abbia dichiarato lo scorso aprile che “la maggior minaccia alla sicurezza interna mai affrontata dalla nostra nazione” sia costituita dai naxaliti i cui primi attacchi risalgono al 1967, a Naxalbari. Attualmente questi guerriglieri maoisti contano 10-20 mila combattenti effettivi, divisi in vari gruppi. In 13 dei 28 stati indiani sono abituali gli attacchi a poliziotti, militari e paramilitari assoldati dai padroni, i sequestri di bus, i blocchi dei trasporti. Secondo i dati del governo, le vittime complessive sono state 669 l’anno scorso, contro le 483 del 2002.

I maoisti, poi, sono molto attivi in Nepal e nelle Filippine, oltre a svolgere azioni di guerriglia in Bhutan e Bangladesh. In Birmania, Thailandia e Cambogia la situazione appare ad oggi più tranquilla, anche se la presenza maoista è stata in passato significativa.

Ma è soprattutto in Nepal che ultimamente l’insorgenza maoista ha fatto parlare di sé. Proprio negli ultimi giorni, dopo quasi un mese di sciopero generale e proteste nella capitale, Kathmandu, dopo che i militari del Royal Nepal Army agli ordini del re avevano aperto il fuoco sulla folla causando 17 vittime e 600 feriti, alla fine le imponenti manifestazioni di centinaia di migliaia di persone hanno imposto il ripristino dei poteri del parlamento e del governo, in attesa della convocazione di un’assemblea costituente. Poco più di un anno fa il re Gyanendra, venerato da molti induisti come un dio, aveva sciolto il parlamento e assunto poteri assoluti, dopo aver accusato il governo di incapacità d’azione nei confronti della crescente guerriglia maoista che, sommata all’azione repressiva dello stato, in oltre 10 anni è costata al Nepal 13 mila morti.

In realtà il ridimensionamento dei poteri del re non è dovuto soltanto alla sincera sollevazione popolare - che pure c’è stata, imponente, frutto di una oppressione sociale che si trascina quasi immutata da millenni - ma anche ai giochi di potere interni e ai complessi equilibri internazionali. Il piccolo stato himalayano, impervio e privo di risorse, si trova infatti ad avere una notevole importanza geostrategica, incastonato tra l’India, che con il Nepal ha forti legami culturali ed economici, e la Cina, che tenta di espandervi la sua sfera d’influenza, essendo tra l’altro l’appoggio nepalese fondamentale per la repressione in Tibet. Entrambi gli stati, in momenti diversi, hanno fornito sostegno economico e militare al re. Ma anche gli Stati Uniti hanno avuto un ruolo nell’addestramento delle forze armate, e di certo non sdegnerebbero una presenza militare a ridosso della Cina. Vale qui la pena sottolineare come non ci sia alcun legame diretto tra i vari gruppi maoisti asiatici e la Cina attuale, accusata anzi di “revisionismo” rispetto al pensiero del “grande timoniere”. Nelle rare interviste, il leader dei maoisti nepalesi, Prachanda, ha annoverato tra i riferimenti per il programma politico, ma soprattutto per la tattica militare, Sendero Luminoso e i naxaliti indiani. Tuttavia in Nepal sono mancati i proventi aggiuntivi legati alla droga e quelli legati al petrolio, come in alcuni stati indiani.

La situazione interna è di sostanziale stallo, avendo i maoisti troppa forza per non aspirare a controllare il Nepal, e tuttavia non abbastanza per vincere definitivamente la loro battaglia, specie se di dovessero trovare a fronteggiare forze regolari più numerose e meglio attrezzate di quelle attuali. Nella partita tra il re, i principali partiti politici (riuniti nella cosiddetta Seven Parties Alliance) e i ribelli maoisti, si sta delineando un allineamento tra la SPA e i guerriglieri, con il beneplacito di parte del governo indiano, che sembra pronto a sostenere concretamente una assemblea costituente, e con la rassicurazione da parte dei maoisti di rientrare nell’alveo della “democrazia competitiva”, come loro definiscono l’attività parlamentare non-violenta.

Ma i risultati di questo processo non sono affatto scontati, e dipendono da quanto i nuovi equilibri riusciranno a soddisfare gli appetiti dei ribelli, che sul piatto della bilancia fanno pesare circa 15 mila guerriglieri del cosiddetto nocciolo duro, sostenuti da altri 50 mila miliziani, oltre al controllo assoluto di vaste aree rurali, circa il 70% del territorio nazionale, dove svolgono un ruolo di “governo ombra”, istituiscono tribunali “popolari”, e possono permettersi anche di rastrellare periodicamente le tasse. Questa base ha permesso loro di organizzare a più riprese scioperi e blocchi totali anche nella capitale, durati diversi giorni e con ampia partecipazione. Non è chiaro però quanto abbiano influito la paura, la violenza e le ritorsioni in stile mafioso applicate contro coloro che - siano essi commercianti o salariati poco importa - si rifiutano di versare “contributi” ai guerriglieri.

Nelle zone controllate dai guerriglieri, le più povere e sovrappopolate del paese, lontane dalle strade, estranee a qualsiasi forma di sviluppo economico ed industriale, la condizione dei contadini non è mutata sostanzialmente. Sinteticamente, si potrebbe dire che i maoisti, anziché cercare di risolvere i problemi di arretratezza della società nepalese, stiano adottando piuttosto una politica - da “comunismo” medievale e contadino - di “condivisione della povertà”.

Al di là dell’attenzione rivolta ai contadini e il quasi completo disinteresse per le sacche di proletariato locale e per quello che si sta sviluppando in misura rilevante nella regione, il programma politico appare incostante e vago. I conati reazionari di nazionalismo e “bigottismo” propri delle varie esperienze maoiste sono invece ben evidenti, ad esempio nelle campagne per la chiusura delle scuole in lingua non nepali (che è lingua madre solo per il 50,3% della popolazione) per lo stretto controllo della maternità tra le militanti e persino contro i giovani con capelli lunghi e orecchini. In un certo senso, il pericolo maggiore è proprio quello temuto dal Financial Times, ossia che i maoisti “prendano la guida di movimenti radicali in India e in Cina”, o, secondo il Corriere della Sera, “che il maoismo fornisca agli esclusi dai vari miracoli economici un alfabeto per confronti anche violenti”. L’errore sarebbe terribile soprattutto per il proletariato sud-asiatico, se si attardasse nella tanto sanguinosa quanto inconcludente trappola della guerriglia maoista. Essa nulla ha in comune con la prospettiva proletaria di cambiamento rivoluzionario della società, fondata prima di tutto sui soviet, sulle assemblee di fabbrica e di territorio, e non sui giochi di potere di questi predicatori del nazionalismo e dell’interclassismo, in favore di una forma statale nuova, magari parlamentare anziché monarchica, ma che nulla muterebbe nei meccanismi di sfruttamento capitalistici.

Mic

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.