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Home ›La tortura contro il terrorismo?
Il Corriere della sera, nell'articolo di fondo del 12 gennaio scorso, riprende la proposta del celebre avvocato americano Alan Dershowitz, apparsa recentemente sull' Economist, con la quale si chiede di rendere legale la tortura nella lotta al terrorismo. Il ragionamento svolto dall'avvocato è il seguente: la lotta al terrorismo richiede l'impiego di mezzi eccezionali e tra questi non si deve escludere la tortura se serve a sventare degli attentati dagli esiti catastrofici. Se questo è necessario, se questo è doveroso farlo per l'eccezionalità dello scontro in atto tra terrorismo ed Occidente, allora tutto ciò deve essere fatto con l'avallo delle leggi dello stato.
Il nostrano Corriere della sera, associandosi all'Economist, ritiene inaccettabile la proposta in quanto la pratica della tortura è stata abolita da tempo nell'ordinamento delle leggi degli stati moderni e questo, esso aggiunge, ha rappresentato un elemento di civiltà e progresso. Inoltre il giornale sostiene che non vi sarebbe alcuna garanzia, una volta legittimato l'uso della tortura nei confronti dei terroristi, che questa pratica non venisse impiegata discrezionalmente in ambiti più allargati.
Il ragionamento però prosegue constatando che la lotta al terrorismo, dopo gli attentati dell'11 settembre alle Torri gemelle, ha costretto all'impiego di mezzi che "normalmente, e fortunatamente, sono al bando in Occidente". Vengono citate, ad esempio, le disposizioni dell'amministrazione Bush ai servizi segreti in materia di "licenza di uccidere". Dopodiché viene posto il problema su cui si invita a riflettere. In pratica, così prosegue l'articolo, l'uso di mezzi attualmente illeciti è una cosa già praticata anche se all'insegna del "si fa ma non si dice" e ciò metterebbe in luce una contraddizione evidente tra la necessità di condurre la lotta al terrorismo con qualsiasi mezzo e la legalità. Di conseguenza per l'Occidente il problema diverrebbe quello di conciliare la necessità di salvaguardarsi dagli attacchi terroristici usando tutti i mezzi a disposizione rispettando allo stesso tempo quei diritti alla persona che caratterizzano la sua democrazia. La conclusione di questo ragionamento è la seguente: se la lotta al terrorismo riuscirà vittoriosa in tempi brevi, la democrazia dei paesi Occidentali non subirà grossi scossoni; se invece la lotta durerà degli anni, sarà difficile "non vendere l'anima al diavolo" e sarà altrettanto difficile non farsi contaminare dalla barbarie del nemico accettando la pratica di azioni, tra le quali la tortura, oggi illegali. In questa sibillina conclusione vi è tutta l'ambiguità del pensiero dell'articolista e più in generale di tutti coloro che stanno ponendo un problema del genere. A parole si condannano certe azioni ritenute incivili, di fatto si constata che vengono già praticate e verso di esse si ha un atteggiamento di pragmatica accettazione, di fatto ancora già si pone la questione dell'ineluttabilità della loro legalizzazione nel caso di una lotta non immediatamente vittoriosa. E il rispetto della dignità umana? E la tutela dei diritti individuali? E la condanna della tortura come abominevole strumento di persecuzione dei nemici imprigionati? Tutto ciò, in nome della ragion di stato, va a farsi benedire e viene liquidato in nome di una necessità superiore e di una minaccia, quella terroristica, di straordinaria pericolosità. Non nell'immediato certamente ma in un futuro molto prossimo se la lotta al terrorismo non fosse vincente in tempi brevi.
L'articolo e il fatto che in America si sia avviata una discussione in questi termini, non può non preoccupare. Se nell' attuale società venissero meno alcuni vincoli di legge che tutelano la persona (anche se siamo ben consapevoli del terribile contrasto che vi è tra l'affermazione dei principi e la pratica degli apparati repressivi), se venissero giustificate le pratiche della tortura, se in qualche modo si ritenesse legittimo infierire sul nemico con gli strumenti del dolore fisico che la storia ci ha orrendamente mostrato, allora non si potrebbe che costatare l' ulteriore imbarbarimento della società borghese. Colpisce anche il fatto che l'articolo del Corriere non sia stato ripreso da altre testate giornalistiche. Anche questa indifferenza è un segnale inquietante dell'aria che si respira in questa fase storica in cui la violenza viene considerata il mezzo di ordinaria amministrazione delle dispute internazionali. Contro tutto ciò esprimiamo il nostro dissenso: il proletariato e con esso l'umanità intera, deve ritrovare la forza per affermare il principio del rispetto totale ed incondizionato dell'uomo, per bandire dalla società ogni forma di violenza e di sfruttamento e per affermare il rispetto integrale della vita di ogni individuo compresa quella dei suoi oppositori. Nessuna gratuita violenza dovrà mai essere ammessa nel movimento comunista al fine di estorcere, con la crudeltà della tortura, una qualsiasi confessione. Qualsiasi cedimento a questo principio risulterebbe pericolosissimo perché renderebbe labile il limite di demarcazione tra la legittimità della lotta rivoluzionaria e l'affermazione di un regime poliziesco che nulla avrebbe da spartire con l'affrancamento dell'umanità dalla schiavitù, dalla barbarie e dalla violenza. Lo stalinismo ha sinistramente mostrato, anche attraverso questa strada, come sia stato facile capovolgere una prospettiva storica di liberazione degli uomini in una tragedia grondante di sangue quando la violenza contro l'individuo, la sua persecuzione, era l'arma quotidiana per estorcere qualsiasi verità.
CLBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #2
Febbraio 2003
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