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Home ›Berlusconi e il conflitto d'interesse giudiziario
Nel processo Sme per corruzione in atti giudiziari (poi unificato con quello Imi-Sir nel processo per il Lodo Mondadori) si tentò di allontanare dal tribunale giudicante il giudice a latere, Brambilla; raffiche di contestazioni e ricusazioni dei giudici naturali mirarono a far ricominciare tutto da capo. In seguito, l'establishment di Berlusconi è stato impegnato nelle operazioni d'assalto a magistratura, Csm e Associazione nazionale magistrati. Una riscrizione del codice civile e una riforma ad personam della giustizia si resero necessari per sistemare alcuni problemi e interessi di famiglia: legge sulle rogatorie, abolizione della tassa di successione e del reato di falso in bilancio (che dovrebbe essere per la stessa borghesia uno dei più gravi in materia di criminalità economica). La legge sul conflitto d'interessi consentirebbe a Berlusconi di essere contemporaneamente capo del governo e azionista di controllo di Mediaset, banche, assicurazioni e grandi gruppi industriali.
Diffusa a piene mani la cultura del sospetto nei confronti dell'imparzialità degli organi giudicanti e loro sedi (noi, "bolscevichi", manco a dirlo, saremmo finiti alla gogna per aver minato la fiducia dei cittadini nella Giustizia!), ecco l'apposita legge che - capolavoro dell'ipocrisia politica - "in astratto potrebbe tornare utile a Berlusconi e Previti". Dal codice Rocco si ripristina il criterio del "legittimo sospetto" nel tentativo di pilotare da una sede all'altra, più favorevole, alcuni processi.
Ricchezze e poteri, e quindi avvocati di "grido" (Berlusconi se li è portati in Parlamento) a disposizione di imputati eccellenti, consentiranno di ottenere favorevoli interpretazioni delle nuove norme, procrastinando la fine dei processi dopo aver ricusato i giudici accusati di "preconcetti" derivanti dalle loro simpatie politiche, e altro, per questa o quella fazione borghese. La famosa bilancia si adegua ancor meglio, in nome della civiltà giuridica, imparzialità e indipendenza della magistratura e Stato di diritto, agli interessi tanto privati che pubblici dei potenti in grado - legalmente - di rendere "sempre più imbelle la giustizia penale e ormai ingestibile il processo penale" (G. Verde, ex vice presidente Csm). Nei loro riguardi, s'intende, e della loro vasta clientela.
Quanto agli interessi di classe, in fatto di rimozione del giudice naturale non mancano significative esperienze di ciò che possa essere legittimamente sospettabile: dal processo per il delitto Matteotti nel primo dopoguerra, col trasferimento da Roma a Chieti per meglio coprire i mandanti; al processo per le schedature Fiat, trasferito da Torino perché "permane uno stato di tensione nell'ambiente sindacale e frequenti agitazioni delle masse operaie" (citazione tratta dalle motivazioni della sentenza). E non dimenticheremo mai il processo contro i nostri compagni di San Polo (settembre 1946) per l'uccisione del marchese Viviani Della Robbia (vice-federale di Firenze). Processo che fu rimesso da Firenze all'Aquila per motivi di ordine pubblico, ovvero per meglio calunniare e diffamare i nostri compagni e presentare come un "martire" l'ex gerarca fascista. Il verdetto della Giustizia borghese, o meglio della sua rappresaglia di classe, fu di una condanna a 23 anni (ridotti a 18) per il compagno Ilario Filippi, e a 20 (13) per altri quattro compagni: Orlando Piazzesi, Oscar Valoriali, Secci Alfredo e Sergio Salvadori, morto poi nel settembre 1950, a 21 anni, nel carcere di Parma.
Strattonata da destra e da sinistra, fra proclami di giustizialismo o di garantismo, la visione borghese del giusto processo e del giudice terzo e imparziale non riesce a liberare la propria suprema lex da quel privilegium, da quell'interesse privato che la condiziona. E che la rappresentanza della Nazione, il Parlamento, sa ben tutelare al momento opportuno; richiamando, apertamente, un interesse privato in atti parlamentari, fino alla prefigurazione di una legge che possa bloccare tutti i procedimenti penali a carico dei parlamentari. Abolita nel '93 la vecchia autorizzazione a procedere, ora si tratta di "distinguere fra ipotesi di reato legate all'attività poilitica e reati comuni" (Giovanardi, ministro rapporti con il Parlamento). I colleghi dell'onorevole rinviato a giudizio verificheranno la sussistenza o meno di un fumus persecutionis. Lupo non mangia lupo...
I consensi e i dissensi - a parte i formalismi - attraversano le varie fazioni borghesi, che si mascherano dietro il rifiuto di automatismi troppo evidenti o con l'introduzione di ipocrite distinzioni. L'opposizione di oggi ebbe ieri il caso Prodi, coinvolto nell'inchiesta Sme, e gli scontri si svolgono pur sempre fra consorterie politiche che, dietro bandiere sdrucite di alti valori di giustizia e libertà, in realtà fanno i propri affari. Da sempre poco puliti.
Il rapporto fra magistratura e potere politico può momentaneamente entrare in crisi quando a contendersi quel potere sono due fazioni borghesi. Prendendo atto del "tramonto dell'indipendenza della magistratura e della lenta agonia della giustizia", a cui ancora l'ex vice presidente del Csm dichiara di "assistere rassegnato" (Corsera,6 agosto), non possiamo che sorridere ai tentativi - tornando alle proposte di Giovanardi - per "correggere lo squilibrio fra potere giudiziario e politico". Uno squilibrio resosi evidente di fronte alle particolari applicazioni di una tanto discrezionale quanto formale obbligatorietà dell'esercizio dell'azione penale e della indipendenza e autonomia (di facciata) dei pubblici ministeri. Al punto in cui siamo, meglio sarebbe abbandonare ogni equivoco ed avallare apertamente - secondo usi e costumi internazionali - la discrezionalità dell'azione penale e la dipendenza degli organi dell'accusa dall'esecutivo politico.
Per salvare Previti e Berlusconi, si tratta di stabilire che se un "cittadino" si dà all'attività politica deve essere protetto - dice Giovanardi - "contro indagini e persecuzioni, soprattutto per quelle ipotesi di reato legate all'attività politica, impedendo che un giudice abbia il potere di stroncare quando e come vuole una carriera politica"... Tutto questo corrisponderebbe anche ad "un sentimento di giustizia popolare" dando ad ogni parlamentare la possibilità di "adire il Parlamento per difendersi dalle persecuzioni", oltre il periodo dello stesso mandato parlamentare, sempre per "non stroncare una carriera politica. Ed anche perché - al colmo della...impudicizia politica e dell'imbroglio - se un parlamentare viene rieletto significa che l'opinione pubblica, l'elettorato, ha avallato la decisione del Parlamento, concorde in qualche modo con l'esistenza di una forma di persecuzione". Ovvero, la perpetua immunità a chi si fa rieleggere dalla propria consorteria politica.
Nel timore che una simile etica politica non sia chiaramente compresa, ecco un'altra precisazione: "per reati comuni, dall'omicidio alla rapina, anche il parlamentare deve essere trattato come tutti gli altri cittadini. Ma in altri casi (esempi emblematici: Andreotti, Mannino, Bossi) nessun cittadino potrebbe mai essere impiccato per quelle cose. E per quelle accuse collegate all'attività politica (Mannino), all'appartenenza ad una corrente (Andreotti) o - come Bossi - per le sue idee"... Nel caso poi si tratti di casi contestati quando gli interessati non facevano politica (e qui entrano in scena il...gatto e la volpe) allora "la persecuzione è dimostrata dalla coincidenza temporale se gli atti giudiziari sopravvengono solo quando, come nel caso di Berlusconi, l'accusato è sceso in politica".
Dopo tutto, l'attività politica dei borghesi che altro è se non il proseguimento di affari e interessi privati (di gruppo, di lobby o di classe)?
Battaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #1
Gennaio 2003
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