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Home ›I "balzi in avanti" del capitalismo popolare cinese
Alla fine dello scorso ottobre, il ministro cinese delle Finanze si compiaceva per gli ottimi risultati economici conseguiti nei primi sei mesi del 2001: + 7,8% il Pil, + 24 miliardi di dollari le riserve di valuta, + 8,7% l'export. Ma in dicembre arrivano dati meno ottimistici: nel terzo trimestre sono fortemente calate le esportazioni e l'espansione del Pil è scesa al 7%. E c'è di peggio: i profitti delle imprese industriali, che vantavano punte del 14% d'aumento, sono scesi come dato medio dei primi nove mesi dell'anno all'8,4%.
I primi effetti della "congiuntura" in cui si dibatte il capitalismo americano ed europeo non possono che ripercuotersi in Cina, nel momento in cui la sua integrazione nel capitalismo globale è un fatto ufficiale. Gli ingranaggi del "grande balzo in avanti" del capitale targato Pechino cominciano a rallentare. Anche il ministro del Lavoro avanza dubbi sulla prevista creazione di otto milioni di nuovi posti di lavoro nel 2002, col pericolo di una disoccupazione ben oltre l'attuale 4,5%.
La Cina, con l'ingresso formale nella Wto (Organizzazione Mondiale del Commercio) ritorna a far parte del "club di capitalisti" da cui era uscita nel 1950 per salvaguardare la sua forzata accumulazione capitalistica e, con altre spinte alla privatizzazione imprenditoriale e alla liberalizzazione del mercato, spalanca ufficialmente le porte al capitale e al commercio internazionali, in una convergenza di interessi e di contrasti che costituirà presto una esplosiva miscela.
L'integrazione della Cina nella "comunità internazionale" è un fatto compiuto: la valorizzazione del capitale non tollera barriere di alcun genere, men che meno quelle nazionali. Inoltre è diventato urgente - nel confronto con le altre potenze economiche - disciplinare anche giuridicamente una vitale (per il capitale) concorrenza interna ed esterna, che in un vasto paese come la Cina viene distorta dai poteri quasi feudali di vaste province, da influenze, boicottaggi e corruzioni di una ancora onnipotente burocrazia, annidata nei carrozzoni amministrativi e nelle aziende di Stato..
La Repubblica fondata da Mao si prepara quindi a sviluppare i muscoli del proprio "capitale popolare" spianandogli la strada della massima efficienza e funzionalità competitiva. E la sola competitività che il capitale conosca, unico scopo della sua esistenza, è la capacità di rastrellare quanto più profitto possibile, il prodotto cioè dello sfruttamento del proletariato. Avanti perciò con le tradizionali riforme-stangate che l'Occidente ha già da tempo messo in atto, in uno scenario socio-economico - quello cinese - da far tremare i polsi pure al fantasma del suo patriottico Timoniere: circa 712 milioni di venditori di forza-lavoro chiedono quel "pane e lavoro" che anche il capitalismo cinese, a pieno diritto nell'infernale girone del mercato globale, deve invece rigorosamente misurare e ridurre per le esigenze di una concorrenza e redditività che impongono sempre più sfruttamento della forza-lavoro e sempre meno salari e posti di lavoro.
A proposito di riforme, anche in Cina ha già preso il via quella del...sistema pensionistico, mentre, andando avanti di questo passo, si teme un futuro debito pubblico complessivo pari al 150% del Pil e, di conseguenza, si studiano inevitabili tagli alle spese sociali e qualche altra opportuna "sospensione" dei famosi diritti civili, sindacali e politici.
Quasi il 90% dei lavoratori cinesi è a tutt'oggi impiegato in quel settore pubblico che dovrà essere drasticamente ridimensionato per consentire "investimenti produttivi" e dare maggior vigore alla raccolta di plusvalore; andrà perciò accelerata l'opera di epurazione nelle file di una armata di funzionari e burocrati di Stato poco disposti a perdere poteri e privilegi. Sono 50 mila le imprese di Stato che producono solo il 30% del fatturato nazionale godendo del 70% dei prestiti delle banche statali. Milioni di licenziamenti si annunciano nei prossimi anni, specie nei settori metallurgico e automobilistico; solo in minima parte si prevede un "riassorbimento" nell'industria tessile e in quella dei...giocattoli. Nell'agricoltura, costretta ora a "confrontarsi" col mercato mondiale, si calcola un "esubero" di almeno 7 milioni di lavoratori.
Un quadro, a ben guardare, non del tutto rassicurante per i capitalisti occidentali che si affollano intorno alla Cina a caccia di nuovi consumatori e sperando nella diffusione di quel "benessere" indispensabile per la vendita delle loro merci. Gli investimenti di capitali stranieri in Cina si aggirano da 5 anni attorno ad una media annuale di 43 miliardi di dollari e alimentano a loro volta una colossale ristrutturazione industriale che sarà pagata a caro prezzo dal proletariato cinese. Le multinazionali americane, in particolare, premono sia su Washington che su Pechino chiedendo l'abbattimento di quanti più ostacoli si possa affinché la Cina assicuri alle loro filiali estere un bottino (7 miliardi di dollari nel 2000) in rapida crescita. Visto come il Governo di Pechino ha dato sostegno alla campagna anti-terrorismo scatenata dagli Usa dopo l'11 settembre, è indubbio che anche il capitale cinese per ora non ha altre vie d'uscita che una fruttuosa collaborazione con quello americano. Col tempo - e con l'inevitabile sviluppo delle contraddizioni economiche, delle lotte interne di potere e di qualche "ribellione" da parte di un proletariato urbano e contadino sul quale si abbatteranno conseguenze drammatiche - si vedrà meglio verso quale soluzione sarà costretta a indirizzarsi la borghesia cinese. Tenendo conto del micidiale potenziale bellico di cui la Cina dispone, uomini e armi ad alta tecnologia, la diffusione globale dei venti di guerra e le scelte delle alleanze imperialistiche avanzano di pari passo.
Nel frattempo, gli altri Stati asiatici, dal Giappone alla Malaysia, guardano a Pechino con allarmata preoccupazione; a sua volta, la stessa grave crisi giapponese comporta qualche pericolo per il capitalismo cinese il quale, per sostenere lo yen, ha già sacrificato una enorme quantità di riserve valutarie. Secondo gli "esperti", se il cambio yen-dollaro salirà a quota 160, Cina e Corea sarebbero costrette alla svalutazione. Se questo non accadde nel '98 lo si deve all'intervento degli Usa, preoccupati per un terremoto dei già delicati equilibri finanziari sull'intero sistema internazionale. Ed anche in Cina - dove la critica della economia politica di Carlo Marx sta trionfando proprio grazie ai balzi e, molto presto, ai tonfi dell'ultima via capitalistica al socialismo! - la Banca Centrale ha dovuto per nove volte adeguarsi ai tagli americani dei tassi d'interesse, abbassando cioè a sua volta i tassi applicati sull'attività in dollari.
Resta un fatto materiale e niente affatto "ideologico" che la crisi mondiale del capitalismo comincerà presto a lasciare i suoi segni anche sul corpo del gigante cinese. Si aggiungano gli investimenti per la realizzazione di gigantesche opere pubbliche infrastrutturali, che Pechino lancia a sostegno di quell'incompatibile sviluppo capitalistico che sta portando alla distruzione - se non sarà bloccato in tempo - la nostra stessa sopravvivenza sul pianeta. Il consumo-distruzione dell'ambiente e delle risorse naturali è il prezzo che il capitalismo esige per la sua conservazione e accumulazione. Ne fanno parte i colossali progetti cinesi per la costruzione di dighe e la deviazione delle acque in favore della forzata industrializzazione e urbanizzazione di vaste aree geografiche: ogni anno si prevede la costruzione di 40 nuove città con l'obiettivo di portare la popolazione urbana dagli attuali 400 milioni a 750 milioni; si parla addirittura di decine di megalopoli con 30/50 milioni di abitanti. Lo stesso per gasdotti ed elettrodotti, centrali nucleari (2 in funzione,4 in costruzione e una decina in progetto). Tutti interventi che si annunciano come veri e propri incubi geologici e causa certa di megadisastri a breve termine, a fianco di crisi e barbarie dilaganti. Al proletariato cinese e a quello internazionale il grave compito storico di una risposta di classe, unica soluzione per sé e per l'intera umanità.
dcBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #3
Marzo 2002
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