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Home ›Guerra e Petrolio, un binomio indissolubile
Ma l'alternativa è il socialismo non un generico mondo possibile
A meno che Saddam Hussein non ceda alle pressioni di Putin e dei diplomatici di alcuni dei cosiddetti paesi arabi moderati e accetti di lasciare il potere per un dorato esilio in qualche posto sicuro, una nuova guerra imperialista e alle porte. Bush sostiene che è necessaria perché l'Iraq possiede armi di distruzione di massa e minaccia la sicurezza degli Usa e del mondo intero. Dati i rapporti di forza e le miserabili condizioni economiche in cui versa l'Iraq è evidente che si tratta di una colossale bugia. Gli stessi ispettori dell'Onu e molte fonti statunitensi ammettono che l'Iraq non è in grado di offendere chicchessia sia perché non possiede armi di distruzione di massa sia perché il suo apparato militare convenzionale è davvero poca cosa: la verità è che anche questa guerra se si farà sarà solo per il petrolio. Ormai petrolio e guerra costituiscono un binomio pressoché indissolubile come hanno già ampiamente dimostrato la guerra "umanitaria" contro l'ex Jugoslavia di Milosevic, quella contro l'Afghanistan, e le innumerevoli guerre cosiddette locali che hanno insanguinato e continuano a insanguinare le repubbliche interessate al petrolio del Mar Caspio e del Caucaso e un po' in tutto il resto del mondo.
Il petrolio è la linfa vitale della moderna società capitalista. Lo è in quanto materia prima e principale fonte energetica, ma, per queste sue caratteristiche che ne hanno fatto una merce universale, lo è anche, e forse soprattutto, perché fonte di una gigantesca rendita finanziaria di cui i principali beneficiari sono Gli Usa. Secondo alcuni economisti borghesi, gli Usa finanziano, per mezzo della rendita finanziaria che deriva loro dal fatto che le transazioni petrolifere avvengono in dollari, quasi tutta la loro gigantesca spesa militare ovvero qualcosa come circa settecento miliardi di dollari l'anno. Quel Bush nelle vesti del lupo arrogante della famosa favola di Fedro, le sue farneticazioni sulla guerra preventiva, non sono, dunque, come molti ritengono, il prodotto di una scelta politica sbagliata di un cow boy erroneamente e illegalmente approdato alla Casa Bianca, ma la conseguenza più coerente con gli interessi della superpotenza statunitense che su questa rendita poggia da tempo, senza alternative possibili, il suo primato.
Il suo poderoso apparato industriale che per anni è stato fonte di generosi extraprofitti derivanti dalla posizione semi-monopolistica di cui molte loro imprese godevano, è almeno dai primi anni '70 del secolo scorso che ha perduto la sua incontrastata supremazia. Da allora ne ha preso il posto il monopolio detenuto dal dollaro quale mezzo di pagamento internazionale. Da allora cioè gli Usa hanno basato il loro primato soprattutto sulla capacità del loro sistema finanziario incentrato sul monopolio del dollaro di generare un'enorme rendita finanziaria mediante la quale è possibile una crescente appropriazione parassitaria di plusvalore che integra quello generato direttamente dal loro apparato produttivo.
Nella filiera del processo di formazione e distribuzione della rendita, a determinare vantaggi e svantaggi è la minore o maggiore dipendenza dal dollaro. L'euro, come abbiamo più volte sostenuto, è nato, prima ancora che per porsi come una concreta alternativa al dollaro, proprio per limitare la dipendenza della più grande area economica del mondo, anche negli scambi interni, dalla moneta statunitense. Ora, è evidente che se, per una qualunque ragione, il controllo delle fonti di produzione e distribuzione del petrolio esercitato dagli Usa su scala planetaria dovesse ridimensionarsi o cessare anche la filiera della rendita finanziaria comandata dal dollaro subirebbe la stessa sorte mettendo così in discussione il primato stesso degli Usa e i grassi profitti di tutte quelle borghesie che in questa filiera sguazzano come pesci nel mare.
Per gli Usa, dunque, il controllo di ogni goccia di petrolio estratto ed estraibile in qualsiasi parte del mondo è necessario, vitale tanto più se sono vere le previsioni di molti esperti secondo cui lo sfruttamento delle riserve petrolifere sta raggiungendo il suo picco massimo e già nei prossimi cinque-dieci anni si potrebbe verificare una riduzione dell'offerta di petrolio di circa il trenta per cento e una conseguente proporzionale crescita dei prezzi.
L'Iraq ha la fortuna, ma in questo caso sarebbe meglio dire: la sfortuna, di essere, dopo l'Arabia Saudita, il paese con le più grandi riserve petrolifere note al mondo e la più lontane dal raggiungimento del loro picco massimo. Questa e solo questa è la ragione per cui l'Iraq non deve sfuggire alla presa americana e in un modo o nell'altro sarà americanizzata.
Ma quel che vale oggi per l'Iraq varrà domani per l'Iran e poi per qualche altro paese ancora, in un susseguirsi di guerre sempre più devastanti senza escludere anche la guerra generalizzata. La rendita finanziaria, infatti, non genera quote di plusvalore aggiuntivo, ma è una forma di appropriazione parassitaria di plusvalore per cui intanto è possibile appropriarsene in quanto comunque in qualche parte del mondo è prodotto. Essa, dunque, può accrescersi solo mediante l'esercizio di un potere imperialistico incontrastato cioè solo se si dispone di un apparato finanziario e militare, oltre che economico e politico, capace di controllare e interferire nel processo di trasformazione del plusvalore in denaro e nella fattispecie con il processo di formazione del prezzo del petrolio.
L'indissolubilità del binomio guerra-petrolio nasce, fra l'altro, proprio anche dal fatto che questa forma di appropriazione, che in ultima istanza si configura come una vera e propria rapina, presuppone da un lato un esercito sempre più potente e, dall'altro, proprio perché l'esercito deve essere sempre più potente, che il bottino della rapina sia sempre più consistente.
Sarebbe, però, errato dedurre da ciò una rappresentazione del mondo in cui da una parte ci sono gli Stati Uniti che sfruttano e razziano a man bassa e dall'altra indistintamente i loro oppressi. A trarre profitto dai meccanismi che regolano la produzione e l'appropriazione della rendita finanziaria, infatti, non sono solo gli Usa, anzi la borghesia statunitense, ma spesso anche le diverse borghesie locali a cominciare da quelle dei paesi produttori di petrolio che hanno goduto e in gran parte godono tuttora di questa rendita sia perché i processi che attendono alla sua formazione influenzano al rialzo il prezzo del petrolio sia perché il flusso di capitali che ne deriva è in dollari e in quanto tale gode di tutti i privilegi di questa moneta.
In verità, a fare concretamente le spese di questo meccanismo infernale, è soprattutto il proletariato internazionale e gli strati sociali più deboli della società; infatti quanto maggiore è la rendita in tutte le sue forme, tanto deve essere lo sfruttamento della forza-lavoro impiegata nei processi produttivi. Non è un caso che mentre gli economisti borghesi di fronte al dilatarsi della sfera finanziaria in relazione all'accrescersi della rendita, pronosticavano l'avvento di un nuovo Eldorado fatto di benessere e libertà per l'umanità intera, in realtà è accaduto esattamente l'opposto. Perfino negli Usa, i salari hanno subito forti decurtazioni tanto che ormai gran parte dei lavoratori non qualificati, che costituiscono circa il trenta per cento della forza-lavoro occupata, vivono al di sotto della soglia della povertà. Nel loro giardino di casa, poi, la fame la fa da padrona. Paesi un tempo ricchissimi come l'Argentina, il Venezuela e il Brasile sono alle prese con una catastrofica crisi di cui non si vede via d'uscita e se poi si allarga lo sguardo all'intera America Latina si rimane annichiliti dalle condizioni subumane in cui versano milioni e milioni di individui e a maggior ragione se poi lo si volge all'intero pianeta.
Per molti la prospettiva di un'economia, che nonostante il grande sviluppo delle tecniche produttive non è in grado di offrire altro che miseria e guerre a catena, è priva di alternative. Perfino quelli che passano per essere i suoi critici più radicali non riescono a immaginare altro che un generico quanto indefinito "nuovo mondo possibile" e affidano le speranze di costruirlo all'introduzione di una tassa (la Tobin Tax) sui movimenti del capitale speculativo. A tutti costoro più o meno consapevolmente, sfugge che la dilatazione dell'appropriazione parassitaria di plusvalore e tutto ciò che ne consegue non nasce da errate scelte di politica economica, ma dalle contraddizioni insite nel processo di accumulazione del capitale. È da qui che bisogna partire per comprendere esattamente che l'unica reale alternativa è il socialismo, non inteso come il proseguimento dell'economia capitalistica nelle mani dello stato come è accaduto in Russia dopo la sconfitta della rivoluzione d'Ottobre, ma come rottura definitiva con l'economia, con il concetto di valore in tutte le sue forme e dunque con ogni forma di sfruttamento; con il denaro e la sua accumulazione. Non, dunque, una generica alternativa, ma una soluzione moderna e concreta ai problemi posti dalla crisi del capitalismo. Un'alternativa che proprio per essere tale implica la necessità della costruzione di un grande partito comunista su scala internazionale perché senza una puntuale definizione degli strumenti politico-organizzativi e della strategia necessaria per realizzarla essa è destinata a restare una chimera, i proletari a subire fino alle estreme conseguenze la crisi del capitalismo.
Battaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #1
Gennaio 2003
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