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Home ›America Latina: un subcontinente in effervescenza
I nuovi equilibri nel “cortile di casa” dell’imperialismo statunitense
Ciò che prende a delinersi in questi primi anni del 2000, in America latina, va certamente in senso opposto a quanto enunciato, nel 1823, dalla dottrina Monroe partendo dalla quale gli Stati Uniti intesero ridimensionare fortemente l’ingerenza dei paesi europei nel continente americano e sintetizzata dalla formula: ”l’America agli americani”.
Forse per cogliere appieno il senso di tutto questo può aiutare, per paradossale che possa sembrare, non tanto la pur copiosa letteratura sulle vicende sudamericane quanto il proliferare di sigle che rincorrendosi e accavallandosi le une sulle altre, con scansioni anche relativamente strette, fungono da spie di una situazione in continua effervescenza. Il 4 e 5 novembre 2005, a Mar del Plata, si è tenuto il IV vertice delle Americhe che ha sancito il fallimento delle trattative per la nascita del FTAA (Free Trade Area Americas) o, in spagnolo, ALCA, ossia un’area di libero scambio panamericana che va dall’Alaska alla Terra del Fuoco alla quale ambivano, a partire dai primi anni ’90, le varie amministrazioni USA. Questo progetto, nel corso del vertice, ha avuto modo di scontrarsi con tutta una serie di ostacoli posti dai paesi aderenti al Mercosur i quali, in sintesi, hanno inteso non legarsi a filo doppio con gli Stati Uniti facendosi inglobare in questa area di libero scambio e ponendo, per la loro adesione, condizioni inaccettabili per gli USA, prima fra tutte la riduzione dei sussidi federali agli agricoltori statunitensi che, potendo godere di cospicue sovvenzioni e di supporti tecnologici di avanguardia, possono ridurre i loro costi di produzione invadendo letteralmente i mercati centroamericani e riducendo al lastrico la classe contadina locale. È quanto avvenuto già con i campesinos messicani e ciò che paventa gran parte dell’opinione pubblica e dell’opposizione politica e sociale dei paesi che hanno aderito al CAFTA (Trattato di libero commercio del Centroamerica) - El Salvador, Nicaragua, Guatemala, Honduras, Costa Rica, Repubblica dominicana e Stati Uniti - e dove si dà per inteso un commercio libero da dazi per quel che riguarda sia beni che servizi.
L’intenzione, come spesso accade, sarebbe delle più commendevoli se non fosse per il solito vizio di fondo: al di là della questione sussidi c’è pur sempre l’esigenza di Washington di trovare sbocchi alle proprie industrie, prese d’assedio dalla concorrenza cinese. Con questi trattati, siano essi il CAFTA o il NAFTA, in pratica, si impongono modelli economici di puro saccheggio e, per via che aderiscono ad essi paesi con economie macroscopicamente asimme-triche, il tanto conclamato libero commercio finisce per risolversi in un libero mercato e in un libero scambio in senso esclusivamente unidire-zionale. Come conseguenza si può avere che, secondo dati forniti dall’ONU, tra il 1999 e il 2002, per via della progressiva eliminazione di dazi e tariffe doganali perseguita dagli USA per mezzo di accordi bilaterali coi singoli paesi, il deficit dell’area dei Caraibi sia aumentato del 76%.
Tutto questo non può non preludere a iniziative di segno opposto condotte da quei paesi che vivono con insofferenza una situazione di sudditanza, di dominio a cui intendono porre fine o quanto meno ridimensionare.In quest’alveo si pone certamente l’iniziativa lanciata da Ugo Chavez e Fidel Castro che prende il nome di ALBA (Alternativa Bolivariana per le Americhe), un trattato non di libero scambio ma, a voler dar credito ai promotori, di cooperazione, che intende rappresentare l’ideale continuazione del Mercosur, trattato entrato in vigore nel 1995 e che, accanto ai quattro soci fondatori (Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay), ha visto aggiungersi, nel dicembre scorso, il Venezuela. Nel vertice che ha sancito l’adesione venezuelana si è anche ipotizzata la creazione di una Banca del Sudamerica e di un Fondo Monetario Sudamericano. Se si tiene conto che l’area Mercosur comprende i due terzi del territorio sudamericano, oltre il 70% della popolazione e i tre quarti del PIL sudamericano, ebbene, i motivi di preoccupazione per i pronipoti di James Monroe sono più di uno.
Naturalmente il blocco è tutt’altro che omogeneo - d’altronde come potrebbe esserlo? - ed infatti, tanto per restare in tema, il Brasile, pur aderendo a questo organismo, non tralascia di consolidare la propria area commerciale e di trattare, contemporaneamente, con le maggiori potenze economiche (USA, Giappone, UE, Cina) speculando sulle loro contrapposizioni. Ma è forse proprio la new-entry, il Venezuela, che unitamente ad altri paesi come la Bolivia e l’Ecuador rappresentano più decisamente questo processo di scostamento dalla potenza nordamericana. Strategicamente il Venezuela è molto importante in quanto, sebbene rappresenti il 7% circa del prodotto Mercosur, è il quinto esportatore mondiale di petrolio e quindi è in grado di contribuire all’autonomia energetica dell’area. Inoltre è sempre Chavez a proporre un progetto di cooperazione energetica (Petroamerica) diretto a 13 paesi caraibici, alla Comunità Andina e all’Argentina e Brasile: Il cerchio verrebbe idealmente chiuso tramite la realizzazione di un gasodotto che partendo dal Venezuela si snoderebbe lungo un percorso di 8 mila chilometri rifornendo l’intero subcontinente con un costo di 4 miliardi di dollari. Considerati gli aumenti continui del prezzo del greggio, al Venezuela vengono, di fatto, forniti i mezzi finanziari per un politica estera molto attiva e tesa a conquistare una certa preminenza tra gli Stati della regione. È di certo una realtà molto composita e dinamica che vede privilegiare processi di aggregazione dei mercati che vedono il Mercosur intenzionato a connettersi con la Comunità Andina per dare vita alla Comunità Sudamericana delle Nazioni e ad altre aree del mondo come la UE, il Giappone e la Cina. Nel 2003 è proprio la UE il primo partner commerciale del Mercosur con il 25% delle importazioni e delle esportazioni, davanti agli Stati Uniti (19%) e alla Cina con il 6%, e vengono portate avanti, sempre con la UE, sin dal 1995, trattative per la creazione di una zona di libero scambio. Si va sempre più delineando quindi una sorta di ostacolo alla strategia statunitense non solo in quanto viene creato un grande mercato da cui gli USA sono esclusi ma anche perchè tendono a rivelarsi, in misura sempre più nitida, ambizioni di penetrazione commerciale da parte di altri concorrenti. A dare un tocco ancor più incisivo ci pensa Chavez che si dice pronto a vendere il petrolio in euro e non più in dollari, dando seguito a dichiarazioni analoghe fatte dal presidente iraniano Ahmadi Nejad. Quali contraccolpi deriverebbero dalla conversione dei biglietti verdi in euro è facile da intuire così come altrettanto semplice da capire è una politica di diversificazione, nelle vendite petrolifere, che vede crescere l’export verso India e Cina e diminuire quello verso gli States.
Con la nazionalizzazione del petrolio venezuelano lo Stato è praticamente padrone del 100% della rendita petrolifera ed il contendere con settori della borghesia venezuelana legata al carro statunitense verte proprio sulla gestione di tale rendita. Il MVR (Movimiento Quinta Repubblica), ispirato alle idee di Simon Bolivar e formato da militari nazionalisti con sostegno nei partiti di sinistra, delega a Chavez il compito di riprendere, nel 1998, il controllo statale su questa enorme fonte di profitti. Analogo è il cammino intrapreso in Bolivia da Evo Morales che dichiara con estrema chiarezza di “voler rimettere le mani sulle risorse naturali nazionali o, comunque, sugli extraprofitti che queste generano”, riferendosi non solo al prezzo del gas e del petrolio ma anche a quello di altre importanti materie prime. La crisi ha prodotto tanti di quei guasti da risultare più che comprensibili prese di posizione o decisioni che mirano alla tutela, alla difesa del proprio “particulare”. Questa chiave di lettura si attaglia perfettamente anche all’Ecuador che di recente ha varato una legge per recuperare parte degli extraprofitti derivanti dal petrolio e potrebbe riguardare lo stesso Perù se a prevalere, nelle consultazioni presidenziali, dovesse essere Ollanda Humala. Comunque, al di là di una certa fraseologia barricadiera e tanta demagogia a cui si ricorre per segnare una certa distanza dal “capitalismo”, alla ricerca di una terza via a volte finanche definita “socialista” ma che è tutta propria di quel vecchio filone populista latino-americano, resta la cruda essenza di una lotta per la ridefinizione delle proprie aree di competenza e per la redistribuzione della rendita. Che non si debba forse aggiornare il motto di James Monroe parafrasandolo con un più appropriato “Il Sudamerica ai sudamericani”?
ggBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #6
Giugno 2006
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