Per gli Usa guerra è bello - Soprattutto quando loro incassano e gli altri pagano

Gli scenari che si sono aperti in questa fase della politica internazionale rappresentano un vero salto di qualità nei sempre più tesi rapporti interimperialistici. La frattura che si è evidenziata tra l'asse Parigi-Berlino-Mosca-Pechino e Stati Uniti-Gran Bretagna sull'invasione dell'Iraq e la cacciata del rais di Baghdad non è cosa da poco, anzi delinea quelli che potrebbero essere gli schieramenti di un conflitto di portata ben più ampia che non la guerra a Saddam Hussein. Con il crollo dell'impero sovietico gli Stati Uniti in tutte le operazioni belliche hanno sempre goduto dell'appoggio incondizionato delle maggiori potenze mondiali. Nella guerra del Golfo del 1991, gli Usa non hanno avuto nessuna difficoltà a coinvolgere politicamente, militarmente e soprattutto finanziariamente l'intera comunità internazionale per scatenare contro l'Iraq un'offensiva militare che ha raso al suolo l'intera economia irakena e causato centinaia di migliaia di vittime innocenti. È stato fin troppo facile per la diplomazia statunitense, allora, dimostrare la pericolosità di Saddam Hussein, reo di aver invaso il Kuwait, per guidare, sotto l'egida dell'Onu, l'intera comunità internazionale contro l'Iraq. L'unica superpotenza rimasta in vita dopo il crollo dell'Urss ha avuto la capacità e la lucidità politica di far rappresentare i propri interessi imperialistici ad un organismo internazionale come l'Onu. Le numerose risoluzioni emanate dal Consiglio di Sicurezza nel 1990/1991 contro il regime di Baghdad sono state nei fatti ispirate dalla Casa Bianca. In quel contesto politico, economico e finanziario gli altri paesi non hanno potuto far altro che fare buon viso a cattivo gioco; Russia, Giappone, paesi europei e mondo arabo, non hanno potuto far altro che accettare le scelte statunitensi e schierarsi sul fronte della guerra contro l'Iraq.

Per gli Stati Uniti guidare l'alleanza contro Saddam Hussein sotto le bandiere dell'Onu ha avuto un doppio significato. Da un lato, ha rappresentato una schiacciante vittoria politica sia contro l'ex impero sovietico, che ha dovuto cedere ulteriore terreno nei confronti della Casa Bianca, sia contro i paesi del blocco occidentale, che in seguito al crollo di Mosca, pensavano di svincolarsi dal protettorato di Washington, dall'altro hanno potuto scaricare i costi della guerra sull'intera comunità internazionale. Se andiamo ad analizzare i costi economici della guerra del golfo e i profitti derivanti dalla vittoria possiamo osservare come gli Stati Uniti abbiamo tratto enormi guadagni. Per l'imperialismo statunitense è stato un gioco da ragazzi scaricare sugli altri paesi la maggior parte dei costi di un'operazione che è servita per ottenere il controllo della più importante area energetica del pianeta. Infatti, i costi delle operazioni sono stati sostenuti dall'Arabia Saudita, dal Giappone e dai paesi europei, mentre agli Stati Uniti sono andate tutte le commesse della ricostruzione e soprattutto i vantaggi della rendita petrolifera derivante dal fatto che il petrolio fosse venduto sui mercati internazionali utilizzando il dollaro americano. Secondo uno studio disponibile sul sito di Emergency, il governo statunitense e le maggiori compagnie petrolifere americane dalla prima guerra del golfo hanno guadagnato circa 20 miliardi di dollari, grazie al fatto che i costi sono stati scaricati sui paesi arabi e sull'Onu, mentre i vantaggi derivanti dal rincaro del petrolio sono andati direttamente nelle tasche delle compagnie petrolifere e del governo di Washington.

Dal controllo strategico del petrolio mediorientale e la corrispondente capacità statunitense di controllare i prezzi del greggio i paesi europei ed il Giappone non hanno tratto nessun vantaggio, anzi essi sono stati costretti ad accollarsi i costi della guerra. Agli americani l'operazione di trovare una copertura internazionale alle loro scelte belliche e scaricare quindi i costi sugli altri paesi è riuscita sia nella guerra nella ex Jugoslavia che in quella ancora in corso in Afghanistan. Che difficoltà poteva avere il governo americano nel trovare il consenso internazionale e scatenare la guerra contro i Talebani, rei di proteggere Osama bin Laden e la rete terroristica di Al Queda? Proprio loro erano stati gli autori dell'attentato terroristico dell'undici settembre 2001 che ha fatto crollare le torri gemelle di New York; distruggere la rete terroristica era un dovere di tutti e chi non si accodava agli Stati Uniti rischiava di entrare nella lista degli stati canaglia, ossia degli stati che proteggono i terroristi.

Nella preparazione di questa nuova guerra contro Saddam Hussein per la prima volta la diplomazia statunitense non ottiene quella solidarietà internazionale ricevuta invece nelle precedenti occasioni. Dalla fine della seconda guerra mondiale non era mai accaduto che in un conflitto paesi come la Francia e la Germania manifestassero in maniera così drastica il loro netto rifiuto ad un'azione militare degli Stati Uniti. I governi di Parigi e Berlino sono stati i primi a manifestare il loro dissenso rispetto alla volontà bellicistica statunitense, e solo in un secondo momento si sono accodati la Russia e la Cina. Tutto ciò non è il frutto di un caso, ma testimonia che i paesi trainanti dell'Unione europea hanno rotto gli indugi e seppur in termini esclusivamente politico-diplomatici si pongono alla guida di un potenziale polo imperialistico concorrente agli Stati Uniti. Se sul piano squisitamente militare gli Stati Uniti al momento non hanno rivali, per essi è fondamentale avere il più ampio consenso politico alla loro guerra contro Saddam Hussein, non solo per non trovarsi isolati nel panorama internazionale ma anche per scaricare sugli altri i costi della guerra. Tutto ciò può sembrare paradossale ma non lo è se consideriamo la disastrosa situazione economica degli Stati Uniti. La crisi economica è così profonda che non lascia molti margini di manovra all'imperialismo statunitense. Secondo uno studio effettuato dagli uffici tecnici del Congresso statunitense il conflitto potrebbe costare, fra battaglia sul campo e relativa occupazione del territorio per i prossimi sei anni, una cifra di 340 miliardi di dollari. Potrebbe sembrare una cifra modesta per un'economia il cui prodotto interno lordo è di oltre 10.000 miliardi di dollari l'anno, ma se consideriamo che il deficit pubblico statunitense nel corso del 2002 è stato di quasi trecento miliardi di dollari, per gli Stati Uniti diventa una priorità scaricare i costi della guerra sugli altri paesi. Se gli Stati Uniti dovessero sostenere da soli i costi delle operazioni contro l'Iraq, il loro deficit pubblico per il 2004 crescerebbe di ben 100 miliardi di dollari, con il rischio di accelerare una crisi finanziaria la cui gravità è attualmente evidenziata dalla continua svalutazione del dollaro.

La frattura che si sta consumando in questi giorni tra l'asse Parigi-Berlino-Mosca-Pechino e l'asse anglo-americano, nonostante sia ancora un processo in corso e quindi soggetto a repentini cambiamenti negli schieramenti delle forze in campo, anche se nel brevissimo periodo dovesse ricomporsi, ha storicamente aperto una nuova fase in cui tutti i rapporti fra le due sponde dell'Atlantico saranno rimessi in discussione a cominciare dalla gestione delle risorse finanziarie degli organismi internazionali come il Fondo Monetario e la Banca Mondiale di cui oggi gli Usa dispongono a proprio uso e consumo anche se i maggiori contribuenti sono i paesi dell'Ue. Allo stato attuale le risorse del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale pur essendo costituite dai vari paesi in rapporto al loro peso economico, sono nei fatti gestiti in rapporto agli interessi politici, economici e militari degli Stati Uniti. Nel sostegno fornito ai paesi afflitti da crisi finanziarie i due organismi internazionali hanno agito solo ed esclusivamente in rapporto agli interessi degli Stati Uniti. Infatti si finanzia la Turchia perché serve la sua fedeltà militare, e si lascia al proprio destino l'Argentina perché il paese non riveste alcuna rilevanza strategica per gli Stati Uniti.

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Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.